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I baicoli sono biscotti tipici della produzione dolciaria veneziana che più di ogni altro incarnano la tradizione veneta del “biscottare” ossia “bis-scottati”-  scottati due volte – pratica di cottura questa che permetteva agli alimenti  di essere portati  in nave durante i periodi lunghi in cui i marinai navigavano per instaurare rapporti commerciali in tutto il Mediterraneo. La scadenza era lunghissima e la loro inalterata fragranza si manteneva grazie alle scatole di latta in cui erano conservati che li rendevano adatti per i lunghi viaggi così come il pan biscotto alimento base della marineria della Serenissima. All’Arsenale sono ancora visitabili i forni della Marineria della Serenissima.

Secondo alcune fonti, i Baicoli vennero inventati nel XVIII secolo da un panettiere veneziano di Campo Santa Margherita, un luogo ricco di storia e tradizioni culinarie. Il nome di questi biscotti deriva proprio da questo legame con il mareBaìcolo era il termine dialettale utilizzato dai marinai per definire piccoli pesci quali il branzino e il cefalo, che hanno la stessa forma allungata e leggermente schiacciata di questi biscotti.

La ricetta originale dei Baicoli prevedeva l’utilizzo di ingredienti semplici e facilmente reperibili⁚ farina, burro, zucchero, lievito, albume d’uovo, latte e un pizzico di sale. La loro preparazione, seppur semplice, richiedeva una certa maestria e cura, per ottenere un biscotto croccante e dal sapore delicato. Nel corso dei secoli, la ricetta dei Baicoli si è tramandata di generazione in generazione, adattandosi ai gusti e alle tradizioni locali.

Nel 1911 fu Angelo Colussi, che decise di produrre, nella sua fabbrica, questa ricetta traduzionale nella  tipica scatola di latta sulla quale è raffigurato un innamorato che dona i biscotti alla sua amata e tutt’ora è in produzione.  Su queste scatole, spesso a fondo giallo come vuole la tradizione veneziana, si possono leggere questi versi

No gh’è a sto mondo, no, più bel biscotto, più fin, più dolce, più lisiero e san per mogiar nela cìcara o nel goto del Baicolo nostro Veneziàn”

Oggi, i Baicoli sono un simbolo della pasticceria veneziana e un prodotto di eccellenza, apprezzato in tutto il mondo.

RICETTA:

Ingredienti per 6 persone

* 1 dl latte

* 400 gr farina

* 50 gr zucchero semolato

* 80 gr burro

* 1 uovo (albume)

* 15 gr lievito di birra

Preparazione:

  1. Riscaldare il latte (tiepido) e sciogliere il lievito di birra.
  2. Su una spianatoia disporre 100gr farina a fontana e versare al centro la miscela di latte e lievito.
  3. Impastare il tutto fino ad ottenere un panetto sodo dove incidere una croce.
  4. Lasciare lievitare per 30 minuti.
  5. Mescolare 300 gr di farina con un pizzico di sale e 50 gr di zucchero.
  6. Porre al centro il panetto di pasta lievitata, disponetelo a cono e al centro lavorare 80g di burro ammorbidito e mescolare con l’albume montato a neve.
  7. Impastare aggiungendo latte q.b.
  8. Dividere poi l’impasto in quattro e lasciare lievitare ancora i panetti per 2 ore circa
  9. Infornare a 180° per circa 10 minuti.
  10. Fare raffreddare e lasciare riposare per due giorni, coperti.
  11. Tagliare i panetti a fettine sottili sottili.
  12. Disporle su una teglia e infornare di nuovo a 170° per 10 minuti circa fino a farle dorare. Alberta Bellussi

 

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Il “pan de oro”

La storia del pandoro risale a diversi secoli fa ed è spesso avvolta da leggende e tradizioni popolari. Le origini del pandoro sono, senza dubbio, legate alla città di Verona e il dolce, nel tempo, si è legato al Natale.

Sembra che il pandoro nasca nel Medioevo, durante il periodo della Repubblica di Venezia, e che il dolce fosse già preparato in modo simile a come lo conosciamo oggi. La forma a stella del pandoro si ispira, infatti, alla Torre dei Lamberti di Verona, e proprio questo è uno degli elementi che rafforzano il legame con questa città.

Ma da dove deriva il termine pandoro?

