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Dicembre, Gennaio e Febbraio sono i mesi in cui in Veneto c’è la tradizione di macellare el porzel. E’ una tradizione secolare. Ricordo, quando ero piccina, che il giorno in cui  si macellava il maiale stavo a casa da scuola ed era grande festa dalla mattina alla sera; c’era el porzeler che guidava le operazioni di divisione della carne quella per salami, salsicce, coppa, ecc ecc;  partecipavano parenti, amici e tutto il giorno era un via vai di gente. Sopra la “cucina economica” c’era sempre qualche braciola o costina pronta per essere mangiata da qualche ospite o da noi bimbi. A me sembrava buonissimo. Osservavo tutto con occhi curiosi. Qualche adulto burlone ci mandava in giro a chiedere la forma per fare i salami e noi ci cascavamo…e quando si tornava a mani vuote tutti ridevano divertiti di averci burlato. Per questa prova dovevi passare per diventare un pochino meno credulone…

Nella nostra storia contadina il maiale era la principale  fonte di proteine nell’alimentazione povera  di un tempo insieme al pollame. Per assicurare una migliore conservazione delle carni da lavorare, la macellazione del maiale avveniva nel periodo piu’ freddo dell’anno, dicembre, gennaio e febbraio.

Nel mondo trevigiano il maiale è una sorta di rito della cultura contadina che ha la sua festa il 17 gennaio, giorno della celebrazione di S.Antonio Abate, chiamato anche S. Antonio del porzel  perche’ viene raffigurato con un maiale ai suoi piedi.

Tradizione vuole, infatti che Sant’Antonio Abate, patriarca del monachesimo, venga rappresentato nell’iconografia sacra seguito da un maialino, popolarmente interpretato come l’immagine del diavolo ( a cui anticamente si associava il porco, creatura degli inferi) sconfitto dall’eremita. Ma la storia dice che si riferisca anche all’allevamento dei suini, inizialmente adottato dai monaci antoniani per dare sostentamento all’ordine ospedaliero dagli stessi fondato.

La macellazione del maiale era un momento di festa per tutta la famiglia e lo è ancora oggi, nelle famiglie in cui si rispetta ancora questa tradizione tutto viene svolto con lo stesso rituale di un tempo.

Subito dopo l’uccisione veniva ‘assaggiato’ cuocendone le ‘animelle’ (cervello e midollo spinale) e le ‘rifilature’, cioe’ i pezzetti di carne che si ottenevano lungo il taglio di sezionatura della bestia.

Del maiale non si sprecava nulla: le setole erano utilizzate per fabbricare pennelli, gli ossi venivano bolliti per fare brodo e sugo e la cotica entrava nella preparazione di ‘coppa’ e cotechini. Per il resto, le bistecche e le ‘costórelle’ alla brace, gli zampetti in umido (con i fagioli). La pelle, una volta tolto il lardo (unico condimento adoperato per tutto l’anno), serviva per ungere le seghe. Col sangue si faceva il sanguinaccio e con i polmoni una specie di salsicce. Il grasso del sottoventre era utilizzato per la profumata zazieka, mangiata a colazione con la polenta.

Mai fuori moda gli ossi di maiale lessati che vengono preparati ancor oggi da ristoranti, trattorie ed osterie venete chiamati Ossada.

Ricetta dell’Ossada de porzel

Ingredienti:

1 kg. e mezzo di ossi di maiale freschi (ossi spolpati, arista spolpata, costine)

1 cipolla

1 gambo di sedano

2 carote

grani di pepe

alloro

sale

Preparazione:

Lavare tutti gli ossi e prepararli per la cottura, tagliando i pezzi più grandi. Mettere in una pentola capiente con tutte le verdure e il pepe in grani. Portare ad ebollizione e cuocere per almeno un’ ora.

Devono essere serviti caldissimi, spolverizzati con il sale e un filo di olio, con le verdure di cottura.

Alberta Bellussi

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Il mercoledì delle ceneri, che è anche il primo giorno di Quaresima, la tradizione veneta vuole che si mangi la renga e come tutte le buoni tradizioni anche questa viene portata avanti e tenuta viva.

Infatti con la cena della renga si saluta il Carnevale e si va verso la Pasqua.

Ma cos’è la renga?

