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Il PANEVIN … rito veneto

Molti ricordi mi legano alle bellissime feste attorno al panevin, ai canti, ai momenti gioviali e perché no, anche all’attesa impaziente  della divinazione che dopo l’accensione usciva da quel falò per l’anno nuovo.

Momenti autentici e genuini di un Veneto legato alle tradizioni e alla terra.

Una sorta di rito tra il pagano e il cristiano che in me ha sempre suscitato molto fascino.

 

La tradizione del Panevin fonda, infatti,  le sue radici nel lontano periodo celtico (circa V sec. A.C.) presso l’antico popolo dei Veneti.

Questo falò serviva per evocare il ritorno del sole sulla terra, cioè l’allungarsi delle giornate che inizia dal solstizio d’inverno. Il fuoco serviva per celebrare questo giorno che con il calendario Giuliano coincideva con il 25 dicembre.

Nel Medioevo, con l’evangelizzazione delle campagne venete, il Panevin assunse una connotazione cristiana e fu  spostato al giorno dell’Epifania per ricordare i Re Magi che portarono i doni a Gesù Bambino. Secondo la leggenda i falò della campagna veneta furono loro utili per trovare la via di Betlemme essendosi persi.

Al  ritorno, racconta sempre la leggenda, non vedendo nessuna luce nella campagna, si persero nuovamente nella pianura Padana andando a morire nel Milanese. Nella notte del 5 gennaio nel Medioevo, come anche oggi, l’occasione del falò forniva al popolo un momento di unione e ritrovo con tutta la comunità cittadina davanti a pinza e brulè aspettando con ansia la divinazione per l’anno nuovo che il fuoco dava.

 

Una delle principali tradizioni legate al Panevin, infatti,  è quella di osservare in che direzione va il fumo; in base a questa, i contadini trevigiani predicevano se il raccolto dell’annata sarebbe stato buono o cattivo.  Questo momento è detto dei “pronosteghi” e quelle che appartengono alla mia tradizione sono le seguenti anche se esistono molte altre versioni.

“se le fuische le va a matina, ciol su el saco e va a farina” (cioè se la direzione presa dal fumo e dalle faville è il nord o l’est, prendi il sacco e vai ad elemosinare)

“se le fiusche  le va a sera,  polenta pien caliera” (se la direzione è ovest o sud, il raccolto sarà buono…quindi la pentola sarà piena di polenta)

Lo scorso anno le fuische andavano a a mattina e quest’anno ci sarà un bella sorpresa che dite.

Alberta Bellussi

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Il 13 dicembre è Santa Lucia.

Tante davvero le cose che rimandano a questa Santa, proverò in questo mio disquisire a cercare di dare una spiegazione a quelle più note e legate al nostro territorio.

In questa giornata ci torna alla mente il detto popolare: “Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia”.  Questo detto risale al periodo fino al 1582, quando il solstizio d’inverno cadeva proprio il 13 dicembre; ma in quello stesso anno Papa Gregorio XIII riformò il calendario, che risaliva all’epoca di Giulio Cesare perché non era più corrispondente con la realtà dei fatti presentava troppe imprecisioni.  Fu, quindi,  adottato un calendario, dove i  calcoli della scienza, collocano il giorno più breve in corrispondenza del solstizio d’inverno, che cade tra il 21 e il 22 dicembre.

In alcune regioni del Nord Italia, come il Trentino, il Friuli Venezia Giulia, la Lombardia, l’Emilia e il Veneto esiste una tradizione legata alla Santa, il 13 dicembre, giorno della sua morte. I bambini le scrivono una letterina, dicendo che sono stati buoni e si sono comportati bene per tutto l’anno, e chiedendo in regalo dei doni. Preparano del cibo e delle carote sui davanzali delle finestre, per attirare la Santa e il suo asinello e poi vanno a letto.

In Svezia e in Danimarca è abitudine che la mattina del 13 dicembre la figlia primogenita si vesta con una tunica bianca e una sciarpa rossa in vita e, con il capo coronato da un intreccio di rami verde e sette candeline, porti caffè, latte e dolci ai famigliari ancora a letto, accompagnata dalle sorelle più piccolo vestite con tunica e cintura bianche.

