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Le erbette di primavera nella tradizione culinaria veneta

In primavera la natura rifiorisce e nei campi, nelle siepi e lungo gli argini crescono una gran varietà di erbette selvatiche; queste sono molto usate nella gastronomia veneta tradizionale e popolare sono presenti sia nei menù dei ristoranti che nei piatti delle nostre tavole.

Alcune sono davvero molto conosciute:

I bruscandoli, in dialetto, hanno in botanica il nome di   Luppolo selvatico (Humulus Lupulus).

Questa erba venne usata, fin dal Medioevo, per la fabbricazione della birra. I germogli di “bruscandoli” che si trovano lungo le siepi vengono usati per la classica frittata, nel risotto o anche da soli, lessati, conditi con olio, sale e pepe e accompagnati dalle uova sode per via del loro sapore molto simile agli asparagi.

Peverel o rosoline, in dialetto, è la pianta del papavero (Papaver Rhoeas)

Le nuove e fresche piantine di papavero che spuntano in primavera, si trovano spesso nei campi di mais ancora da arare, e sono un’ottima verdura cotta mescolata ad altre erbette.

Radicea o pissacan, in dialetto, sono in botanica il Tarassaco o Dente di leone (Taraxacum officinale) –

Le “radicee” sono senza ombra di dubbio le erbette più diffuse sulle tavole primaverili contadine perché si trovano, facilmente in tutti i prati. Vengono cotte da sole o assieme ad altre erbette, con le uova e possono essere condite anche dadolata di pancetta o lardo che insaporiscono e rendono sfizioso il tutto.

S-ciopet, S-ciopettin o Carletti, in italiano Strigoli o bubboli (Silene Vulgaris)

Sono dei piccoli cespuglietti di un’erba dal colore del fogliame verde-bluastro e un po’ ceroso. Sono molto usati  in cucina per farne il “risotto di carletti” o la frittata. Il loro sapore ricorda molto quello dei piselli freschi.

Le gainee, nome dialettale della Valerianella (Valerianella Locusta)

Un tempo la chiamavano con il nome di “lattuga d’agnello”: per via del periodo in cui spunta nei prati, in concomitanza con la nascita degli agnelli. Questa erbetta selvatica viene mangiata cruda in insalata, o cotta assieme ad altre erbe o verdure. Oggi la si può trovare anche dal fruttivendolo perché viene piantata, ed è facile da coltivare.

Ortiga è l’Ortica (Urtica

È una pianta urticante se si entra in contatto con la pelle ma i suoi germogli sono ottimi per risotti, frittate e anche per ricavarci medicinali e tessuti, già dall’età del bronzo.

Vi regalo un mio racconto agreste sulle erbette.

Il racconto di Maria a radicee e peverel

Maria cresce; diventa una bella bambina dai capelli d’oro.

Il suo sguardo chiaro è trasognato ma sempre attento alle cose del mondo; a metà tra Alice nel Paese delle Meraviglie e Pippicalzelunghe.

Rimangono impressi nel suo essere, come un tatuaggio dell’anima, quegli elementi della campagna veneta che le appartengono visceralmente. Li ha protetti nei cassetti della memoria e nei suoi libri segreti.

…i campi erano tappezzati di macchie gialle e rosse. Invasi di radicee e peverel che diventeranno, presto, soffioni e papaveri. Lei e la nonna si perdevano per quei prati munite di sacchetto e coltello per raccogliere i verdi rosoni e le erbette per farne dell’indimenticabile verdura cotta.

E la nonna che le diceva :” Maria ciol su quee col boton che le e pi bone”.  E lei che minuziosamente guardava ogni pianta di tarassaco e cercava quella che aveva ancora il bocciolo chiuso come le aveva raccomandato la nonna.

La bimba perdeva, poi, il suo sguardo nel rosso appassionato dei papaveri e nella delicatezza dei soffioni.

Amava scappare dentro i campi gialli di erba medica. Buttarsi distesa a pancia in sù. Lì, nascosta dagli alti fiori, rigenerava il suo essere e assorbiva l’energia di Gaia, la terra, e dei colori dei fiori.

Maria, in quella sorta di nascondiglio naturale, guardava il cielo e giocava con le sue amiche a trovare nelle nuvole delle forme di animali. Nel loro gioco fantastico, il cielo era un grande giardino pieno di elefanti, cavalli, cani dove ogni tanto passava anche un piccolo gatto.

Un giorno era in giro con l’amica di sempre Gabriella. Videro un campo di soffioni così pieno che attirò immediatamente la loro curiosità.

Si buttarono a peso morto nel prato e si rotolavano a destra e a sinistra urlando come pazze dalla felicità.

Un po’ alla volta i soffioni si appiccicarono ai loro capelli che diventarono delle splendide parrucche da principesse. Le due bimbe ridevano sistemandosi questi enormi testoni bianchi candidi atteggiandosi come le dame di un tempo.

Correvano e  cantavano spensierate  la loro canzone preferita pomel pomel con queste strane acconciature.

Le parrucche lasciarono il posto alle loro chiome dopo un energico lavaggio fatto dalle mani amorevoli delle mamme che sorrisero  alla follia simpatica delle loro figlie.

…ma su quei meravigliosi e fragili soffioni, Maria aveva più volte sognato di appendersi pensandoli come   una sorta di paracadute per sorvolare le bellezze di questo Pianeta.

Un giorno partì appesa ad un piccolo pelucco di soffione; sorvolò mari, laghi, montagne e pianure. Si svegliò, poi, di soprassalto nel suo lettino giallo come il sole con gli occhi pieni di gioia e incredula del meraviglioso viaggio appena fatto. Maria amava viaggiare e  amerà farlo tutta la vita.

Ogni nuova giornata presentava alla bambina nuove avventure e lei con grande entusiasmo si apprestava a viverle.