L’aringa è un pesce lungo circa 30 cm, che vive in banchi enormi nelle acque fredde dell’Atlantico settentrionale e dell’Oceano Artico. E’ l’esemplare femmina, mentre il maschio, lo scopeton, e’ meno pregiato e ricercato. L’aringa partita dai Mari del Nord, passando da Venezia,  arrivò nell’entroterra  prendendo il nome in  dialetto “renga”. Questo pesce semplice  si è subito rivelata adatta alle esigenze delle tavole contadine venete , soprattutto in tempo di Quaresima: era un cibo povero ma nutriente e facile da conservare anche senza gli odierni mezzi di refrigerazione.

Questo pesce ebbe enorme importanza economica nelle aree dell’Europa settentrionale, nel Medioevo e fino a tutto il ‘500, perché la sua cattura rappresentava una fonte di cibo proteico quando allevamento, agricoltura e commercio erano insufficienti a nutrire le popolazioni.

La conservazione era fatta sotto sale o essiccata. La sua sistemazione nel  sale doveva avvenire entro poche ore dalla cattura praticamente in mare.  Questa pratica portò lo svilupparsi di un impressionante commercio di sale   tra le citta’ della Lega Anseatica e l’Europa centromeridionale che saliva verso nord e della “renga” in barili che scendeva verso sud e  che aveva come principale tramite mediterraneo la città di Venezia.

La renga di Parona, cittadina in Provincia di Verona è molto famosa esiste ancora la bottega della Renga.

La storia raccontata dai nostri avi dice che fino alla fine dell’800, quando il fiume Adige era ancora navigabile, la piccola località di Parona era un importante scalo fluviale dove risiedevano attività commerciali e una dozzina di osterie. Essendo la navigazione in città vietata nei fine settimana, i marinai-commercianti conduttori di imbarcazioni e chiatte di legname che discendevano l’Adige, attraccavano e sostavano nel porticciolo di Parona. Ristorandosi quindi nelle locande spesso il pagamento alle “parona” delle medesime avveniva offrendo in cambio mercé dal loro carico, tra qui i barili di arringhe affumicate sotto sale. Fu così che le parone impararono a cucinare la renga e quindi a riproporre in tavola questo pesce proveniente dai lontani mari del nord Europa unito ai sapori tipici della cucina veneta come la polenta.

L’ imperativo dei giorni di Quaresima era mangiare di magro e la lista delle cose da portare in tavola non dava grandi possibilità di scelta:  pesce fresco o salato, affumicato e marinato.

Vero ‘companasego’ della povera gente, emblema della povertà del  periodo, era l’umilissima aringa; arida e secca, ma forte di sapore e di odore, stuzzicante, stringata, economica; una sola  bastava per tutta la famiglia e nelle occasioni speciali si usava arricchirla con  la polenta  un solo pezzettino, infatti,  bastava ad insaporirne una grande quantità.

L’usanza di un tempo   nelle zone povere del Veneto e del Friuli era quella di  sbattere  un’aringa affumicata sopra delle fette di pane per profumare il pane.  Addirittura, si racconta, che  nelle case più povere la tenevano appesa penzoloni ai legni del soffitto o ai bordi del fogolar, ad altezza d’uomo, per sfregarla sopra il pane per l’appunto.

L’usanza di mangiare questo pesce era così forte e sentita che i giorni di Quaresima venivano chiamati anche “i giorni della renga”.

Alberta Bellussi

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Il Veneto è una regione dove la tradizione culinaria cammina a pari passo con gli eventi del calendario: ogni festa ha la sua pietanza o dolce che la caratterizza così anche il Carnevale.

Quanti di noi in questo periodo non hanno affossato il naso dentro lo zucchero a velo di una morbida frittella ripiena di crema o zabaione?

Beh io si con grande soddisfazione.

Ma quale è la storia di questo dolce carnascialesco?

La “fritoea o fritola” in italiano frittella è la regina dei dolci veneziani che vive il suo momento magico a Carnevale.   E’ considerata, da sempre,  il dolce nazionale della Repubblica Serenissima.

La si trova e si mangia  non solo a Venezia, ma in tutto il territorio veneto-friulano, fin quasi alle porte di Milano.

In particolare le fritole veneziane vantano una storia che risale alla seconda metà del ‘300 e la loro ricetta è una delle più antiche conservate in un documento di gastronomia, oggi custodito a Roma presso la Biblioteca Casanatense.

La versione rinascimentale delle fritole fu inserita negli appunti di cucina di Bartolomeo Scappi contenuti in una miscellanea di documenti al Museo Correr a Venezia.