Ma chi è questa santa italiana così generosa e quale la sua storia? Scopriamola insieme…

La prima leggenda

C’era una volta una piccola e bella fanciulla siciliana di nome Lucia, figlia di un ricco nobile di Siracusa. La bimba sin da subito si sentì profondamente legata al Cristianesimo, tanto da voler dedicare la sua vita al Signore. I genitori non concordavano con questa sua decisione e vollero sposarla con un giovane pagano, ma lei si rifiutò. Da quel momento iniziò una vera e propria persecuzione per farle cambiare idea, ma Lucia non volle saperne, così per punizione le vennero strappati gli occhi e infine fu uccisa, oggi infatti è considerata la protettrice della vista.

Una volta defunta, Lucia salì in cielo e conquistò con i suoi modi affabili tutti i santi, compreso lo scontroso S. Pietro.  Lucia era molto triste. San Piero chiese la ragione di tanta malinconia e lei rispose che avrebbe tanto voluto rivedere la sua amata Sicilia e i suoi poveri. S. Pietro si commosse e decise di chiedere a Dio se fosse possibile esaudire tale desiderio. Dopo un po’ udì un tintinnio: il Signore aveva in mano una chiave dorata, con la quale Lucia avrebbe potuto aprire una finestrella sul mondo. Così S. Pietro e Lucia salirono su una nuvoletta che li portò alla finestrella, Lucia infilò la chiave nella fessura e le apparve il mondo. La Santa fu felice di quella visione ma dopo un po’ di tempo qualcosa ricominciò a turbarla.

Un giorno decise di tornare sulla nuvoletta e di dare un’altra sbirciatina sul mondo, ma questa volta quello che vide fu terribile, le comparvero infatti tutte le ingiustizie degli uomini e le sofferenze dei poveri bambini. Lucia, triste e dispiaciuta, se ne tornò in cielo ma il Signore riconobbe il suo turbamento e decise che da quel momento sarebbe stata proprio lei a portare una volta all’anno, il 13 dicembre giorno del suo martirio, un po’ di felicità ai bimbi della terra. Lucia, fattasi Santa, raccolse moltissimi giochi e li mise in grandi sacchi, il peso però era davvero eccessivo, così S. Pietro chiese in giro se c’era qualcuno disposto ad aiutarla. Fu allora che si sentì pronunciare un sonoro “Iho, Iho”, era l’asinello di Pietro, che tutt’oggi le fa da fedele accompagnatore.

 

Secondo un’altra leggenda diffusa a Verona, verso il XIII secolo in città c’era  una grave ed incurabile epidemia di “male agli occhi” che aveva particolarmente colpito i bambini. La popolazione allarmata, aveva allora deciso di chiedere la grazia a Santa Lucia, compiendo un pellegrinaggio a piedi scalzi e senza mantello, fino alla chiesa di S. Agnese, dedicata anche alla martire siracusana. Oggi nel luogo dove un tempo sorgeva la chiesa, si trova invece la sede del Comune scaligero: Palazzo Barbieri.

La storia tramandata racconta che a causa del freddo i bambini della città si rifiutarono inizialmente di partecipare al pellegrinaggio. Per risolvere la situazione i genitori promisero loro che, se avessero ubbidito accettando di unirsi nella processione a piedi scalzi, la Santa avrebbe fatto trovare, al loro ritorno, numerosissimi doni. I bambini accettarono felici, l’epidemia terminò subito e da quel momento in poi è rimasta la tradizione il 13 dicembre di portare in chiesa i bambini per ricevere una benedizione degli occhi.

Nel corso del ‘900 in concomitanza con la ricorrenza di Santa Lucia, si è venuta a creare a Verona la tradizione di dare vita alla grande fiera che proprio nei tre giorni precedenti il 13 dicembre si svolge tra Piazza Bra, via Roma e piazza Cittadella, riempite dai cosiddetti “bancheti de Santa Lussia” che offrono a tutti gli interessati la possibilità di gustare specialità enogastronomiche o di acquistare prodotti tipici artigianali.

Anche a Santa Lucia di Piave in Provincia di Treviso si svolge una delle fiere agricole più antiche del Veneto.

Forse non tutti lo sanno e a me è capitato, nel mio vagare per Venezia, di entrare nella Chiesa di San Geremia e di trovare, con grande sorpresa,   le spoglie di Santa Lucia.