Alberta Bellussi

 

 

 

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Oggi è la festa della Candelora 2 febbraio rappresenta la metà dell’inverno nel tempo astronomico.

Il proverbio più famoso veneto dice: ” quando vien la Candelòra de l’inverno semo fora, ma se piove o tira vento ne l’inverno semo drento“.

Vuol dire che il giorno della Candelora segna la fine dell’inverno e il passaggio verso la primavera. Il proverbio è un po’ contradditorio ma sta ad indicare che se il giorno della Candelora si avrà bel tempo, si dovranno aspettare ancora diverse settimane perché l’inverno finisca e arrivi la primavera, invece, se alla Candelora fa brutto, la primavera sta già arrivando.

In Veneto c’è l’usanza di andare in chiesa a prendere la candela benedetta che si accenderà durante l’anno per chiedere protezione alle campagne nei momenti di calamità e tempeste.

La storia dice che, in questo giorno,  si ricorda la presentazione di Gesù al Tempio e la Festa della purificazione della Vergine Maria perché, secondo l’usanza ebraica, una donna era considerata impura del sangue mestruale per un periodo di quaranta giorni dopo il parto di un maschio e doveva andare al Tempio per purificarsi. Il 2 febbraio cade proprio dopo 40 giorni dal 25 dicembre, data del parto di Gesù.

Lo stesso giorno negli Stati Uniti si festeggia la “Festa della Marmotta” (Groundhog Day). La tradizione vuole che in questo giorno si guardi il rifugio di una marmotta, se esce e non riesce a  vedere la sua ombra perché il tempo è nuvoloso, l’inverno finirà presto; se invece vedrà  la sua ombra perché è una bella giornata, si spaventerà e tornerà di corsa nella sua tana, e l’inverno continuerà per altre sei settimane.

Alberta Bellussi

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Il Raboso!

È il vitigno che sento più appartenermi perché vino della zona del Piave per eccellenza; perché quando nasci qua, del Raboso senti sempre parlare come una sorta di vino maschio; o forse perché abito a Tezze di Piave , e  a inizio ‘900 proprio in questo paese,  il Raboso rappresentava, pressoché, l’unico vitigno coltivato.  Gli anziani, ancora in vita, qualsiasi cosa tu abbia, influenza, fiacchezza,  ti dicono un “bicer de Raboso e te fa bon sangue”, addirittura alcuni ne mettevano un bicchiere nel brodo come ricostituente.

I “vecchi di casa”, avendo noi una cantina che da 2 secoli produce il Raboso, mi raccontavano che quando una puerpera aveva appena partorito ed era fiacca o una persona aveva avuto un operazione, alcuni medici dell’Ospedale di Conegliano prescrivevano due bicchieri di Raboso al giorno. Addirittura raccontava che nelle zone di bonifica a Cinto Caomaggiore, gli operai dell’Azienda Zacchi, si fossero malati di malaria e il titolare venne in azienda a comprare un carro pieno di damigiane e dopo qualche mese di Raboso, guarirono; magari non fu per quello ma questi racconti orali dimostrano come fosse importante il ruolo che veniva dato a questo vino.

La vite del Raboso, vitigno autoctono e rustico, è la prima a germogliare e l’ultima a concedersi alla raccolta del proprio frutto. Il suo segreto è nel terreno: in quei terreni ghiaiosi e argillosi, in quegli antichi greti, in quelle golene tra il fiume e i suoi argini, dove maturano sotto il sole ardente.

La vendemmia dell’uva rabosa   avviene ad autunno inoltrato. E’ forse, l’unica vendemmia che mantiene ancora il sapore antico della tradizione e della vendemmia totalmente a mano perché quasi tutti i vitigni sono piantati con il sistema a bellussera che sembra pensato per rendere al massimo questa varietà.

Il Raboso viene descritto con gli stessi aggettivi che si usano per descrivere le genti del Piave: forte, robusto, pieno di carattere. Un vino maschio a tutti gli effetti.

La sua vite, che vanta un origine antichissima, accompagna il lungo viaggio degli Heneti, in seguito denominati Paleoveneti, dalle terre di origine fino alle pianure dell’alto golfo Adriatico.

Dopo la caduta dell’Impero Romano, il Raboso del Piave è tra i vini più richiesti e graditi nel vasto mercato che ruota attorno alle attività commerciali e alla vita stessa della Serenissima Repubblica di Venezia, almeno fino dal 1500, poiché quando veniva portato nelle navi restava perfetto, a differenza degli altri vini che deperivano. Che fosse anticamente presente nella zona del Piave lo conferma anche Jacopo Agostinetti, conoscitore di cose agricole nato e morto a Cimadolmo (TV), che alla fine del ‘600, già ottuagenario, nelle sue memorie che intitola “Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa”, scrive: “Qui nel nostro paese, che per lo più si fanno vini neri per Venetia di uva nera che si chiama recandina, altri la chiamano rabosa per esser uva di natura forte….”

Diventa tanto importante questo vitigno da essere, agli inizi del ‘900, il dominatore in due aree viticole: l’area compresa tra Conegliano e la strada Callalta ed i fiumi Piave e Livenza, chiamata “zona del Raboso Piave”. In quel periodo nell’area del Raboso Piave si producevano complessivamente 100.000 ettolitri di vino di cui circa 80.000 erano di Raboso Piave.

Sono anni duri quelli di inizio secolo segnati dall’arrivo delle malattie devastanti (l’oidio, la peronospora e la filossera) e dalla desolazione delle campagne nell’ultimo anno della grande guerra, il vitigno Raboso, proprio perché rustico e forte, è riuscito a sopravvivere, restando il più diffuso nella pianura trevigiana e soprattutto del Piave.

Nel secondo dopoguerra però il Raboso del Piave inizia a vacillare sul trono e la tendenza si inverte portando, per molti anni, la sua coltivazione dal 90% al 5%.

 Solo a metà degli anni ’90 la terra del Piave accompagna una nuova stagione del suo Raboso.