Da “pan de oro“, che fa riferimento all’originaria pratica di decorare il dolce con foglie d’oro commestibile; pratica, questa, che risale al Rinascimento e sottolinea il prestigio e la raffinatezza del dolce, che veniva spesso preparato per occasioni speciali. Durante i secoli, la ricetta del pandoro è stata raffinata e adattata, ma il suo status di dolce natalizio è rimasto intatto.  Ma il vero pandoro fu inventato, nel 1884, da Domenico Melegatti che depositò il brevetto per la sua ricetta del pandoro presso la Camera di Commercio di Verona, stabilendo così la sua rivendicazione come creatore di questo famoso dolce natalizio. Insieme alla ricetta, registrò anche lo stampo, appositamente disegnato da un artista cittadino, e usa, per la prima volta, il nome pandoro. Era la rielaborazione raffinata di un dolce natalizio della tradizione veneta chiamato “el nadalin”. Molti anni dopo  il pandoro entra nei dizionari: lo registra Alfredo Panzini nella quinta edizione del suo Dizionario moderno (1927): «“Pandòro”: dolce di lievito, ricchissimo di burro (Verona). Dal colore aurato dovuto al rosso d’uovo».

La ricetta è un po’ impegnativa prevede 2 ore circa di preparazione e 23 di lievitazione.

Ingredienti per 1 pandoro

  • 480 g farina setacciata più un po’
  • 170 g burro morbido a pezzetti più un po’
  • 125 g zucchero semolato fine
  • 60 g latte tiepido più 3 cucchiai
  • 20 g lievito di birra fresco
  • 3 uova – 1 tuorlo
  • 1 baccello di vaniglia
  • 1 cucchiaino scarso di sale
  • zucchero a velo

Procedimento

  1. Sciogliete 15 g di lievito nel latte tiepido. Aggiungete 25 g di zucchero semolato, il tuorlo e mescolate. Aggiungete 50 g di farina e amalgamate con cura. Coprite con pellicola e lasciate riposare per 1 ora o finché il composto non raddoppia di volume.
  2. Sciogliete il lievito rimasto in altri 3 cucchiai di latte tiepido e aggiungetelo al composto lievitato; unite lo zucchero rimasto e 1 uovo intero, quindi 200 g di farina e 30 g di burro a pezzetti, lavorando finché la consistenza non sarà omogenea; lasciate riposare per un’altra ora o finché non raddoppia di volume.
  3. Aggiungete quindi la farina rimasta, 2 uova, i semi della vaniglia e il sale; mescolate bene. Imburrate una ciotola, deponetevi la pasta, coprite e lasciate riposare al tiepido per 1 ora (il volume dovrà raddoppiare); poi mettetela in frigo per 12-15 ore.
  4. Lavorate infine la pasta su un piano infarinato e stendetela con un matterello, in un quadrato. Disponete sulla zona centrale del quadrato 140 g di burro a cubetti, poi ripiegate i quattro angoli verso il centro, chiudendo bene in modo che il burro non fuoriesca. Piegate il quadrato a metà, giratelo con il lato corto verso di voi e stendetelo nuovamente; piegatelo in tre e fatelo riposare in frigo per 20 minuti.
  5. Stendete l’impasto e ripiegatelo su se stesso per altre 3 volte lasciandolo riposare in frigo ogni volta per 15 minuti.
  6. Stendete di nuovo l’impasto dandogli una forma quadrata e ripiegate gli angoli verso l’interno, come la prima volta. Capovolgetelo e dategli una forma tondeggiante.
  7. Imburrate bene uno stampo da pandoro (750 ml) e adagiatevi l’impasto, tenendo la parte con la pasta rimboccata verso il fondo. Sciogliete 20 g di burro, spennellate la pasta e lasciate riposare, coperto con la pellicola, per circa 4 ore in un luogo tiepido, finché la pasta non avrà colmato lo stampo.
  8. Cuocete il pandoro nel forno ventilato preriscaldato a 160 °C per 15 minuti; riducete quindi a 130 °C (sempre ventilato), coprite la superficie con un foglio di alluminio e cuocete per altri 40-45 minuti. Fate la prova dello stecchino: se esce asciutto, il pandoro è pronto. Fatelo raffreddare, sformatelo e completatelo con lo zucchero a velo.
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Una delle pietanze caratteristiche della cucina veneziana sono sicuramente le moéche; sono chiamate per la loro bontà e rarità “pepite di Venezia”, e ora se vai nel banco del pesce le trovi a 90/100 euro al chilo e sono ancor più una cosa preziosa.