Originariamente le spoglie di Santa Lucia erano custodite a Siracusa, città natale della Santa, e qui rimasero per diversi secoli dopo la sua morte. Successivamente, durante le invasioni arabe dell’878, il corpo fu spostato in un luogo segreto perché fosse al riparo dagli attacchi. Nel 1040, il comandante bizantino Giorgio Maniace sottrasse Siracusa al dominio arabo e fece trasferire le spoglie della Santa a Costantinopoli. Il trasferimento definitivo a Venezia avvenne nel 1204, dopo la conquista di Costantinopoli da parte della Serenissima; il luogo designato per ospitare le reliquie fu la Chiesa di San Giorgio Maggiore ma nel 1861 fu abbattuta per offrir spazio all’attuale stazione ferroviaria che ancor oggi ne conserva il nome. Le spoglie della santa furono portate nell’attuale teca nel 1863 nella Chiesa di San Geremia che  si trova nel Sestiere di Cannaregio ed affaccia sul Canal Grande, vicino alla Stazione ferroviaria.

La chiesa che contiene le reliquie  è un importante edificio di culto che al suo interno custodisce molte   opere d’arte e  i resti mortali della venerata Santa Lucia di Siracusa. Sulla facciata esterna, visibile passando sul Canal Grande, si può leggere la seguente iscrizione:  ” Lucia Vergine di Siracusa in questo tempio riposa. All’Italia e al Mondo ispiri luce e pace”. Il luogo è meta di innumerevoli fedeli che da ogni parte del mondo portano venerazione alla santa.

L’episodio che molti a Venezia ricordano, è relativo alla trafugazione di Santa Lucia, avvenuta nel 1981, anno in cui alcuni delinquenti sottrassero le sue spoglie con un’azione fulminea e a mano armata, per poi chiedere un riscatto. Provvidenzialmente le spoglie della santa furono recuperate dalla polizia proprio nella data della sua celebrazione, il 13 dicembre dello stesso anno. Ogni anno nel Giorno di santa Lucia, si intensificano le celebrazioni e molti sono i visitatori che si recano alla Chiesa di San Geremia per rivolgere una preghiera alla santa ed accendere una candela.

Merita una visita.

Alberta Bellussi

 

 

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Il 6 dicembre si festeggia San Nicolò.

Chi, come me, ha passato la sua infanzia nella Sinistra Piave Trevigiana ricorda sempre questa giornata con un po’ di nostalgia. I santi che portano i doni ai bimbi nel periodo dell’Avvento sono diversi, a seconda delle usanze seguite nelle differenti zone d’Italia. Da me, la notte del 5 dicembre passava con il suo carretto trainato da uno stanco asinello e lasciava il dono del suo passaggio. Dalle mie parti  la tradizione vuole che,  la notte  prima del 5 dicembre, i bimbi scrivano una letterina al Santo con la richiesta di doni. Ricordo ancora le mie letterine,   il bicchierino di grappa, la sigaretta e un po’ di paglia per l’asinello. Non mi stupii mai che i gusti del Santo combaciassero perfettamente con quelli di mia mamma, ma io ho sempre voluto credere alle favole e mi andava bene così. Ricordo la vibrante emozione di quei momenti che alimentavano i miei sogni di bambina romantica. La mattina del 6 dicembre mi svegliavo prestissimo; ero emozionata e aprivo la finestra della mia cameretta e trovavo il mio pacchettino. Il cuore mi batteva forte forte. Erano piccoli regali ma avevano un grande significato.

A scuola poi si imparava la canzoncina:

San Nicolò de Bari

xè la festa dei scolari

 

 

San Nicolò, nel mio immaginario di bambina, me lo sono sempre rappresentata vestito da vescovo. Essendo un vescovo appunto, era raffigurato con la mitra e il pastorale. L’aria severa era poco compatibile con il ruolo che gli era stato attribuito. In realtà c’era anche un’altra versione, decisamente più allegra: quella di un vecchietto con la barba bianca e il vestito rosso bordato di bianco. Così venne descritto San Nicholas nel poema A Visit from St. Nicholas scritto da Clement C. Moore nel 1821.

Tutto ciò crea un pò di confusione e questa figura si confonde con quella di Babbo Natale e siccome qualche giorno dopo arriva anche lui a portarci i doni, continuai   a preferire la raffigurazione classica di San Nicolò in abiti vescovili così le due figure erano distinte e mi arrivavano due regali.

C’è un legame tra il nostro San Nicolò e questo San Nicholas con le fattezze di Babbo Natale?

Uno dei simboli del Natale è sicuramente il vecchio allegro e paffutello che porta i doni: Babbo Natale. Come molti sanno, la sua figura è legata a San Nicola di Myra in Anatolia.