Si riparte dalle radici mettendo a frutto le intuizioni di capaci e coraggiosi vignaioli, sempre sostenute dal mondo dello studio e della ricerca: La Scuola Enologica di Conegliano, L’Università di Padova e il Centro di Ricerca di Viticoltura.

Il Raboso vanta una Confraternita e un inno a lui dedicato.

Il Raboso è stato protetto con il disciplinare DOC Piave e Malanotte DOCG.

Il vino ottenuto dalle uve di Raboso con le tecniche tradizionali, è di colore rosso intenso, con un gradevole profumo particolare che ricorda la marasca, non molto alcolico; il sapore è acido, aspro, dotato di molto corpo. Il suo profumo è inebriante, davvero ricco e complesso.

È un uva che si presta a molte possibilità; può diventare ottimo vino robusto di corpo, con invecchiamenti in botte e in barrique come descrivono i disciplinari del Doc e del DOCG. Può essere appassito, diventando un vino prezioso, per la resa bassissima in vino, ma soprattutto per le caratteristiche organolettiche che assume. La sua austera struttura è così ammorbidita dal naturale dolce degli zuccheri residui. Può essere vinificato in rosato e diventare una piacevole bevanda, che si presenta di un bel colore rosè caratteristico per la sua acidità, stemperata da un sapiente equilibrio tra dolce e frizzante: servito ben fresco è un ideale vino per l’estate Se vinificato in rossissimo, e diventare correttore di colore e di acidità. Infine può essere vinificato in bianco, senza le bucce, e presentarsi neutro all’olfatto, da utilizzare in soccorso di vini bianchi, anche pregiati, difettosi di acidità.

In alcune osterie viene bevuto, ancor oggi, nelle “scudee” dove lasciava ben definito il contorno rosso deciso del Raboso; indimenticabili quelle dell’osteria Ciao Bei.

È un vino che per le sue mille varianti si presta ad accompagnare nella versione del rosato gli antipasti e gli apertivi e nella versione del passito i dessert. Però nella sua forma più classica di vino rosso corposo è lo sposo preferito della carne rossa, la cacciagione, i formaggi, ma è anche adatto ad accompagnare le serate tra amici.

Gli anziani della zona del Piave dicevano: “Bevi Raboso e campi 100 anni” e vedendo gli ultracentenari che ci sono nella nostra zona credo proprio che sia così.

 

Alberta Bellussi

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La bellussera

Siamo in periodo di vendemmia, uva e vigneti.

Approfitto per raccontarvi la storia di una scoperta che appartiene alla mia famiglia: “la bellussera”, sistema di allevamento della vite diffuso in Veneto da fine ‘800.

Magari girando per la nostra Regione e soprattutto per la pianura trevigiana avete visto quell’antica forma di viticoltura, particolarmente scenografica e molto interessante sia dal punto di vista storico che sociale.

Vista dall’alto, “la bellussera”, sembra un merletto ricamato o un alveare tanto è precisa e perfetta: un’opera d’arte.

“La bellussera” fu inventata per andare incontro a varie esigenze; in primis cercare di produrre una grande quantità di uva ma l’aspetto più affascinate è il valore sociale e economico che ha avuto nella civiltà contadina da fine ‘800 in avanti.

Questo sistema di allevamento fu così realizzato principalmente per due motivi; in primo luogo perché così disposte le viti rendevano più facile combattere la peronospora, malattia della vite molto diffusa, e in secondo luogo permetteva di sfruttare al massimo le risorse della terra sotto al vigneto.

Nell’Ottocento, le campagne della zona del Piave erano coltivate tutte in regime di mezzadria e ai contadini restava solo 1/3 del raccolto. I vigneti a “bellusera”, tenendo i tralci vitati a oltre due metri d’altezza, evitavano che l’umidità delle terre del Piave, ricche di risorgive, potesse creare le condizioni per lo sviluppo della peronospora e producevano, così, grandi quantità d’uva per ettaro per la felicità dei contadini. Nei corridoi dell’interfilare, poi, si potevano coltivare ortaggi di ogni tipo; sotto le viti si faceva il fieno per le mucche e l’erba per i conigli o gli altri animali da cortile.  Quando le viti venivano maritate ai gelsi, si potevano utilizzare le foglie delle piante per allevare bachi da seta. “La bellussera” era un bellissimo esempio di piccolo eco-sistema di coltivazioni agricole integrate garantiva in questo modo la sussistenza delle famiglie molto numerose dei contadini e la cospicua produzione di uva rendeva lieti i mezzadri.

L’abbandono della mezzadria, i nuovi metodi per combattere la peronospora e la concezione moderna della viticoltura di qualità, indirizzata verso le basse rese e la vendemmia meccanica, hanno di fatto decretato la fine delle vigne a “bellussera” anche se in questi ultimi anni c’è un ritorno per alcuni tipi di uva come il Raboso o i rossi perché rende una qualità migliore.

Questo sistema così interessante e ricco di risorse fu ideato dai fratelli Bellussi alla fine dell’800 nel Comune di Tezze di Piave, in provincia di Treviso. Le prime applicazioni di questo sistema furono sperimentate dai fratelli Girolamo e Antonio, agricoltori di Tezze di Piave (TV) partendo da un’idea del padre Donato.

La prima fase di tale sperimentazione consistette nell’alzare le viti a m. 2.50 circa da terra, a fianco di un tutore vivo e piegandole in guisa da formare capi a frutto che venivano fissati per le estremità a pali di legno posti alla metà dell’interfilare. In tal modo era data la possibilità ai tralci fruttiferi della vite di rimanere al di fuori della zona d’ombra prodotta dal tutore vivo.