Moéca è il nome che i veneziani hanno dato al granchio autoctono quando esso arriva al culmine della fase di muta. In due periodi dell’anno, primavera e autunno, il granchio si libera del carapace, la corazza che lo protegge, per costruire una corazza più grande. In quel lasso di tempo, i granchi possono essere gustati interamente, senza difficoltà, perchè sono teneri. Da questo deriverebbe anche il modo di dire “te si na moéca” che significa sei uno smidollato.

L’ambiente ideale per la crescita delle moeche è la laguna veneta che con i suoi fondi sabbiosi e le sue acque salate e salmastre, ben si presta alla proliferazione di questo morbido crostaceo, le zone comprese tra Burano, Giudecca e Chioggia sono poi specializzate nel loro allevamento.

Il termine moéca ha, però, un altro significato: esso si associa anche all’effigie del leone di San Marco alato che sorge dalle acque (el leon en moéca).

Nelle poche ore in cui il granchio muta il carapace, diventa una preziosa leccornia, una specialità della sola cucina veneziana e la sua storia è ancora per molti assai misteriosa, nonostante le moéche abbiano conosciuto un boom nei consumi a partire dall’ultimo dopoguerra. In verità questa tradizione inizia solo dopo la metà del secolo scorso perché prima, e per ben due secoli, la “produzione” di questo stranissimo granchio era un segreto professionale dei moécanti di Chioggia, scoperto grazie alla furbizia e alla costanza dei pescatori di Burano. Attualmente la produzione delle moéche avviene nella Laguna nord di Venezia dove negli ultimi decenni, per i mutamenti degli antichi bacini da pesca, sono cambiate anche le tecniche usate dai pescatori. I pescatori di moéche, chiamati “moécanti”, pescano armati di una particolare rete collocata nei fondali bassi della laguna, la “trezza”. Si lavora sempre con le serraglie, dette in passato seràie da seca, che non sono più fisse. Una volta catturate, le moéche vengono trasferite in sacchi di juta che hanno lo scopo di mantenere la giusta umidità durante il trasporto agli impianti di lavorazione. Nei casòni o casòti si compie la delicatissima fase di cernita che avviene in funzione dello stato biologico dei granchi e che si avvale della grandissima abilità dei moécanti. Questi li selezionano e immettono quelli prossimi alla muta, detti spiàntani (i moécanti conoscono ormai ogni segreto dei granchi), in grandi cassoni di legno, semisommersi, chiamati vièri, dove in breve tempo diventeranno moéche. Quanto detto vale per i maschi, perché per le femmine il ciclo evolutivo è diverso. Esse, infatti, mutano solo alla fine della primavera. La muta per le femmine coincide con l’accoppiamento dell’estate e in autunno, quando sono piene di uova, non muteranno più e, se catturate, saranno mangiate con il coràl (a vòva, le uova). E queste sono le masenéte. Questi esperti pescatori (se ne contano solo una cinquantina ogni tremila pescatori), sono talmente abili nel loro lavoro da riuscire a distinguere praticamente ad occhio una moéca da una mazaneta. Per quanto possa apparire semplice, le fasi di cernita si rivelano molto complesse ed è forse l’aspetto in cui si percepisce meglio la specificità di questo modo di pescare i granchi tipico della Laguna. Per tale motivo per le moéche è stato istituito un Presidio Slow Food, sostenuto dalla regione Veneto.

Alberta Bellussi

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Anche se sembra una parola curiosa quasi una parolaccia in realtà è un piatto di origine chioggiotta molto antico.  Prende il nome dalla pentola di terracotta sulla quale veniva cucinato che si chiama casso, da cassariola e veniva lasciata pipar su un angolo della cucina economica, oppure veniva preparato in barca dai pescatori: quando tiravano su le reti, tenevano da parte i granchi e altri crostacei o molluschi di scarsa qualità per prepararsi, in barca, una sorta di zuppetta calda.

Il cassopipa, per risultare buono, deve essere fatto minimo per sei o otto persone perché per prepararlo servono tutte le varietà possibili di molluschi: peoci, bevarasse, garuzoli, caparozoli, detti vongole veraci, e le bibarasse, capelonghe, telline e quant’altro si riesce a trovare al mercato, aggiungendo anche due o tre folpetti o due calamaretti nostrani.

