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Appena riconosciuto cibo tradizionale Veneto dal Ministero Agricolo, insieme ad altre 10 pietanze.
Ecco allora spuntare fuori dal nulla lui, sua maestà “IL PANINO ONTO”, un capolavoro dell’arte culinaria, incubo costante nei sogni di dietologi e cardiochirurghi vascolari, un cibo che solo a nominarlo ti si restringono le coronarie, però ad ogni morso che soddisfazione.
Il panino onto, il panino notturno o il panino delle sagre dei concerti. Quello che ti sistema lo stomaco dopo una serata un po’ troppo lunga, se non fosse che i suoi ingredienti sono salsiccia grigliata, peperoni e cipolla. Meglio ancora se accompagnati da qualche salsa.
Eppure è così buono che il suo nome – onto – non spaventa nessuno, neanche le più raffinate signorine!
Lo si trova spesso nei vari furgoncini per strada nelle sagre, fuori dai concerti o nelle baite di montagna.
Ma come si fa?
Servono pochissimi ingredienti:
ottime salsiccie fresche, tagliate a metà e ben schiacciate che vengono messe sulla griglia, peperoni freschi rossi e gialli e della cipolla bianca, pane a scelta (meglio se morbido) e salse se lo gradite: maionese, ketchup o senape.
Per prima cosa tagliate i peperoni a striscie da 2-3 cm e tagliate la cipolla a fette. Stufateli separatamente in due pentole con un filo d’olio d’oliva.
Se usate la salsiccia fresca tagliatela a metà e schiacciatela un po’. Entrambe possono essere cotte alla piastra, in padella (preferibilmente una bistecchiera) o con il barbecue.
Scaldate precedentemente il supporto poi cuocetevi la carne per una ventina di minuti a fuoco medio, girandola ogni 5 minuti circa.
Ad un paio di minuti dalla fine della cottura, tagliate il pane e mettetelo a scaldare dal lato tagliato vicino alla salsiccia, in modo da fargli assorbire i succhi di cottura.
Togliete il pane, adagiatevi sopra la salsiccia , aggiungete i peperoni, la cipolla e per finire mettete le salse che più vi piacciono!
Gnam!
Alberta Bellussi
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Come nacque questo piatto famoso in tutto il mondo?
La contessa Amalia Nani Mocenigo era una cliente affezionata dell’Harry’s Bar e i medici le avevano imposto una dieta che le vietava di mangiare carne cotta.
Chiese a Giuseppe Cipriani un piatto che la saziasse e che non fosse cotto, pensò di affettare sottilissimo un filetto e glielo servì con una salsina particolare che sperimentò lui.
Il fato volle che in quei giorni (nel 1950) a Venezia ci fosse una mostra del pittore Vittore Carpaccio, e dato che il rosso del piatto ricordava i colori dei suoi quadri, la ricetta prese il nome di Carpaccio per onorare il grande artista veneziano.
La scena era ovviamente l’Harry’s Bar di Venezia, ma da lì il carpaccio ha fatto il giro del mondo nei ristoranti di famiglia, dagli Stati Uniti fino all’estremo Oriente.
“La carne da sola era un po’ insipida”, avrebbe poi scritto Cipriani. “Ma c’era una salsa molto semplice che chiamo universale per la sua adattabilità alla carne e al pesce. Ne misi una spruzzatina sul filetto e, in onore del pittore di cui quell’anno a Venezia si faceva un gran parlare per via della mostra e anche perché il colore del piatto ricordava certi colori dell’artista, lo chiamai carpaccio”.
Ingredienti per 4 persone della Ricetta Originale di Cipriani.
400 g di carne di filetto
125 g di maionese
Succo di limone
20 ml di latte
1 cucchiaino di salsa Worcestershire
Sale e pepe bianco
Procedimento
Mondare la carne rifilandola. Riporla in frigorifero. Quando sarà fredda, tagliare a fettine dello spessore di 1 mm. Stenderle sul piatto di portata, coprendo interamente. Salare con parsimonia e riporre i piatti in frigorifero per almeno 5 minuti.
Preparare la salsa amalgamando la maionese con un goccio di Worcester e poco succo di limone. Stemperare con il latte, regolare di sale e di pepe.
Condire leggermente le fettine di carne, intingendo un mestolo e facendolo sgocciolare in movimento, poi servire senza indugi.
Alberta Bellussi
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La “putana”no non pensare a cose strane….non è nient’altro che un dolce tipico della tradizione contadina vicentina: rallegrava l’inverno attorno al fuoco e veniva cotto sulle “bronse”  dentro una pentola di terracotta.