Nell’antichità  le fritole  venivano  fatte solo dai fritoleri che ,nel ‘600, per sottolineare la loro importanza e ufficialità  si costituirono in corporazione. La corporazione era formata da settanta componenti all’origine e  ognuno aveva la  propria area dove poteva esercitare in esclusiva l’attività commerciale,  con la garanzia che a loro sarebbe potuti succedere solo i figli. In questo modo  tramandavano   l’arte e l’attività in famiglia di padre in figlio.

Nel Settecento la fritola fu proclamata “Dolce Nazionale dello Stato Veneto” ma non è chiaro se, nel solo periodo carnevalesco, visto che la frittura veniva fatta in grasso di maiale, o durante tutto l’anno con la versione fritta nell’olio.

Questa attività ebbe fine solo negli ultimi anni dell’800.

Nell’arte veneta troviamo  diversi quadri e immagini del ‘600/700 che raffigurano “la venditrice e il venditore di fritole”;  i cibi fritti, venduti agli angoli delle strade erano diffusissimi in diverse parti d’Italia – e d’Europa – già nel ‘300 , tanto da essere entrati nella raffigurazione al pari degli altri mestieri. Le frittelle venivano infilate in uno spiedo per poter essere mangiate ancora calde, senza ungersi le dita.

Sono molti anche i passi letterari nei quali si parla di questo gustoso dolce.

Secondo quanto riportato in un libro antico, «alle fritole s’accompagnava la malvasia, vino origi­nario di Malvasia, città dell’Epiro, l’antica Epidauro”.

Nel 1800 il nobiluomo veneziano Pietro Gasparo Moro  descrive così i fritoleri: «Hanno sempre sul davanti un pannolino che s’assomiglia al grembial delle donne, che sembra venuto allora fuor dal bucato. Tengono in mano un vasetto bucherellato con cui gettano del continuo zucchero sulla mercie, ma con tal atteggiamento che par vogliano dire: e chi sente l’odore e il sapore di questa cosa che noi inzuccheriamo?».

Mentre lo storico Giovanni Marangoni scriveva: «Cuocitori e venditori a un tempo, impastavano la farina sopra ampi tavolati per poi friggerle con olio, grasso di maiale o burro, entro grandi padelle sostenute da tripodi. A cottura ultimata le frittelle venivano esposte su piatti variamente e riccamente decorati, di stagno o di peltro. Su altri piatti, a dimostrazione della bontà del prodotto venivano esibiti gli ingredienti usati: pinoli, uvette, cedrini».

Della frittella parla anche Goldoni nella sua Commedia il Campiello scritta nel 1756.

Ma fritola  veneziana contagiò anche la cucina ebraica, che a Venezia ha uno dei ghetti più antichi, che ne fece una propria versione; ancora oggi viene preparata per la festa del Purim.

La frittella originale rimane comunque quella veneziana, in tutto il Veneto si sono diffuse ricette locali, dove la si trova in tantissime varianti.

La ricetta originale della fritola veneziana

Ingredienti

Farina bianca 00

Uvetta sultanina

Zucchero

Uova

Latte

lievito di birra

zucchero vanigliato

sale

olio di semi per la frittura

aromi (buccia di limone o arancio).

Preparazione

Mescolare in una terrina la farina con latte, uova e zucchero, facendone un impasto abbastanza tenero,  aggiungere un pizzico di sale, un po’ di lievito di birra , uva sultanina bagnata ed infarinata cercando che tutto si amalgami.

Lasciare lievitare il composto, coperto con un tovagliolo, in un luogo tiepido, per alcune ore.

Lavorare di nuovo il composto, aggiungendo, se occorre, un po’ d’acqua per avere un impasto fluido.

Versare a cucchiaiate l’impasto in una padella con molto olio bollente, e quando si rapprende, voltarlo con una schiumarola fino a che prende un color marrone chiaro.

Quando sono pronte, levarle con una schiumarola, posare su una carta assorbente, servendole coperte da un velo di zucchero vanigliato.

Alberta Bellussi

 

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Figà, e tutte le altre varie inflessioni locali figàl  ecc, è la parola veneta per indicare il fegato e il fegato alla veneziana è uno di quei piatti che rappresenta il Veneto e  ci appartiene culturalmente.

Quale veneto non si è mangiato, di gusto, un buon piatto di fegato alla veneziana?  Forse quasi nessuno.