Preparazione

Per prepararlo bisogna far saltare su una pentola con olio d’oliva e uno spicchio d’aglio le cappe separatamente (lavate e spurgate in acqua salata, se necessario) un tipo alla volta, oppure potete farlo più rustico lasciando le cappe;  mettere da parte il sugo di cottura formatosi, filtrandolo bene per togliere eventuali residui di sabbia, Preparare in una pentola, meglio se di terracotta per rispettare la tradizione, un abbondante soffritto con cipolla, sedano, carota e aggiungere tutti i tipi di cappe, i calamaretti e/o i folpetti, tagliati a pezzetti se troppo grandi, amalgamando il tutto.

Aggiungere quindi due bicchieri di vino bianco rimescolando energicamente, iniziare a questo punto ad aggiungere l’acqua di cottura delle cappe (recuperatene il più possibile) e spezie in quantità a piacere: cannella, noce moscata, alloro, abbondante pepe, timo e altri aromi che vi piacciono.

Abbassare al minimo la fiamma, o se avete una cucina a legna ancora meglio,  e lasciare cuocere, “pipare” appunto, con molta calma; aggiungendo mano a mano l’acqua delle cappe rimasta. Alla fine il sugo deve risultare denso.

Si può mangiare come zuppa o come condimento dei bigoi.

Alberta Bellussi

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I Bussolai sono i biscotti tipi dell’Isola di Burano. Il loro nome deriva dalla tipica forma a ciambella con al centro un buco che in dialetto veneziano si dice “buso”. La tradizione vuole il bussolà come dolce pasquale, accuratamente preparato nelle case e portato a cucinare dai fornai. Riposto poi nelle credenze. In passato, proprio per il loro aroma vanigliato venivano utilizzati anche per profumare i cassetti della biancheria. Secondo antiche leggende, questi biscotti venivano preparati in casa dalle mogli dei pescatori e dei marinai. Quando i mariti partivano per mare, ne portavano con sé in grandi quantità, perché erano molto nutrienti e si conservavano bene, indurendosi appena con il trascorrere del tempo. Questa usanza si diffuse talmente tanto che qualcuno iniziò a produrli per venderli. Fu così che da biscotti dei marinai, i Bussolai vennero presto consumati da tutti gli abitanti di Venezia specialmente in prossimità della Pasqua. Riscossero talmente tanto successo che conquistarono il palato proprio di tutti, anche quello delle Suore del Convento di San Maffio. Si racconta, infatti, che nel XVI secolo le ecclesiastiche ricevettero l’ordine di diminuire le spese per l’acquisto dei Bussolai dato che ne consumavano troppi. Difficile resistere alla tentazione, dato che il convento sorgeva nell’Isola di Mazzorbo, a pochi metri da Burano, il maggior centro di produzione di questi biscotti. Allo stesso impasto si può dare la forma di una esse; la famosa Esse buranea.  Questo dolcetto era comodo da “mogiar” (ammollare, nel senso di pucciare) nel vin santo o nello zibibbo.

Le versioni del bussolà sono tante gli ingredienti sono sempre gli stessi variano invece le quantità di burro o quelle dello zucchero oppure la quantità delle uova. Quelli che si vedono in commercio sono di un bel colore giallo e per questo si possono utilizzare uova a pasta gialla.

INGREDIENTI

  • 300 g di burro
    • 600 g di zucchero
    • 1 kg di farina
    • 12 tuorli d’uovo
    • 10 g di sale
    • 6-7 g di lievito
    • 1 bicchierino di mistrà
    • 1 bustina di vanillina.

PREPARAZIONE

Porre la farina sulla tavola: versare al centro lo zucchero, il burro fuso, il sale e il lievito sciolto in un po’ di acqua tiepida. Tagliare la pasta a pezzetti per formare dei piccoli cerchi vuoti al centro. Sistemare i Bussolai su una teglia coperta da carta forno e infornare a 180° per 15 minuti. Abbassare poi la temperatura del forno a 150° e cuocere per altri 10 minuti. Sfornare anche se sono un po’ soffici dato che s’induriscono raffreddandosi.

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“Radici e Fasioi” è un piatto rurale particolarmente diffuso lungo le sponde del fiume Piave, in Veneto. Questo piatto è sempre accompagnato da fette di polenta abbrustolita e sempre condito con una dadolata di lardo o pancetta saltati in padella…

L’uso del lardo o della pancetta come condimento, era quasi obbligatorio, poiché, a causa delle comuni ristrettezze economiche, non vi era alcuna possibilità di acquistare l’olio né di semi né d’oliva.