Senonché, essendosi dimostrato tale sistema assai ingombrante e di non troppa solidità, fu successivamente modificato dagli stessi fratelli Bellussi, ponendo un palo in legno, alto 4 metri, accanto al tutore vivo, quasi per rinforzo. Questo palo aveva la funzione di sorreggere alcuni fili di ferro disposti a raggio congiungentisi ad altri pali in corrispondenza ad ogni capo a frutto. I Bellussi collocarono una piccola frasca che aveva lo scopo di dare la possibilità ai germogli di affissarsi. I cordoni, così sistemati, riuscivano ad assumere direzione obliqua.

Una terza modificazione fu apportata quindi dai Bellussi al loro sistema che per maggior solidità ed anche per risparmio di pali subì una trasformazione nella disposizione dei fili di ferro che furono collocati a tre: uno orizzontale e due obliqui su di un piano verticale; le frasche vennero fissate al filo superiore. In riconoscimento di queste benemerenze, Antonio Bellussi venne nominato Cavaliere del Lavoro. Vittorio e Guerrino continuarono le nobili tradizioni familiari, mantenendosi all’avanguardia nella coltivazione della vite e nella produzione del vino e poi i figli di loro Agostino e Lamberto, e i nipoti Vittorio, Enrico e Alberta.

Nei primi del ‘900 fu anche esportata in Sud America a Mendoza.

Scrive Gianni Moriani:   ”trattasi di una ingegnosa soluzione che si mostra agli occhi sorprendentemente preziosa, come un pizzo realizzato con il famoso punto in aria, specialità di certe merlettaie del nostro estuario. Entro in questa verde “chiesa”, attraverso una porta sempre aperta, in una luminosa giornata, mossa da uno zefiro che fa dondolare le foglie: la scena richiama alla mente l’arte cinetica delle installazioni create da Alexander Calder. Credo che i fratelli Antonio e Matteo Bellussi, geniali realizzatori di questo originalissimo sistema di allevamento viticolo, partendo da un’idea del padre Donato, vadano a pieno titolo iscritti tra gli anticipatori dell’arte cinetica. Come le più ardite opere architettoniche, anche la Bellussera si regge su ferrei principi geometrici. Da ogni sostegno i tralci si dipartono a raggiera, per catturare più raggi di sole possibile. Si può dire che tolti i tutori, tutto sia appeso alla leggerezza di un filo”.

Alberta Bellussi

 

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Per un punto Martin perse la capa”! ma sì è scritto nell’asso di coppe delle carte trevigiane e scommetto che, come me, sapete anche voi le frasi degli altri tre assi.

È vero che provengo da una famiglia dove giocare a carte è, sicuramente, depositato in una catena del nostro DNA, lo devi proprio saper fare insomma. Appena hai le manine capaci di tenere  le carte, qualcuno, ti insegna a giocare e ti dice: i ori se i porta sempre a casa e anca i sette. Asso piglia tutto co no te sa cossa far. Se te si primo de man interza le carte “, sono frasi che rimandano alla Scopa, gioco prediletto, che nella testa di noi, di famiglia, appena ci sediamo a giocare si presentano, ad una ad una, per facilitarci la partita; sono trucchi.

E poi avete presente che differenza c’è tra un mazzo di carte nuovo che scivola, che non ha profumo e manca di personalità e un mazzo di carte vecchio, ingiallito, una carta bianca, una gialla,  che ha quel odore particolare, intenso di vita vissuta?

A parte questo preludio personale e appassionato, sono convinta che i giochi con le carte trevigiane appartengano un po’ a tutti noi veneti, ai  trevigiani sicuramente.

Scopa, Tresette, Briscola, Bestia, Vecia dai almeno una volta, ci abbiamo giocato tutti nei momenti di relax, nelle cene di Natale, nei tavoli in giardino col tepore dell’estate, sono giochi che creano aggregazione, che divertono… poi che la tradizione veneta più diffusa e radicata, da sempre, sia quella di batter il fante nelle osterie non v’è alcun dubbio.

Le Trevigiane si sono diffuse in tutta la penisola grazie soprattutto alla ditta Dal Negro di Treviso, attiva nella produzione sin dal 1756, e, che nel corso dei decenni, ha sviluppato una gamma completa di carte da gioco che comprende anche mazzi personalizzati per giocare a Black Jack, Poker, Bridge.

Le carte Trevisane, diffuse in tutto il Veneto e non solo, sono a seme italiano. Un mazzo tradizionale conta 40 carte, ma ne esistono anche da 54 con l’aggiunta dell’8, del 9 e del 10 (ovviamente uno per seme) e di due matte. Il valore numerico di ogni carta è segnato in alto a sinistra e, capovolto, in basso a destra.

Su ciascun asso sono riportati dei motti che ricordano i rischi del gioco d’azzardo:

sull’asso di coppe “Per un punto Martin perse la capa”;

sull’asso di bastoni “Se ti perdi tuo danno”;

sull’asso di spade “Non ti fidar di me se il cuor ti manca”;

sull’asso di denari “Non val sapere a chi ha fortuna contra”.

Il fante di spade è chiamato comunemente “vecia”  e i denari sono chiamati amichevolmente “ori”,  il sette e il dieci assumono, come anche in altre regioni, l’appellativo “belo”.

  Sono le carte più lunghe d’Italia, insieme alle bolognesi: misurano infatti 49×104 mm.

In tutte le osterie venete se chiedete un mazzo di carte trevigiane lo trovate perché l’osteria è il luogo di ritrovo per gli appassionati non solo dello Spritz ma anche di una partita a Briscola o a Scopa con gli amici spesso colorita da espressioni più folkloristiche non sempre raffinate ma spesso divertenti.

La Briscola è un gioco di origine olandese portato in Italia dai francesi. Sono sufficienti dalle due alle sei persone per fare una partita. I giocatori più esperti conoscono tutti i segni e riescono a tenere a mente le carte già uscite.

La nascita della scopa e dello scopone, malgrado i tanti sforzi di appassionati e studiosi, è ancora avvolta nel mistero anche se la si trova dal 1700.