Fin dal VI secolo il culto di San Nicolò (o San Nicola) era diffuso in tutto l’oriente. La sua fama quindi approdò in Italia, specie a Roma e nel sud che allora era dominato dai Bizantini. Attraverso i secoli il ricordo di questo santo non si spense, tanto che viene nominato come San Nicolò di Bari, quasi la città pugliese l’avesse adottato. Tuttavia, i baresi, di cui è anche patrono, festeggiano il santo il 9 maggio, giorno in cui le sue spoglie arrivarono in città nel 1087, mentre nel nord la sua festa ricorre, come ho già detto, il 6 dicembre che è la data in cui sarebbe morto a Myra nel 343.

È credenza diffusa che le reliquie di San Nicola si trovino nella Basilica di San Nicola a Bari, ma quest’ultima conserva circa la metà dello scheletro del santo, perché il resto si trova a Venezia…

Quando Myra cadde in mano musulmana, Bari e Venezia, che erano dirette rivali nei traffici marittimi con l’Oriente, entrarono in competizione per il trasferimento in Occidente delle reliquie del santo.

Nel 1087 una spedizione di marinai baresi raggiunse Myra e si impadronì di circa metà dello scheletro di Nicola.

I Veneziani non si rassegnarono e nel 1099 approdarono a loro volta a Myra per visitare il sepolcro vuoto dal quale i baresi avevano prelevato le ossa. Tuttavia qualcuno rammentò di aver visto celebrare le cerimonie più importanti non sull’altare maggiore, ma in un ambiente secondario… E fu proprio in tale ambiente che i veneziani rinvennero una gran quantità di minuti frammenti ossei che i baresi non avevano prelevato! I resti vennero trasferiti nell’abbazia benedettina di San Nicolò del Lido nella laguna di Venezia.

San Nicola di Myra era molto venerato a Venezia, essendo il Santo patrono dei marinai: ai tempi della Repubblica Serenissima, durante la Festa della Sensa, al termine della celebre cerimonia dello sposalizio del Mare, la messa solenne di ringraziamento veniva celebrata proprio nell’abbazia benedettina di San Nicolò del Lido.

Alberta Bellussi

 

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Perché questo detto? “Veneziani gran signori, padovani gran dottori…”

L’hai sicuramente recitato un sacco di volte questo detto che prende in rassegna, in modo eccessivo e ironico, le caratteristiche delle province venete.

 “Veneziani gran signori, padovani gran dottori, veronesi tutti matti e vicentini magna gatti”.

In realtà la versione ridotta di una filastrocca ben più lunga che parla anche di altre città del nord come Brescia e Bergamo.

La versione completa è:

 “Veneziani, gran Signori;

Padovani, gran dotori;

 Vicentini, magna gati;

Veronesi … tuti mati;

Udinesi, castelani co i cognòmj de Furlani;

Trevisani, pan e tripe;

Rovigòti, baco e pipe;

 i Cremaschi fa coioni;

i Bresàn, tàia cantoni;

ghe n é ncora de pì tristi… Bergamaschi brusacristi!

E Belun? Póre Belun, te se proprio de nisun!”

Ma proviamo ad analizzare le caratteristiche delle città venete che la filastrocca enuncia e a capirne il significato storico e culturale.

 

Veneziani gran signori: Venezia, ai tempi della Repubblica Serenissima, era sicuramente una delle potenze commerciali più grandi del Mondo. La sua aristocrazia, i mercanti erano molto ricchi   e il mecenatismo che si viveva in città hanno dato a Venezia la fama, in tutto il mondo, dello splendore estetico, economico e culturale della stessa. Venezia città di fasti, lusso sia nell’architettura civile che religiosa ma anche privata.

Padovani gran dotori:  una delle più antiche università europee è proprio quella di Padova. Nel corso della sua lunga storia, l’Università di Padova fu luogo d’incontro di alcune tra le più importanti personalità europee ed italiane, tra le cui fila si annoverano personaggi del calibro di Leon Battista Alberti, Galileo Galilei, Niccolò Copernico, Giuseppe Colombo e molti altri. Qui si laureò anche la prima donna laureata in Italia, Elena Lucrezia Cornaro.

Vicentini magna gati: è probabile che questo detto  derivi  dalla povertà diffusa in territorio vicentino, quando trovare da mangiare non era sicuramente facile quindi ci si cibava anche di questi animali.

Veronesi tuti mati: sembrerebbe che il detto si riferisca all’aria frizzantina che soffia spesso dal Monte Baldo, non a caso un tipo originale o stravagante è definito “uno spirito montebaldino”. Un’altra versione fa risalire il detto alla presenza di due grandi manicomi, uno a San Giacomo e uno a Marzana.