Le origini dei Radici e Fasioi si perdono nella notte dei tempi e diventa impossibile darne una datazione certa. Tuttavia, possiamo affermare, che questo piatto era consumato dalle famiglie umili, poiché i fagioli non facevano certamente parte della dieta delle famiglie più facoltose e benestanti. Era, per abitudine, una pietanza da consumare alla sera e per molti era un vero e proprio piatto unico. Si consumava in tutti i periodi dell’anno e spesso accompagnato da un buon bicchiere di Vino Rosso. E’ utile ricordare che i fagioli hanno un valore nutritivo particolarmente elevato, dal punto di vista proteico e quindi non mancavano mai nella dieta quotidiana anche perché sia agricoltori che gente comune non avevano la possibilità di comprare la carne! Negli ultimi tempi questo piatto popolare è stato rispolverato, creando anche una Confraternita che porta avanti la tradizione e ha depositato la ricetta originale a Roma. Viene preparato in alcune trattorie della zona del Piave, sia in provincia di Treviso che di Venezia spesso come antipasto caldo e servito in cocottine di terracotta con i fagioli ben caldi e il Radicchio a temperatura ambiente.

Ingredienti

300 grammi fagioli borlotti, Lamon o Cuneo;

1 costa di sedano, 1 cipolla piccola, 1 carota piccola, Sale e pepe

300 grammi di radicchio di campo;

olio extra vergine di oliva, 1 testa d’aglio, 1 rametto di rosmarino,

I fagioli vanno prima mondati con abbondante acqua tiepida e poi vanno messi a bagno in acqua fredda per una notte intera, prima della preparazione. La mattina seguente, si prepara un fondo d’aglio cipolla e rosmarino ben tritati. Si fa rosolare questo trito di verdure con un pò d’olio, si aggiungono i fagioli e si fanno insaporire. Si coprono d’acqua, si aggiungono foglie di sedano, e si fanno bollire per circa due ore mezza a fuoco moderato, avendo cura di aggiungere acqua ben tiepida per ultimarne la cottura. Un tempo si usava aggiungere della cotenna di maiale per dare sapore e risalto al piatto.

A cottura ultimata bisogna passare metà dei fagioli con un passaverdura o setaccio sino ad ottenere una purea morbida. Il composto di fagioli dovrà avere una parte di fagioli interi e una passata. Si aggiusta di sale e pepe e dado in polvere sempre alla fine.

A parte si prepara il radicchio, lavato per bene e sgocciolato in un colino. In seguito in un piatto da zuppa si unisce il radicchio mondato coperto dalla purea di fagioli ottenuta. Si condiscono con olio di semi o extravergine d’oliva, aceto, sale, pepe e per i piu’ golosi anche lardo a pezzetti saltato in padella. Meglio se i fagioli sono caldi e se ne avete la possibilità serviteli con fette di polenta grigliata. E’ Un modo di mangiare semplice, dai sapori dimenticati che forse stona con alcuni piatti altisonanti, ma ritengo che sia un modo per scoprire i sapori di un mondo che non c’è più.

Alberta Bellussi

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Il Marzapane è un dolce estremamente semplice con origini antichissime.

Marci panis ovvero “il pane di Marco”: sembrerebbe essere questa l’etimologia della parola, anche se molti ritengono che derivi dall’arabo maw-thabán, che era un’unità di capacità in uso a CIPRO e in ARMENIA quale sottomultiplo del moggio. Questa unità di misura cedette il suo nome al contenitore tarato sulla misura stessa;  era una scatoletta  di legno leggero dotata di un coperchio che venne utilizzata per diversi usi, per chiudere la corrispondenza o i documenti importanti (da questo il modo di dire “aprire i marzapani”) ma anche per spedire speciali dolci prodotti a Cipro. Dato che questi dolci prendevano forma dalla scatola ed erano simili a pani, il nome dell’involucro passò al contenuto. A quei tempi l’influenza araba e mediorientale era molto sentita, gli arabi introdussero anche le spezie nella cultura gastronomica Siciliana.