In Veneto sono diffusi anche molti giochi con le carte a semi francesi, primo tra tutti la Scala Quaranta, che si è diffusa dopo la prima guerra mondiale e ha preso il posto del Ramino.

Buona partita a tutti…

Alberta Bellussi

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Tutti conoscono “La Leggenda del Piave” e non solo i veneti …. quel Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio”…. lo abbiamo cantato tutti almeno una volta nella vita con impeto e orgoglio.

È senz’altro la canzone patriottica più nota ed amata del vasto repertorio esistente sulle canzoni di guerra.

Sono quattro strofe in cui l’autore del brano, Giovanni Ermete Gaeta, compositore e poeta dialettale napoletano noto con lo pseudonimo di E.A.Mario, ripercorre alcuni momenti della Grande Guerra.

È una canzone scritta così bene che ogni volta che la cantiamo ci sembra di rivivere quei momenti storici. Una storia vissuta in modo tenace e cruento nello scenario del greto del nostro amato fiume Piave.

Concedetemi di aprire una piccola  parentesi su quel fiume che tanto amo e che vivo in lungo e in largo con la mia bicicletta; è un fiume che ha un legame indissolubile con chi ci è nato vicino, quasi da determinarne delle caratteristiche caratteriali e antropologiche; quella razza Piave di cui molti di noi ne sentono l’appartenenza. Il Piave è il quinto fiume d’Italia per lunghezza fra quelli sfocianti in mare. I suoi principali affluenti alpini di destra raccolgono le acque delle principali valli glaciali: l’ Ansiei raccoglie le acque della valle Auronzana e sfocia nel Piave a Cima Gogna; il Boite passa lungo la valle Ampezzana e sbocca a Perarolo ; il Maè fluisce lungo la valle Zoldana ed esce a Longarone, infine il Cordevole scorre lungo la valle Agordina e sfocia nel Piave presso Sedico.

Il Piave nasce a circa 2000 metri di altitudine dalle pendici del monte Peralba, nelle alpi Carniche e sfocia a Cortellazzo nel comune di Jesolo, presso la laguna del Mort. Il bacino idrografico del Piave, presenta un’estensione di circa 4013 kmq di cui circa 3900 kmq in territorio Veneto ed è, a livello regionale, il bacino più esteso. Un’ampia zona del bacino è compresa nel territorio della Provincia di Treviso, dove il fiume scorre per un tratto di circa 60 km, da Segusino a Zenson di Piave. Il fiume Piave ha un bacino prevalentemente montano, che si considera idrograficamente chiuso a Nervesa della Battaglia e sfocia in Adriatico presso Porto Cortellazzo dopo un percorso di circa 222 km. In quasi tutta questa zona, l’alveo fluviale si distende su un ampio letto ghiaioso che in alcuni punti raggiunge i 4 km di larghezza e si disperde in una serie di rami secondari che lambiscono isole di deiezione ed erosione dette “grave”.

Il Piave nasce al femminile, la Piave, per il valore di fertilità che hanno sempre avuto le sue acque e la generosità dei frutti che questa fertilità portava. A determinare il mutamento al maschile è stata proprio la Leggenda del Piave. Quel “il Piave mormorò…” cantato dai soldati, mascolinizzò il fiume.

E dopo questa piccola ma doverosa parentesi geofisica ritorniamo alla composizione di Gaeta.  “La Leggenda del Piave” cominciò a circolare fin da subito; Raffaele Gattordo, un cantante amico di Gaeta che si esibiva con il nome d’arte di Enrico Demma, mentre si trovava al fronte in un reparto di bersaglieri, cominciò subito a cantare questo brano.

Era un canzone che entusiasmava dal primo ascolto per i suoi versi patriottici e ricercati, per la soddisfazione per la grande battaglia vinta, per  la musica orecchiabile a tono di marcia. In poco tempo questa canzone divenne molto popolare fra le truppe italiane. Accadde infatti che il generale Armando Diaz inviò all’autore un telegramma di congratulazioni che diceva: “La vostra Leggenda del Piave al fronte è più di un generale”.

Il brano fu popolarissimo anche dopo la fine del conflitto.  Venne eseguito il 4 novembre 1921 all’inaugurazione del monumento al milite ignoto, al Vittoriano di Roma. Dal  1943 e il 1946, La canzone del Piave fu adottata come inno nazionale, per essere poi sostituita dal “Canto degli Italiani” di Goffredo Mameli.

Nel novembre 1917, dopo lo sfondamento austriaco a Caporetto la linea del fronte si era attestata sul fiume Piave. Nel giugno 1918 l’Austria provò a sferrare il colpo definitivo: l’offensiva iniziò il 15 giugno, ma l’esercito italiano riuscì a fermarla e il 22 giugno la ‘battaglia del Solstizio’ (come la chiamò il poeta Gabriele D’Annunzio) terminò con la vittoria italiana. In quei giorni Gaeta era al lavoro in un ufficio postale. Furono parole che gli uscirono dal cuore, come raccontò lui stesso, tre strofe che scrisse di getto sui moduli di servizio interno che oggi si trovano  nel Museo storico della comunicazione di Roma.

Nella prima strofa si fa riferimento all’inizio della guerra quando, il 24 maggio 1915, i soldati marciarono verso il fronte, a difesa della frontiera. Nella seconda parte del brano, si racconta della disfatta di Caporetto. In seguito alla quale il nemico riuscì a Calare fino al Piave, provocando un’ondata di profughi e sfollati provenienti dalle zone man mano attraversate. Nella terza strofa, drammatica, si racconta del simbolico “No” del Piave che grazie alla sua improvvisa e copiosa piena costituì davvero un ostacolo insormontabile per l’esercito austriaco e dei fanti italiani al proseguire dell’avanzata.