Se guardiamo la storia culinaria troviamo testimonianze  dell’uso del fegato nel De re Coquinaria di Apicio, il cui nome in realtà, appartiene a ben tre personaggi vissuti nel corso dei secoli dall’epoca repubblicana, a quella augustea a quella di Traiano. Tutti e tre avevano fama di intenditori dei piaceri della tavola. Fu nel 230 d.C. che un cuoco di nome Celio raccolse una serie di ricette attribuendole ad Apicio nel De re Coquinaria, importante testimonianza della cucina nell’antica Roma.

Nell’abitudine romana però il fegato era cucinato con i fichi che ne smorzavano il sapore forte e deciso, da qui il nome “iecur ficatum” (fegato coi fichi) poi divenuto solo ficatum e trasformato in fegato.

I veneziani ebbero una grande intuizione culinaria,  sostituirono i fichi con le segoe  (le cipolle), più diffuse in laguna; la funzione era la stessa ossia quella di “addolcire” il gusto del fegato sanguigno, quasi ferroso, per creare un piatto piacevole.

Fegato alla Veneziana

La tradizione vorrebbe il fegato di maiale, ma oggi si utilizza più comunemente il quello di vitello o di vitellone, dal gusto meno deciso.

Sulle cipolle però non si transige: va utilizzata solo quella bianca di Chioggia.

E’ questa la cipolla tipica della   laguna e nelle zone limitrofe (le zone interessate alla produzione sono le province di Venezia e Rovigo, e il comune di Ariano Polesine).

 

La ricetta

Ingredienti (per 4 persone):

600 g di fegato di maiale (o di vitello o vitellone se lo si preferisce)

2 grosse cipolle bianche di Chioggia

50 g circa di burro

4 cucchiai di olio extravergine d’oliva

un cucchiaio di aceto (facoltativo)

Un mazzetto di prezzemolo (facoltativo).

Sale e pepe q.b.

 

Fare soffriggere la cipolla tagliata a fette nel burro misto a olio; aggiungere, quando si sarà imbiondita, un po’ di aceto (se lo si usa) o 2 cucchiai di acqua e lasciare stufare 15-20 minuti a fuoco dolce.

Aggiungere quindi il fegato tagliato a listarelle (e il prezzemolo se lo si usa) e fare cuocere velocemente (non più di 5 minuti) a fuoco alto, salare e pepare.

Il piatto va consumato caldo. Se riscaldato, il fegato si indurisce. Questa pietanza viene anche accompagnata da polenta morbida o con fette di polenta tostate.

Di seguito un’altra ricetta  veneziana antica che utilizza il  fegato.

Figà garbo e dolse  (fegato agro dolce)

Magnifica ricetta veneziana, per preparare il fegato,  completamente dimentica.

Tagliare il fegato a fette non troppo sottili e passarle nell’uovo e con molta cura nel pane grattato.

Volendo una panatura alta e morbida ripetere due volte l’operazione.

Friggere le fette di fegato in un misto di olio e burro finché la panatura si colora di biondo carico.

Far asciugare l’olio  su carta assorbente e disporre le fette su un piatto da portata e salarle, bagnarle con il succo di un limone nel quale sia stato sciolto un cucchiaino di zucchero.

Spolverare di pepe e servire il piatto caldissimo.

Decorare con gambi di prezzemolo fresco.

(recuperata da Claudio Rorato)

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Sarde in saor alla veneta
Dosi per 4 persone: 600 gr di sarde, olio di arachidi, sale.

 

Per la marinata (saor):
250 gr di cipolla, 1 cucchiaio di uvetta di Corinto, 1 cucchiaio di pinoli, 1/2 litro di buon aceto di vino rosso, 1/2 litro di vino bianco secco, 3 cucchiai di olio di oliva, sale, pepe in grani.
Mettere a bagno l’uvetta nel vino.
Pulire le sarde, infarinarle e friggerle, salarle e asciugarle su carta assorbente.
In un’altra padella metter a freddo i 3 cucchiai di olio, qualche cucchiaio di vino, le cipolle affettate molto finemente, salarle e far stufare molto lentamente.
Quando sono morbide aggiungere l’uvetta, i pinoli, il vino, l’aceto, salare e lasciar sbollire la marinata per alcuni minuti. Sistemare le sarde in una terrina e ricoprirle con metà della marinata. Ripetere un secondo strato. Lasciar riposare il saor per alcuni giorni nella parte più bassa del frigorifero.
Gustare con della buona polenta abbrustolita.

dal ricettario di Claudio Rorato

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Bigoli in salsa  alle noci

Piatto veneto antichissimo

Ingredienti per 4 persone:

350 grammi di bigoli freschi all’uovo in alternativa usare i bigoli mori di Castelfranco.