Il marzapane è sempre sembrato essere indissolubilmente legato alla Sicilia – dove raggiunge la sua massima espressione con la frutta martorana – ma in realtà è diffuso in  tanti altri Paesi. Nonostante sia complesso rintracciarne le origini precise, è chiaro che le sue radici affondano nella cultura araba, che l’ha poi introdotto in Europa intorno all’anno Mille, durante la dominazione islamica della Sicilia. Prima ancora però, dolcetti simili erano prodotti dagli antichi Etruschi in occasione dei rituali funebri e venivano offerti alle divinità ma la vera ricetta della pasta di mandorle è  veneziana.

Risale alla Serenissima, infatti, la prima ricetta codificata che ne rivendica la paternità anche per via del nome appunto, “pane di Marco” e risale al 1300: in quel periodo la repubblica marinara era fra le poche a reperire gli ingredienti più rari e pregiati come lo zucchero e le mandorle, alla base  di questo dolce. I Veneziani iniziarono a commercializzare i panetti di marzapane, per le occasioni speciali, come la festa di San Marco o il carnevale, e un tempo contrassegnata con il simbolo del leone di San Marco. Il nome divenne in tedesco Marzipan, mentre in Sicilia si tornò al nome originario di pasta reale.

La ricetta base del marzapane prevede l’uso di farina di mandorle, zucchero e albumi d’uovo, ma come sempre ingredienti e quantità variano a seconda della zona e delle tradizioni locali.

INGREDIENTI (250 g di marzapane)

125 g di farina di mandorle

125 g di zucchero a velo

30 g albume d’uovo pastorizzato

5-6 gocce di aroma di mandorla

Il marzapane che ho preparato è costituito soltanto da farina di mandorle, zucchero a velo e albume.  Vi consiglio di utilizzare l’albume già pastorizzato che si trova in commercio al supermercato per evitare di mangiare l’albume crudo. Mettete in un recipiente la farina di mandorle e lo zucchero a velo. Aggiungete l’albume, un po’ alla volta, l’aroma di mandorla e amalgamate con un cucchiaio. Aggiungete l’albume piano piano fino ad ottenere una massa densa. La quantità di albume può cambiare in base alla oleosità della farina di mandorle.

Dopo pochi minuti impastate con le mani e il marzapane è pronto.

Alberta Bellussi

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Natale è tempo anche di dolci prelibatezze, alla tradizione appartiene  il mandorlato, semplicissimo negli ingredienti  dolce che nasce nel cuore del Veneto, a Cologna Veneta in provincia di Verona.

Cologna Veneta è un piccolo comune situato nella bassa pianura veronese, conosciuto in Italia e all’estero per il suo dolce tipico delle feste natalizie, il Mandorlato.

Un dolce molto apprezzato dalle nobili famiglie venete già dai tempi della Serenissima Repubblica e citato in vari testi del XVI secolo. Fatto con miele, zucchero, albume d’uovo e mandorle è uno dei dolci tipici del Natale fin dai tempi in cui Cologna faceva parte del “Dogado” della Serenissima.

Se ne hanno riferimenti a partire dal 1500 a Venezia e a Vicenza. Alvise Zorzi, scrittore e studioso veneziano del ‘900 nel suo libro “La vita quotidiana a Venezia nel secolo di Tiziano” scrive: “Nel Cinquecento c’erano altri doni consuetudinari: la focaccia del giorno di Pasqua, il Mandorlato e la mostarda di Natale, i marroni e la cotognata del giorno di S. Martino”.

Era un dolce che si faceva in casa ma la  prima fabbrica moderna di Mandorlato fu aperta a Cologna Veneta nel 1852 per iniziativa dello speziale Italo Marani ed ancora oggi è attiva. Ai nostri giorni sono molte le ditte che lo producono, sia industrialmente che artigianalmente.

 

INGREDIENTI (PER 4 PERSONE)

500 grammi mandorle pelate

350 grammi di Miele millefiori

mezzo cucchiaino di Cannella

2 albumi uovo – cialde bianche

 

PREPARAZIONE

Tostate le mandorle, mettendole in forno a 120 gradi per circa 10 minuti. Riscaldate il miele a bagnomaria, con fuoco moderato, per circa mezz’ora mescolando di continuo sino a quando non risulterà completamente liquido. Montate gli albumi d’uovo a neve ferma e aggiungetene delicatamente metà al miele. Proseguite la cottura a bagnomaria per un’altra mezz’ora, mescolando spesso per evitare che si attacchi alle pareti del tegame. Togliete dal fuoco, unite gli albumi rimasti e mescolate delicatamente sino ad ottenere un composto omogeneo. Aggiungete le mandorle tostate e mezzo cucchiano di cannella. Amalgamate il tutto, mescolando con cura, e poi versate il composto in uno stampo basso e largo, foderato con le cialde bianche (o carta da forno) cercando di ottenere uno spessore di circa 2-3 centimetri. Lasciate raffreddare e rassodare; servite il vostro Mandorlato tagliandolo a pezzettoni.