La quarta ed ultima parte del celebre inno, che fu aggiunta alle prime tre il 9 novembre 1918, dopo la fine della guerra, si riferisce alla battaglia del Solstizio, con il nemico respinto fino a Trento e Trieste e la vittoria italiana. A celebrare la quale l’autore immagina siano risorti i patrioti uccisi dagli austriaci: Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro e Cesare Battisti.

Alberta Bellussi

 

II Piave mormorava calmo a placido al passaggio

dei primi fanti, il ventiquattro maggio:

l’esercito marciava per raggiunger la frontiera

e far contro il nemico una barriera.

Muti passaron quella notte i fanti:

tacere bisognava, e andare avanti!

S’udiva, intanto, dalle amate sponde,

sommesso e lieve, il tripudiar dell’onde.

Era un presagio dolce e lusinghiero.

Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero!”

 

Ma in una notte trista si parlò di tradimento,

e il Piave udiva l’ira a lo sgomento.

Ah, quanta gente ha vista venir giù, lasciare il tetto

per l’onta consumata a Caporetto.

Profughi ovunque dai lontani monti

venivano a gremir tutti i suoi ponti.

S’udiva, allor, dalle violate sponde

sommesso e triste il mormorio dell’onde:

come un singhiozzo, in quell’autunno nero

il Piave mormorò: “Ritorna lo straniero!”

 

E ritornò il nemico per l’orgoglio e per la fame,

volea sfogare tutte le sue brame.

Vedeva il piano aprico, di lassù, voleva ancora

sfamarsi e tripudiare come allora.

“No!” disse il Piave, “No!” dissero i fanti.

“Mai più il nemico faccia un passo avanti”

Si vide il Piave rigonfiar le sponde,

e come i fanti combattevan le onde.

Rosso del sangue del nemico altero,

il Piave comandò: “Indietro, va’, straniero!”

 

Indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento.

E la Vittoria sciolse le ali al vento!

Fu sacro il patto antico: tra le schiere furon visti

risorgere Oberdan, Sauro a Battisti.

Infranse, alfin, l’italico valore

le forche e l’armi dell’Impiccatore.

Sicure l’Alpi… Libere le sponde…

E tacque il Piave: si placaron le onde

sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,

la Pace non trovò né oppressi, né stranieri!

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Ieri, ero a pranzo dai miei,   ho trovato una terrina di bovoeti o bogoi, dipende un po’ dalla parte del Veneto che ci troviamo a vivere il loro nome, e ho postato una foto su Facebook. Ho trovato grande entusiasmo da parte dei veneti per questo piatto che appartiene alla tradizione veneziana per eccellenza, invece gli amici dalle altre parti d’Italia non lo conoscono.

Allora ho pensato che i bovoeti meritassero di avere un articolo che parlasse di loro.

Nei bar veneziani ma anche dell’intero Veneto tra i cicchetti che accompagnano l’aperitivo nel bancone, c’è spesso una terrina di bovoetti, tra i crostini con la soppressa, la coppa, la polenta e la porchetta.

I Bovoeti sono delle lumachine che vivono solitamente a terra (non in acqua) o si trovano nelle sterpaglie vicino al mare, ai fossi o nei luoghi umidi; al mattino presto o dopo una pioggia le vedrete attaccate ai rami, Queste piccole lumachine sono i quelli che noi chiamiamo “bovoeti”.  Si raccolgono da aprile ad ottobre in prossimità dei litorali.

I Bovoeti sono una tradizione tipicamente veneziana, non possono assolutamente mancare il giorno del Redentore, che si festeggia a Venezia il terzo sabato di luglio, con fuochi d’artificio in laguna e festeggiamenti fino all’alba.

Si possono trovare nelle pescherie confezionate in retini da 1 kg circa e sono sufficienti per 5-6 persone.

 

Ricetta

Ingredienti per 5-6 persone

– 1 kg di bovoeti;

– abbondante aglio tritato;

– abbondante prezzemolo tritato;

– Sale e pepe: q.b.;

– Olio extra-vergine di oliva.

 

Preparazione

  • Prima di cucinarli bisogna metterli a “spurgare” in una terrina, per almeno un paio d’ore, in acqua e poco sale, coprendoli con un coperchio per non farli scappare. Lavateli poi molto bene sotto l’acqua corrente e metteteli in una pentola con l’acqua fredda.
  • Mettete la pentola sul fuoco; il fuoco deve essere bassissimo perché i bovoletti sentendo il calore escono dal guscio. Quando sono usciti quasi tutti, aggiungere il sale e alzare il fuoco; togliete dunque la pentola e scolate i bovoeti.
  • Fateli raffreddare e conditeli con abbondante aglio tritato, prezzemolo tritato, sale, pepe e olio extra-vergine di oliva (e.v.o.); lasciateli nel condimento per 2-3 ore girando spesso.

 

Attenzione però, i bovoeti creano dipendenza sono un pò come i bagigi uno tira l’altro. Si prende un guscetto in mano e con lo stuzzicadente si mangia la saporita lumachina.

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Dicembre, Gennaio e Febbraio sono i mesi in cui in Veneto c’è la tradizione di macellare el porzel. E’ una tradizione secolare. Ricordo, quando ero piccina, che il giorno in cui  si macellava il maiale stavo a casa da scuola ed era grande festa dalla mattina alla sera; c’era el porzeler che guidava le operazioni di divisione della carne quella per salami, salsicce, coppa, ecc ecc;  partecipavano parenti, amici e tutto il giorno era un via vai di gente. Sopra la “cucina economica” c’era sempre qualche braciola o costina pronta per essere mangiata da qualche ospite o da noi bimbi. A me sembrava buonissimo. Osservavo tutto con occhi curiosi. Qualche adulto burlone ci mandava in giro a chiedere la forma per fare i salami e noi ci cascavamo…e quando si tornava a mani vuote tutti ridevano divertiti di averci burlato. Per questa prova dovevi passare per diventare un pochino meno credulone…

Nella nostra storia contadina il maiale era la principale  fonte di proteine nell’alimentazione povera  di un tempo insieme al pollame. Per assicurare una migliore conservazione delle carni da lavorare, la macellazione del maiale avveniva nel periodo piu’ freddo dell’anno, dicembre, gennaio e febbraio.