70 grammi di gherigli di noci

40 grammi di pan grattato

30 grammi di burro

1 cucchiaino di zucchero di canna

1 pizzico di cannella in polvere (se piace, altrimenti ometterla)

Sale, pepe nero macinato fresco, noce moscata Olio d’oliva Extra vergine q.b.

Storia:

Tra i primi piatti, senza ombra di dubbio la pasta è l’elemento più diffuso nella cucina del Veneto. E’ la base della maggior parte dei primi piatti asciutti. Sono tenuti in gran conto i bigoli – ruvidi spaghetti di pasta fresca, fatti con farina di grano duro rimacinata o di farine integrali o miste e acqua salata, un tempo senza l’aggiunta di uova. In passato venivano preparati con il “ bigolaro”, un antico attrezzo a vite, che serviva a pressare questi grossi spaghettoni. Oggi comunque, vanno preparati con l’aiuto delle macchine per pasta fresca “presse”, che ci premettono trafilare a bronzo ottimi bigoli in diverse misure. La misura di sempre va da 2 a 3 mm di diametro .

Preparazione:

Preparate innanzitutto l’acqua per la cottura della pasta, perché i nostri bigoli grossi interamente di semola di grano duro, essendo all’uovo, ci metteranno parecchio tempo a cuocersi. Frullare nel finemente le noci con lo zucchero, la cannella e un po’ di noce moscata grattugiata finemente. Se serve a favorire l’operazione aggiunger un goccio di acqua. Salate, pepate e mescolate con cura. Prendete una padella e sulla fiamma bassa lasciateci rosolare il burro, aggiungete il pangrattato e fatelo tostare. Versate il trito in una padella con il pangrattato e rimestate ancora. Lasciate da parte. A questo punto, scollate la pasta bene al dente ma tenetevi da parte un po’ di acqua di cottura che servirà per ottenere la salsina. Verste la pasta nella salsa di noci, aggiungete a piacere l’acqua di cottura un po’ di olio d’oliva extravergine e servite ben caldo.

Buon Appettito!

dall’archivio delle ricette storiche di Claudio Rorato

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Fiori di acacia e sambuco? Commestibili!

Questa ricetta ha origine da un ricordo della mia infanzia, mia nonna preparava infatti sempre in questa stagione le frittelle di fiori d’Acacia, uno squisito piatto dolce che appartiene alla tradizione veneta.
L’Acacia o Robinia è  una pianta molto diffusa ed in questo periodo i rami sono colmi di fiori profumatissimi, è davvero difficile non vederla o confonderla con altre piante anche se essere sicuri e fare attenzione quando si raccolgono piante spontanee è importantissimo.
Per quanto riguarda invece il Sambuco (Sambucus Nigra) è una pianta molto diffusa e quindi facile da trovare spontanea, ma bisogna stare attenti a non confonderlo con l’ebbio (Sambucus Ebulus) che è molto simile ma velenoso.

Ingredienti:

6 rametti di fiori di Sambuco

6 rametti di fiori di Acacia

100 gr di farina

1 bicchiere circa di acqua fredda

1 pz. di sale o zucchero o miele

olio extravergine di oliva

Utensili di preparazione e presentazione

una terrina

una frusta

una padella a bordo alto per friggere

una schiumarola o paletta forata

carta paglia / carta assorbente

piatto da portata

Procedimento per la preparazione

Lavate delicatamente e mettete ad asciugare i rametti dei fiori. Con la frusta, nella terrina, preparate una morbidissima pastella
con farina, acqua ed un pizzico di sale. Fate scaldare l’olio nella padella (attenzione a non far salire troppo la temperatura, perché i fiori sono molto delicati).
Passare uno alla volta i rametti nella pastella e poi nell’olio bollente. Girare per cuocere i fiori da entrambi i lati e passare sulla carta paglia
o assorbente per far colare l’olio in eccesso. Si possono riporre su un piatto da portata e servire come antipasto con un pizzico di sale. Invece nella versione dolce spolverati o di zucchero a velo o di miele.