Prevede l’utilizzo di poca farina da polenta, pane raffermo avanzato ammollato in precedenza nel latte, arricchito da uvetta, pinoli, fichi, liquore e scorza di limone ed arancia: una volta non si buttava nulla!
Si hanno le prime notizie nella zona del Vicentino ai tempi della Serenissima: correva l’anno nel 1405.
C’e chi sostiene che “Putana” derivi da “Putea” ovvero bambina, perché era un dolce preparato per la merenda dei bambini, altri ritengono che sia stata chiamata cosi dopo un bizzarro fatto di cronaca accaduto ad un importante ristoratore Vicentino, il quale, mentre portava questo dolce ai suoi commensali, si trovò improvvisamente al buio perché una raffica di vento aveva spento tutti i lumi della taverna, e inciampato su di un gradino esclamò l’espressione Veneta colorita “la putana”.

Ma la più verosimile è originata dalla versatilità dei suoi ingredienti che possono essere modificati in ragione di quello che la cucina avanza e offre al momento.

Ricetta con pane raffermo

Tante ricette quante le famiglie, si ha pudore di chiamarla con il suo nome, sembra di dire una parola sconveniente, in realtà è una bontà che si apprezza sempre con piacere.

Ingredienti: 3 grandi pezzi di pane raffermo, o biscottato. 3 uova, 1 manciata di farina gialla, succo e la scorza grattugiata di un limone non trattato, 1 cucchiaio o più di grappa, 8 cucchiai di zucchero, uvetta.
A piacere si può aggiungere altra frutta secca o fresca a pezzi (scorzette di arancia candita, cedrini, mele, mandorle, fichi, pinoli, noci, pere…)
1 pizzico di sale, 1/2 bustina di lievito
a piacere, si può aggiungere una fialetta aroma di vaniglia o limone.
burro per imburrare la teglia
Farina bianca (o anche gialla di mais) quanto basta per un impasto omogeneo:

  • Mettere il pane a bagno nel latte una notte.
  • Mettere in ammollo l’uvetta in grappa o acqua
  • Quando il pane è bene inzuppato, strizzarlo e metterlo in una terrina capiente
  • Unire le uova leggermente sbattute
  • Togliere l’uvetta dalla grappa e unirla al pane
  • Uno alla volta aggiungere tutti gli ingredienti
  • La farina va aggiunta in quantità tale da ottenere un impasto che nella
  • consistenza non sia né troppo molle né troppo duro
  •  Amalgamare il tutto e versare nella tortiera imburrata e infarinata.
  • Infornare per 40 minuti a 180°C e lasciare raffreddare in forno.