Nel mondo trevigiano il maiale è una sorta di rito della cultura contadina che ha la sua festa il 17 gennaio, giorno della celebrazione di S.Antonio Abate, chiamato anche S. Antonio del porzel  perche’ viene raffigurato con un maiale ai suoi piedi.

Tradizione vuole, infatti che Sant’Antonio Abate, patriarca del monachesimo, venga rappresentato nell’iconografia sacra seguito da un maialino, popolarmente interpretato come l’immagine del diavolo ( a cui anticamente si associava il porco, creatura degli inferi) sconfitto dall’eremita. Ma la storia dice che si riferisca anche all’allevamento dei suini, inizialmente adottato dai monaci antoniani per dare sostentamento all’ordine ospedaliero dagli stessi fondato.

La macellazione del maiale era un momento di festa per tutta la famiglia e lo è ancora oggi, nelle famiglie in cui si rispetta ancora questa tradizione tutto viene svolto con lo stesso rituale di un tempo.

Subito dopo l’uccisione veniva ‘assaggiato’ cuocendone le ‘animelle’ (cervello e midollo spinale) e le ‘rifilature’, cioe’ i pezzetti di carne che si ottenevano lungo il taglio di sezionatura della bestia.

Del maiale non si sprecava nulla: le setole erano utilizzate per fabbricare pennelli, gli ossi venivano bolliti per fare brodo e sugo e la cotica entrava nella preparazione di ‘coppa’ e cotechini. Per il resto, le bistecche e le ‘costórelle’ alla brace, gli zampetti in umido (con i fagioli). La pelle, una volta tolto il lardo (unico condimento adoperato per tutto l’anno), serviva per ungere le seghe. Col sangue si faceva il sanguinaccio e con i polmoni una specie di salsicce. Il grasso del sottoventre era utilizzato per la profumata zazieka, mangiata a colazione con la polenta.

Mai fuori moda gli ossi di maiale lessati che vengono preparati ancor oggi da ristoranti, trattorie ed osterie venete chiamati Ossada.

Ricetta dell’Ossada de porzel

Ingredienti:

1 kg. e mezzo di ossi di maiale freschi (ossi spolpati, arista spolpata, costine)

1 cipolla

1 gambo di sedano

2 carote

grani di pepe

alloro

sale

Preparazione:

Lavare tutti gli ossi e prepararli per la cottura, tagliando i pezzi più grandi. Mettere in una pentola capiente con tutte le verdure e il pepe in grani. Portare ad ebollizione e cuocere per almeno un’ ora.

Devono essere serviti caldissimi, spolverizzati con il sale e un filo di olio, con le verdure di cottura.

Alberta Bellussi

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Il mercoledì delle ceneri, che è anche il primo giorno di Quaresima, la tradizione veneta vuole che si mangi la renga e come tutte le buoni tradizioni anche questa viene portata avanti e tenuta viva.

Infatti con la cena della renga si saluta il Carnevale e si va verso la Pasqua.

Ma cos’è la renga?

L’aringa è un pesce lungo circa 30 cm, che vive in banchi enormi nelle acque fredde dell’Atlantico settentrionale e dell’Oceano Artico. E’ l’esemplare femmina, mentre il maschio, lo scopeton, e’ meno pregiato e ricercato. L’aringa partita dai Mari del Nord, passando da Venezia,  arrivò nell’entroterra  prendendo il nome in  dialetto “renga”. Questo pesce semplice  si è subito rivelata adatta alle esigenze delle tavole contadine venete , soprattutto in tempo di Quaresima: era un cibo povero ma nutriente e facile da conservare anche senza gli odierni mezzi di refrigerazione.

Questo pesce ebbe enorme importanza economica nelle aree dell’Europa settentrionale, nel Medioevo e fino a tutto il ‘500, perché la sua cattura rappresentava una fonte di cibo proteico quando allevamento, agricoltura e commercio erano insufficienti a nutrire le popolazioni.

La conservazione era fatta sotto sale o essiccata. La sua sistemazione nel  sale doveva avvenire entro poche ore dalla cattura praticamente in mare.  Questa pratica portò lo svilupparsi di un impressionante commercio di sale   tra le citta’ della Lega Anseatica e l’Europa centromeridionale che saliva verso nord e della “renga” in barili che scendeva verso sud e  che aveva come principale tramite mediterraneo la città di Venezia.

La renga di Parona, cittadina in Provincia di Verona è molto famosa esiste ancora la bottega della Renga.

La storia raccontata dai nostri avi dice che fino alla fine dell’800, quando il fiume Adige era ancora navigabile, la piccola località di Parona era un importante scalo fluviale dove risiedevano attività commerciali e una dozzina di osterie. Essendo la navigazione in città vietata nei fine settimana, i marinai-commercianti conduttori di imbarcazioni e chiatte di legname che discendevano l’Adige, attraccavano e sostavano nel porticciolo di Parona. Ristorandosi quindi nelle locande spesso il pagamento alle “parona” delle medesime avveniva offrendo in cambio mercé dal loro carico, tra qui i barili di arringhe affumicate sotto sale. Fu così che le parone impararono a cucinare la renga e quindi a riproporre in tavola questo pesce proveniente dai lontani mari del nord Europa unito ai sapori tipici della cucina veneta come la polenta.

L’ imperativo dei giorni di Quaresima era mangiare di magro e la lista delle cose da portare in tavola non dava grandi possibilità di scelta:  pesce fresco o salato, affumicato e marinato.

Vero ‘companasego’ della povera gente, emblema della povertà del  periodo, era l’umilissima aringa; arida e secca, ma forte di sapore e di odore, stuzzicante, stringata, economica; una sola  bastava per tutta la famiglia e nelle occasioni speciali si usava arricchirla con  la polenta  un solo pezzettino, infatti,  bastava ad insaporirne una grande quantità.