Trevisani pan e tripe: a  differenza di oggi, ai tempi della Serenissima Treviso non era considerato un territorio ricco, infatti  il piatto pane e trippa era ritenuto  uno dei più poveri che si potesse portare a tavola.

Rovigoti bacco e pipe: Rovigo è famosa per essere patria di famosi bevitori e fumatori, ancora oggi la grappa è uno dei prodotti tipici della provincia.

E Belun? Póre Belun, te se proprio de nisun!

Belluno era ritenuto un luogo difficile da raggiungere, freddo e nevoso. Il detto sta proprio ad indicare questo fatto di essere agli estremi della Regione un po’ fuori dal giro.

I detti hanno sempre una spiegazione che spesso è affascinante ma soprattutto carica di valore storico  e culturale.

Alberta Bellussi

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Andémo béver un’ombra in un bàcaro

Quante volte si sente dire : “Ciò, Andémo béver un’ombra!”…

E’ questo un invito conviviale molto usato in Veneto e si tramanda da generazioni. Davanti a un “ombra” cioè a un bicchiere di vino si fanno quattro chiacchiere con gli amici, si concludono affari, ci si rilassa per spezzare la giornata.

 

Ma da dove deriva questa espressione?

Il termine  risale  alla fine del secolo quattordicesimo quando, attorno al campanile di S. Marco, venivano montate molte   bancarelle  di legno che proponevano varie attività commerciali: rigattieri, panettieri, spezieri e osterie. La Piazza era infatti il luogo ideale per incontri e chiacchiere, solitamente accompagnate da un buon bicchiere di vino. I mescitori di vino avevano molto lavoro; loro per  non rovinare il prezioso liquido di Bacco e mantenerlo sempre fresco anche nelle stagioni più calde,  spostavano la loro bancarella attorno al Campanile, inseguendo la sua ombra man mano che si spostava il sole. Il vino, per essere buono, doveva rimanere all’ombra e così il bicchiere di vino prese il nome … l’ombra.

Un’altra spiegazione simile nel contenuto ma diversa nella contestualizzazione poggia le sue basi nella civiltà contadina. Tempo fa i contadini al momento della mietitura si alzavano molto presto e verso le 9/10 erano 4/5 ore che lavoravano di falce, il sole a picco …..a quell’ora le donne portavano la merenda ( polenta e ….poco altro).
Ecco che allora si disse :
‘Ndemo farse un ombra…vale a dire : andiamo all’ombra di un albero e bere un bicchiere di vino e a mangiare.
Cit Marino Panto

Un tempo  si diceva: “Andémo béver all’ombra”, che con la trasmissione orale divenne : “Andémo béver un’ombra”.  Questo modo di dire è tutt’ora molto vivo e molto usato in tutto il Veneto.

E “l’ombra” a Venezia si beve nel bàcaro.

L’etimologia dell’appellativo bàcaro è alquanto controversa, nel corso degli anni, infatti, si sono affermate 4 teorie sulla sua origine:

  • secondo la prima il termine bàcaro deriva dal nome del dio romano del vino e della vendemmia: Bacco;
  • una seconda teoria fa desumere il nome dalla tipica espressione veneziana “far bàcara“, che letteralmente significa “far festa”; si fa risalire, infatti, a una esclamazione di un gondoliere che un giorno, assaggiando un nuovo vino venuto dal sud Italia, esclamò: Bon, bon! Questo xe proprio un “vin de bàcaro”. L’espressione veneziana “far bàcara” equivale a far baldoria, mangiare e bere in buona compagnia: quindi un “vin de bàcaro” non può essere che un vino adatto a questo scopo. Secondo questa leggenda, riportata da Elio Zorzi nel suo libro “Osterie Veneziane´ del 1928, il gondoliere avrebbe creato un nuovo termine, che si trasmise poi ai locali di mescita di vino sfuso;
  • bàcari pare che venissero chiamati anche i venditori di vino in botte a Piazza San Marco;
  • l’ipotesi meno probabile è quella che il nome derivi da un vino pugliese del ‘700 particolarmente apprezzato nella città, vino appunto chiamato bàcaro.

Alberta Bellussi

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Chipilo:  il Veneto  in Messico

Sfogliavo il giornale,  il giorno dopo il terribile terremoto che ha colpito il Messico e provavo sofferenza a vedere quelle immagini e a leggere di quel disastro. In Messico ci andai molti anni fa perché argomento della  mia tesi di laurea  e fu  subito amore per quella terra, per quella cultura, per quella gente.