Alberta Bellussi

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Una mia amica mi ha fatto scoprire un dolce di cui non conoscevo l’esistenza la Zonclada; era una torta di origine medioevale tipica della zona di Treviso da essere considerata così prelibata da essere offerta anche a personalità importanti. Nel 1317 furono preparate per Cangrande della Scala. Questo dolce per molti anni scomparve dalle tavole dei trevigiani ma  ora qualche pasticceria ne sta riproponendo la ricetta. L’etimologia del nome di questa torta ha molti rimandi storici ma non si sa bene, in realtà, quale sia il più verosimile. La parola è affine al latino iuncus, giunco o a giuncata che è un formaggio fresco la cui cagliata veniva adagiata a spurgare in stuoie fatte appunto di giunchi, di cui ne riprende anche il colore pallido. Ancora altri scritti riportano che il nome Zonclada si deve far risalire alla parola ancora in uso nelle nostre campagne, “zanzega”, che è la festa che fanno i muratori quando la costruzione della casa arriva al coperto e espongono un ramo di foglie sul camino: far zanzega” ovvero far baldoria, rallegrarsi. O potrebbe derivare anche dal dialetto “zoncar” col significato di troncare, e “zontar”, ovvero unire e aggiungere, facendo riferimento al procedimento di preparazione che prevede vari ingredienti tritati mescolati assieme. L’esistenza della Zonclada, in epoca medioevale, ne troviamo conferma “Capitolato del Duomo” di Treviso (1300-1400) e negli “Statuti della città di Treviso” del 1313, dove c’è una prescrizione su come deve essere preparata e sul peso che deve avere, con una pena pecuniaria a chi non dovesse rispettare le disposizioni. Dai racconti delle persone anziane delle nostre campagne trevigiane emerge che si preparava un dolce di nome Zonclada, confezionato come una pinza utilizzando tutte gli ingredienti che avevano a disposizione.

Ingredienti per la pasta frolla

(che potete anche comprare già fatta al supermercato)

  • 300 gr di farina
    • 120 gr di strutto o margarina
    • 100 gr di zucchero
    • 1 uovo
    • 1 pizzico di sale
    • 1 pizzico di cannella

Ingredienti per il ripieno

  • 20 gr farina 00
    • 500 gr di ricotta
    • 2 uova
    • 40 gr di burro fuso
    • 100 gr di zucchero semolato
    • 50 gr di uvetta sultanina
    • 50 gr di cedro candito
    • 1 cucchiaino di cannella in polvere

Preparazione

Fare ammorbidire l’uvetta sultanina in una ciotolina d’acqua. Tagliare il cedro candito a cubetti molto piccoli. In una ciotola riunire 500 gr di ricotta con 2 uova, il burro fuso, lo zucchero semolato, l’uvetta sultanina, il cedro candito a cubettini e un cucchiaino di cannella.

Mescolare gli ingredienti fino ad ottenere un composto omogeneo.

Cospargere il panetto di frolla con un po’ di farina, stenderlo con il mattarello sul piano di lavoro a uno spessore di 4-5 mm e incidete un disco di 28-29 cm. Ricavare dai ritagli tante listarelle della larghezza di 1 cm con la rotella dentellata.

Foderare la tortiera antiaderente di 24 cm con il disco di pastafrolla, riempirlo con il composto di ricotta preparato. È possibile coprire lo stampo di pastafrolla con listarelle, tipo crostata, o con un disco di pastafrolla, con dei tagli praticati con un bicchierino di rum e con una rapatura di limone o di arancia. Cuocere la Zonclada nel forno caldo a 180° per circa 30 minuti. Servire tiepido o freddo, a seconda dei gusti.

Buona degustazione!

Alberta Bellussi

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I baicoli sono biscotti tipici della produzione dolciaria veneziana che più di ogni altro incarnano la tradizione veneta del “biscottare” ossia “bis-scottati”-  scottati due volte – pratica di cottura questa che permetteva agli alimenti  di essere portati  in nave durante i periodi lunghi in cui i marinai navigavano per instaurare rapporti commerciali in tutto il Mediterraneo. La scadenza era lunghissima e la loro inalterata fragranza si manteneva grazie alle scatole di latta in cui erano conservati che li rendevano adatti per i lunghi viaggi così come il pan biscotto alimento base della marineria della Serenissima. All’Arsenale sono ancora visitabili i forni della Marineria della Serenissima.

Secondo alcune fonti, i Baicoli vennero inventati nel XVIII secolo da un panettiere veneziano di Campo Santa Margherita, un luogo ricco di storia e tradizioni culinarie. Il nome di questi biscotti deriva proprio da questo legame con il mareBaìcolo era il termine dialettale utilizzato dai marinai per definire piccoli pesci quali il branzino e il cefalo, che hanno la stessa forma allungata e leggermente schiacciata di questi biscotti.