Alberta Bellussi

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 Il Cavallo di San Martino si mangia l’11 novembre. Nella giornata di commemorazione del Santo si ricorda un momento importante  della vita contadina del passato, in questa data infatti, venivano rinnovati i contratti agricoli annuali e per l’occasione si festeggiava con i frutti della stagione autunnale, tra i quali il vino novello.

L’ antico proverbio, “A San Martino ogni mosto è vino”, ricorda che in questo periodo si aprono le botti per assaggiare il vino che spesso accompagna la degustazione di questi dolci.

Questo dolce-biscotto è per tradizione preparato a Venezia  ma ormai la consuetudine si è estesa in tutto il Veneto dove questi simpatici cavalli vengono esposti in bella mostra nelle vetrine di numerose pasticcerie. E’ un dolce molto apprezzato dai bambini,
Ha la forma caratteristica di San Martino a cavallo con decori di ogni tipo: dalla glassa di zucchero alla copertura ricoperto di cioccolato e guarnito con cioccolatini e caramelle.

Ricetta

100gr di Miele di Acacia

300gr di Zucchero Semolato

600gr di Burro

200gr di Uova

5gr di Sale

10gr di Lievito Chimico

1kg di Farina

Per preparare i biscotti ponete tutti gli ingredienti su una spianatoia ed impastate bene per amalgamare e ottenere un impasto liscio ed omogeneo. Lasciatelo riposare, avvolto nella pellicola trasparente, per almeno un’ ora in frigorifero. Stendete l’impasto in una sfoglia dello spessore di mezzo centimetro circa con lo stampino e disponete le forme su di una teglia foderata con carta forno. Se non avete la formina adatta non abbiate paura, create la forma del cavallo a mano oppure scaricatela da una qualsiasi immagine dal web e riproducetela su di in un cartoncino. Infornate le sagome in forno statico preriscaldato a 180° fino a quando non si sarà imbiondita la frolla e dunque abbastanza croccante da reggere la glassatura. Vi sembrerà strano leggere tra gli ingredienti il Miele ma sarà un grande alleato per gargantirvi la consistenza giusta. Ora non vi resta che glassare sciogliendo il cioccolato a bagnomaria o al microonde e dare sfogo alla vostra creatività con le decorazioni dolci!!

Alberta Bellussi

 

 

 

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Devo ammettere che amo molto la pianta del giuggiolo e ancor di più i suoi frutti e non vedo l’ora che arrivi l’autunno per potermi deliziare degli stessi.

Legata a questo frutto esiste una famosa espressione: “andar in brodo de giugioe” detto antico diffusamente utilizzato per indicare uno stato d’animo di grande soddisfazione e godimento, quasi uscire di sé dalla contentezza; stato che tutti noi speriamo di provare almeno qualche volta nella vita.

 Da dove deriva questa espressione?

Con le giuggiole dalla notte dei tempi si fa un delizioso infuso che sembra inebri i sensi per la sua dolcezza e il suo gusto.

Questo liquore era conosciuto e apprezzato già presso le civiltà del bacino del Mediterraneo, sin dagli antichi Egizi e dai Fenici, i quali crearono i primi preparati di cui siamo a conoscenza.

Tra le fonti storiche più remote che citano i frutti del giuggiolo troviamo le “Storie” di Erodoto, il quale paragonò il gusto dolce della giuggiola a quella del dattero, raccontando che da essa si poteva ottenere una bevanda inebriante utilizzando la sua polpa fermentata. Alcuni studiosi ipotizzano inoltre che nel Libro IX dell’Odissea il “frutto del loto” citato da Omero che portò all’oblio gli uomini di Ulisse sbarcati sull’isola dei Lotofagi, possa in realtà corrispondere ad una specie di giuggiolo selvatico, e dunque l’incantesimo narrato sarebbe stato provocato dalla bevanda alcolica preparata con i frutti inebrianti di questa pianta e non da sostanze narcotiche.