Tra i vari trafiletti del giornale mi ha colpito  la storia del paese di Chipilo, in Messico  e devo dire mi sono emozionata. Davvero non lo sapevo che in Messico un paesino parla veneto. Il terremoto non ha perdonato nemmeno questo luogo e spero trovino la forza di rialzarsi… ma volevo parlare di loro… di quei Veneti che nel mondo ci sono andati, si sono alzati le maniche e dati da fare nei paesi lontani che hanno dato loro ospitalità.

La storia di Chipilo, a me curiosa del mondo, è apparsa subito una storia affascinante quasi incredibile. Sospesa tra leggenda e realtà.

Chipilo è un piccolo paese di cinquemila  abitanti in Messico. L’America Latina fu meta di molti emigranti trevigiani a fine ottocento. Alla fine dell’Ottocento, per esempio, il Messico concedeva agli immigrati ampi territori da colonizzare. Si andava in Mèrica che era  la terra promessa. Lo Stato Messicano dava a chi s’impegnava a coltivare i  terreni, tra i più impervi e inospitali, attrezzi agricoli e bestiame.

Era circa il 1880 quando ci fu una grande inondazione del Piave; nel  paese di Segusino, in provincia di Treviso, l’alluvione aveva reso i campi incolti e portato molta carestia.  In quegli anni di miseria e povertà una  cinquantina di  famiglie da Segusino  decisero di emigrare in Messico. Nello  stato di Puebla fondarono la colonia di Chipilo.

I primi coloni trevigiani  erano allevatori e si diedero all’industria casearia. Hanno introdotto il formaggio e la “panna Chipilo” che è una marca conosciuta in tutto il paese e usata per i tacos, le enchiladas e i burritos della cucina messicana.

La cosa affascinante è che oggi, dopo 130 anni dal primo insediamento, nella comunità di Chipilo a causa di un particolare fenomeno d’isolamento dal resto del paese, ancora vi sono tradizioni venete e si parla dialetto veneto. Perduta nel centro del Messico e incastrata nella terra azteca, questa Comunità non parla  né castigliano né nàhuatl, lingua atzeca; parla, invece,  il dialetto del nord-est dell’Italia, cioè il veneto ma non quello che parliamo noi bensì quello dei nostri avi. E’ la stessa  lingua che si erano portati in “valigia” quando erano partiti dall’Italia a cercar fortuna. Mentre il nostro dialetto si   è evoluto, la lingua di Chipilo è rimasta attaccata alle vecchie radici. Infatti quando i suoi abitanti si congedano non dicono arrivederci ma dicono ‘se vedon’.

I chipileños non sono veneti solo nella lingua. Molti di loro sono biondi e con gli occhi chiari in una terra ibrida, tutti mangiano polenta e giocano a bocce. C’è un una collinetta nel loro paesaggio che  chiamano  Monte Grappa, in onore ai caduti italiani nella prima guerra mondiale.

Chipilo appare una realtà particolare  quasi una riserva di veneti in terra messicana;  un rapporto non sempre facilissimo quello tra i veneti e gli indios  perché i veneti locali accusano gli indios d’essere troppo pigri. E’ nel DNA dei Veneti quello di essere operosi e lavoratori e tutti loro affermano di aver insegnato agli indios come si lavora.

Qui i cognomi sono ancora veneti Calzature “Bortolotti”, latteria “Stefanoni”, alimentari “Minutti”: i nomi sono sempre quelli delle 50 famiglie venute qui nel 1882 con qualche straccio e molte speranze.

L’interesse per l’Italia si è un po’ spento anche se  nel 1982, nel centenario dell’emigrazione, i due paesi, quello di origine: Segusino e quello di arrivo: Chipilo, si sono gemellati. E’ allora che è cominciata a emergere questa anomalia linguistica, di messicani che parlano dialetto veneto e hanno mantenuto le secolari tradizioni del loro paese di origine. Il comune di Segusino ha recentemente organizzato anche dei centri estivi per bambini di Chipilo, sponsorizzati da Trevigiani nel mondo. La scrittrice Francesca Cazzaniga che ha sposato un messicano, ha deciso  di scrivere la storia di quella gente, che a fine Ottocento abbandonò tutto per l’avventura e che ora si ritrova in Messico a parlare e a sognare in veneto.

E’ un piccolo racconto, quasi romanzesco, di uno spaccato di quel  popolo veneto che ovunque è andato nel mondo ha lasciato la sua impronta positiva.

Alberta Bellussi