La ricetta originale dei Baicoli prevedeva l’utilizzo di ingredienti semplici e facilmente reperibili⁚ farina, burro, zucchero, lievito, albume d’uovo, latte e un pizzico di sale. La loro preparazione, seppur semplice, richiedeva una certa maestria e cura, per ottenere un biscotto croccante e dal sapore delicato. Nel corso dei secoli, la ricetta dei Baicoli si è tramandata di generazione in generazione, adattandosi ai gusti e alle tradizioni locali.

Nel 1911 fu Angelo Colussi, che decise di produrre, nella sua fabbrica, questa ricetta traduzionale nella  tipica scatola di latta sulla quale è raffigurato un innamorato che dona i biscotti alla sua amata e tutt’ora è in produzione.  Su queste scatole, spesso a fondo giallo come vuole la tradizione veneziana, si possono leggere questi versi

No gh’è a sto mondo, no, più bel biscotto, più fin, più dolce, più lisiero e san per mogiar nela cìcara o nel goto del Baicolo nostro Veneziàn”

Oggi, i Baicoli sono un simbolo della pasticceria veneziana e un prodotto di eccellenza, apprezzato in tutto il mondo.

RICETTA:

Ingredienti per 6 persone

* 1 dl latte

* 400 gr farina

* 50 gr zucchero semolato

* 80 gr burro

* 1 uovo (albume)

* 15 gr lievito di birra

Preparazione:

  1. Riscaldare il latte (tiepido) e sciogliere il lievito di birra.
  2. Su una spianatoia disporre 100gr farina a fontana e versare al centro la miscela di latte e lievito.
  3. Impastare il tutto fino ad ottenere un panetto sodo dove incidere una croce.
  4. Lasciare lievitare per 30 minuti.
  5. Mescolare 300 gr di farina con un pizzico di sale e 50 gr di zucchero.
  6. Porre al centro il panetto di pasta lievitata, disponetelo a cono e al centro lavorare 80g di burro ammorbidito e mescolare con l’albume montato a neve.
  7. Impastare aggiungendo latte q.b.
  8. Dividere poi l’impasto in quattro e lasciare lievitare ancora i panetti per 2 ore circa
  9. Infornare a 180° per circa 10 minuti.
  10. Fare raffreddare e lasciare riposare per due giorni, coperti.
  11. Tagliare i panetti a fettine sottili sottili.
  12. Disporle su una teglia e infornare di nuovo a 170° per 10 minuti circa fino a farle dorare. Alberta Bellussi

 

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Il “pan de oro”

La storia del pandoro risale a diversi secoli fa ed è spesso avvolta da leggende e tradizioni popolari. Le origini del pandoro sono, senza dubbio, legate alla città di Verona e il dolce, nel tempo, si è legato al Natale.

Sembra che il pandoro nasca nel Medioevo, durante il periodo della Repubblica di Venezia, e che il dolce fosse già preparato in modo simile a come lo conosciamo oggi. La forma a stella del pandoro si ispira, infatti, alla Torre dei Lamberti di Verona, e proprio questo è uno degli elementi che rafforzano il legame con questa città.

Ma da dove deriva il termine pandoro?

Da “pan de oro“, che fa riferimento all’originaria pratica di decorare il dolce con foglie d’oro commestibile; pratica, questa, che risale al Rinascimento e sottolinea il prestigio e la raffinatezza del dolce, che veniva spesso preparato per occasioni speciali. Durante i secoli, la ricetta del pandoro è stata raffinata e adattata, ma il suo status di dolce natalizio è rimasto intatto.  Ma il vero pandoro fu inventato, nel 1884, da Domenico Melegatti che depositò il brevetto per la sua ricetta del pandoro presso la Camera di Commercio di Verona, stabilendo così la sua rivendicazione come creatore di questo famoso dolce natalizio. Insieme alla ricetta, registrò anche lo stampo, appositamente disegnato da un artista cittadino, e usa, per la prima volta, il nome pandoro. Era la rielaborazione raffinata di un dolce natalizio della tradizione veneta chiamato “el nadalin”. Molti anni dopo  il pandoro entra nei dizionari: lo registra Alfredo Panzini nella quinta edizione del suo Dizionario moderno (1927): «“Pandòro”: dolce di lievito, ricchissimo di burro (Verona). Dal colore aurato dovuto al rosso d’uovo».