Presso gli antichi romani l’albero del giuggiolo divenne il simbolo del silenzio e fu usato per adornare i templi dedicati alla dea Prudenza; l’uso in ambito religioso non escluse però un utilizzo anche profano da parte delle popolazioni latine, le quali per secoli coltivarono i giuggioli per utilizzare i loro succulenti frutti nella preparazione di infusi liquorosi. Nelle zone di campagna era ritenuta una pianta portafortuna, pertanto presso molte case coloniche si trovava facilmente coltivato un giuggiolo vicino al lato esposto a sud.

Durante il Medioevo le conoscenze e le antiche tradizioni culinarie riuscirono a sopravvivere grazie alla trasmissione dei saperi artigianali di generazione in generazione nel mondo contadino e all’opera di conservazione delle ricette e dei rimedi erboristici nei monasteri.

Nel periodo Rinascimentale la fama delle giuggiole riprese vigore e questo frutto acquisì nuova fama per le sue particolari caratteristiche e la sua utilità.

Fu la potente famiglia dei Gonzaga ad esaltarne l’uso in cucina, la quale possedeva una ricca residenza estiva in prossimità del lago di Garda, denominata “il Serraglio”: qui veniva prodotto e offerto agli ospiti illustri un delizioso liquore a base di giuggiole: il cosiddetto “brodo di giuggiole”- considerato un perfetto accompagnamento di torte e biscotti secchi che potevano essere inzuppati nella bevanda, oppure venire utilizzato come digestivo da sorseggiare a fine pasto.

 

La fama e l’apprezzamento di questa bevanda si diffuse e perdurò nel tempo, tanto che il ‘brodo di giuggiole’ diede origine ad un’espressione metaforica giunta fino a noi. L’uso di questa espressione originaria compare nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), dove viene menzionata due volte: alla voce ‘succiare’, con un esempio tratto dal “Morgante” di Luigi Pulci, e alla voce castagna, dove per ‘succiola’ si intende la castagna cotta nell’acqua con la sua scorza.

L’epoca dei Gonzaga è ormai lontana, ma la coltivazione dei giuggioli nell’area del Garda e del Basso Veneto esiste ancora.

Dalle sponde del lago, alle colline veronesi e vicentine, fino ai Colli Euganei, le piante di giuggiolo crescono rigogliose grazie al clima mite e ai terreni favorevoli. Nel corso dei secoli la produzione artigianale del “Brodo di Giuggiole” si è tramandata ed è arrivata fino a noi, diventando un prodotto ambito e diffuso localmente, trovando nel piccolo borgo padovano di Arquà Petrarca la culla della sua valorizzazione e della rinascita della sua tradizione.

Si tratta sicuramente di un liquore che ha ancora una distribuzione di nicchia, ma negli ultimi anni ha cominciato a farsi conoscere ed apprezzare anche oltre i confini regionali e nazionali.

LA PREPARAZIONE DEL BRODO DI GIUGGIOLE

Il Brodo di Giuggiole è un infuso idroalcolico naturale a base di frutta autunnale: oltre alle giuggiole mature, si utilizzano le mele cotogne, i melograni e l’uva, mettendo il tutto in infusione con l’aggiunta di zucchero e scorze di limone

La ricetta moderna si basa sull’infusione idroalcolica di giuggiole a piena maturazione, a cui vengono aggiunte mele cotogne, scorze di limone, uva, melograni e altra frutta, intera o in succo, con l’aggiunta di zucchero. La preparazione classica prevede una macerazione piuttosto lunga: i frutti si devono lasciare in infusione per un paio di mesi, dopodichè il liquido ottenuto viene filtrato ed infine imbottigliato. Il prodotto ottenuto è una bevanda liquorosa dalla gradazione alcolica media (24%vol), dal colore rosso ambrato e dal profumo tipico di giuggiole. Il sapore è dolce e fruttato, con un gusto ricco ed avvolgente, particolarmente gradito anche dal pubblico femminile.

Il brodo di giuggiole si conserva abbastanza a lungo come tutti i liquori fruttati, ed è ideale come digestivo servito a temperatura ambiente alla fine dei pasti, ma può essere degustato anche ghiacciato o come ingrediente principale di drink e aperitivi sfiziosi.

Nella stagione invernale è possibile scaldare il brodo di giuggiole, preparando una bevanda calda tipo punch.

Alberta Bellussi