L’usanza di un tempo   nelle zone povere del Veneto e del Friuli era quella di  sbattere  un’aringa affumicata sopra delle fette di pane per profumare il pane.  Addirittura, si racconta, che  nelle case più povere la tenevano appesa penzoloni ai legni del soffitto o ai bordi del fogolar, ad altezza d’uomo, per sfregarla sopra il pane per l’appunto.

L’usanza di mangiare questo pesce era così forte e sentita che i giorni di Quaresima venivano chiamati anche “i giorni della renga”.

Alberta Bellussi

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Il Veneto è una regione dove la tradizione culinaria cammina a pari passo con gli eventi del calendario: ogni festa ha la sua pietanza o dolce che la caratterizza così anche il Carnevale.

Quanti di noi in questo periodo non hanno affossato il naso dentro lo zucchero a velo di una morbida frittella ripiena di crema o zabaione?

Beh io si con grande soddisfazione.

Ma quale è la storia di questo dolce carnascialesco?

La “fritoea o fritola” in italiano frittella è la regina dei dolci veneziani che vive il suo momento magico a Carnevale.   E’ considerata, da sempre,  il dolce nazionale della Repubblica Serenissima.

La si trova e si mangia  non solo a Venezia, ma in tutto il territorio veneto-friulano, fin quasi alle porte di Milano.

In particolare le fritole veneziane vantano una storia che risale alla seconda metà del ‘300 e la loro ricetta è una delle più antiche conservate in un documento di gastronomia, oggi custodito a Roma presso la Biblioteca Casanatense.

La versione rinascimentale delle fritole fu inserita negli appunti di cucina di Bartolomeo Scappi contenuti in una miscellanea di documenti al Museo Correr a Venezia.

Nell’antichità  le fritole  venivano  fatte solo dai fritoleri che ,nel ‘600, per sottolineare la loro importanza e ufficialità  si costituirono in corporazione. La corporazione era formata da settanta componenti all’origine e  ognuno aveva la  propria area dove poteva esercitare in esclusiva l’attività commerciale,  con la garanzia che a loro sarebbe potuti succedere solo i figli. In questo modo  tramandavano   l’arte e l’attività in famiglia di padre in figlio.

Nel Settecento la fritola fu proclamata “Dolce Nazionale dello Stato Veneto” ma non è chiaro se, nel solo periodo carnevalesco, visto che la frittura veniva fatta in grasso di maiale, o durante tutto l’anno con la versione fritta nell’olio.

Questa attività ebbe fine solo negli ultimi anni dell’800.

Nell’arte veneta troviamo  diversi quadri e immagini del ‘600/700 che raffigurano “la venditrice e il venditore di fritole”;  i cibi fritti, venduti agli angoli delle strade erano diffusissimi in diverse parti d’Italia – e d’Europa – già nel ‘300 , tanto da essere entrati nella raffigurazione al pari degli altri mestieri. Le frittelle venivano infilate in uno spiedo per poter essere mangiate ancora calde, senza ungersi le dita.

Sono molti anche i passi letterari nei quali si parla di questo gustoso dolce.

Secondo quanto riportato in un libro antico, «alle fritole s’accompagnava la malvasia, vino origi­nario di Malvasia, città dell’Epiro, l’antica Epidauro”.

Nel 1800 il nobiluomo veneziano Pietro Gasparo Moro  descrive così i fritoleri: «Hanno sempre sul davanti un pannolino che s’assomiglia al grembial delle donne, che sembra venuto allora fuor dal bucato. Tengono in mano un vasetto bucherellato con cui gettano del continuo zucchero sulla mercie, ma con tal atteggiamento che par vogliano dire: e chi sente l’odore e il sapore di questa cosa che noi inzuccheriamo?».

Mentre lo storico Giovanni Marangoni scriveva: «Cuocitori e venditori a un tempo, impastavano la farina sopra ampi tavolati per poi friggerle con olio, grasso di maiale o burro, entro grandi padelle sostenute da tripodi. A cottura ultimata le frittelle venivano esposte su piatti variamente e riccamente decorati, di stagno o di peltro. Su altri piatti, a dimostrazione della bontà del prodotto venivano esibiti gli ingredienti usati: pinoli, uvette, cedrini».

Della frittella parla anche Goldoni nella sua Commedia il Campiello scritta nel 1756.

Ma fritola  veneziana contagiò anche la cucina ebraica, che a Venezia ha uno dei ghetti più antichi, che ne fece una propria versione; ancora oggi viene preparata per la festa del Purim.

La frittella originale rimane comunque quella veneziana, in tutto il Veneto si sono diffuse ricette locali, dove la si trova in tantissime varianti.

La ricetta originale della fritola veneziana

Ingredienti

Farina bianca 00

Uvetta sultanina

Zucchero

Uova

Latte

lievito di birra

zucchero vanigliato

sale

olio di semi per la frittura

aromi (buccia di limone o arancio).

Preparazione

Mescolare in una terrina la farina con latte, uova e zucchero, facendone un impasto abbastanza tenero,  aggiungere un pizzico di sale, un po’ di lievito di birra , uva sultanina bagnata ed infarinata cercando che tutto si amalgami.

Lasciare lievitare il composto, coperto con un tovagliolo, in un luogo tiepido, per alcune ore.

Lavorare di nuovo il composto, aggiungendo, se occorre, un po’ d’acqua per avere un impasto fluido.

Versare a cucchiaiate l’impasto in una padella con molto olio bollente, e quando si rapprende, voltarlo con una schiumarola fino a che prende un color marrone chiaro.

Quando sono pronte, levarle con una schiumarola, posare su una carta assorbente, servendole coperte da un velo di zucchero vanigliato.

Alberta Bellussi