La ricetta è un po’ impegnativa prevede 2 ore circa di preparazione e 23 di lievitazione.

Ingredienti per 1 pandoro

  • 480 g farina setacciata più un po’
  • 170 g burro morbido a pezzetti più un po’
  • 125 g zucchero semolato fine
  • 60 g latte tiepido più 3 cucchiai
  • 20 g lievito di birra fresco
  • 3 uova – 1 tuorlo
  • 1 baccello di vaniglia
  • 1 cucchiaino scarso di sale
  • zucchero a velo

Procedimento

  1. Sciogliete 15 g di lievito nel latte tiepido. Aggiungete 25 g di zucchero semolato, il tuorlo e mescolate. Aggiungete 50 g di farina e amalgamate con cura. Coprite con pellicola e lasciate riposare per 1 ora o finché il composto non raddoppia di volume.
  2. Sciogliete il lievito rimasto in altri 3 cucchiai di latte tiepido e aggiungetelo al composto lievitato; unite lo zucchero rimasto e 1 uovo intero, quindi 200 g di farina e 30 g di burro a pezzetti, lavorando finché la consistenza non sarà omogenea; lasciate riposare per un’altra ora o finché non raddoppia di volume.
  3. Aggiungete quindi la farina rimasta, 2 uova, i semi della vaniglia e il sale; mescolate bene. Imburrate una ciotola, deponetevi la pasta, coprite e lasciate riposare al tiepido per 1 ora (il volume dovrà raddoppiare); poi mettetela in frigo per 12-15 ore.
  4. Lavorate infine la pasta su un piano infarinato e stendetela con un matterello, in un quadrato. Disponete sulla zona centrale del quadrato 140 g di burro a cubetti, poi ripiegate i quattro angoli verso il centro, chiudendo bene in modo che il burro non fuoriesca. Piegate il quadrato a metà, giratelo con il lato corto verso di voi e stendetelo nuovamente; piegatelo in tre e fatelo riposare in frigo per 20 minuti.
  5. Stendete l’impasto e ripiegatelo su se stesso per altre 3 volte lasciandolo riposare in frigo ogni volta per 15 minuti.
  6. Stendete di nuovo l’impasto dandogli una forma quadrata e ripiegate gli angoli verso l’interno, come la prima volta. Capovolgetelo e dategli una forma tondeggiante.
  7. Imburrate bene uno stampo da pandoro (750 ml) e adagiatevi l’impasto, tenendo la parte con la pasta rimboccata verso il fondo. Sciogliete 20 g di burro, spennellate la pasta e lasciate riposare, coperto con la pellicola, per circa 4 ore in un luogo tiepido, finché la pasta non avrà colmato lo stampo.
  8. Cuocete il pandoro nel forno ventilato preriscaldato a 160 °C per 15 minuti; riducete quindi a 130 °C (sempre ventilato), coprite la superficie con un foglio di alluminio e cuocete per altri 40-45 minuti. Fate la prova dello stecchino: se esce asciutto, il pandoro è pronto. Fatelo raffreddare, sformatelo e completatelo con lo zucchero a velo.
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Una delle pietanze caratteristiche della cucina veneziana sono sicuramente le moéche; sono chiamate per la loro bontà e rarità “pepite di Venezia”, e ora se vai nel banco del pesce le trovi a 90/100 euro al chilo e sono ancor più una cosa preziosa.

Moéca è il nome che i veneziani hanno dato al granchio autoctono quando esso arriva al culmine della fase di muta. In due periodi dell’anno, primavera e autunno, il granchio si libera del carapace, la corazza che lo protegge, per costruire una corazza più grande. In quel lasso di tempo, i granchi possono essere gustati interamente, senza difficoltà, perchè sono teneri. Da questo deriverebbe anche il modo di dire “te si na moéca” che significa sei uno smidollato.

L’ambiente ideale per la crescita delle moeche è la laguna veneta che con i suoi fondi sabbiosi e le sue acque salate e salmastre, ben si presta alla proliferazione di questo morbido crostaceo, le zone comprese tra Burano, Giudecca e Chioggia sono poi specializzate nel loro allevamento.

Il termine moéca ha, però, un altro significato: esso si associa anche all’effigie del leone di San Marco alato che sorge dalle acque (el leon en moéca).

Nelle poche ore in cui il granchio muta il carapace, diventa una preziosa leccornia, una specialità della sola cucina veneziana e la sua storia è ancora per molti assai misteriosa, nonostante le moéche abbiano conosciuto un boom nei consumi a partire dall’ultimo dopoguerra. In verità questa tradizione inizia solo dopo la metà del secolo scorso perché prima, e per ben due secoli, la “produzione” di questo stranissimo granchio era un segreto professionale dei moécanti di Chioggia, scoperto grazie alla furbizia e alla costanza dei pescatori di Burano. Attualmente la produzione delle moéche avviene nella Laguna nord di Venezia dove negli ultimi decenni, per i mutamenti degli antichi bacini da pesca, sono cambiate anche le tecniche usate dai pescatori. I pescatori di moéche, chiamati “moécanti”, pescano armati di una particolare rete collocata nei fondali bassi della laguna, la “trezza”. Si lavora sempre con le serraglie, dette in passato seràie da seca, che non sono più fisse. Una volta catturate, le moéche vengono trasferite in sacchi di juta che hanno lo scopo di mantenere la giusta umidità durante il trasporto agli impianti di lavorazione. Nei casòni o casòti si compie la delicatissima fase di cernita che avviene in funzione dello stato biologico dei granchi e che si avvale della grandissima abilità dei moécanti. Questi li selezionano e immettono quelli prossimi alla muta, detti spiàntani (i moécanti conoscono ormai ogni segreto dei granchi), in grandi cassoni di legno, semisommersi, chiamati vièri, dove in breve tempo diventeranno moéche. Quanto detto vale per i maschi, perché per le femmine il ciclo evolutivo è diverso. Esse, infatti, mutano solo alla fine della primavera. La muta per le femmine coincide con l’accoppiamento dell’estate e in autunno, quando sono piene di uova, non muteranno più e, se catturate, saranno mangiate con il coràl (a vòva, le uova). E queste sono le masenéte. Questi esperti pescatori (se ne contano solo una cinquantina ogni tremila pescatori), sono talmente abili nel loro lavoro da riuscire a distinguere praticamente ad occhio una moéca da una mazaneta. Per quanto possa apparire semplice, le fasi di cernita si rivelano molto complesse ed è forse l’aspetto in cui si percepisce meglio la specificità di questo modo di pescare i granchi tipico della Laguna. Per tale motivo per le moéche è stato istituito un Presidio Slow Food, sostenuto dalla regione Veneto.

Alberta Bellussi

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Anche se sembra una parola curiosa quasi una parolaccia in realtà è un piatto di origine chioggiotta molto antico.  Prende il nome dalla pentola di terracotta sulla quale veniva cucinato che si chiama casso, da cassariola e veniva lasciata pipar su un angolo della cucina economica, oppure veniva preparato in barca dai pescatori: quando tiravano su le reti, tenevano da parte i granchi e altri crostacei o molluschi di scarsa qualità per prepararsi, in barca, una sorta di zuppetta calda.

Il cassopipa, per risultare buono, deve essere fatto minimo per sei o otto persone perché per prepararlo servono tutte le varietà possibili di molluschi: peoci, bevarasse, garuzoli, caparozoli, detti vongole veraci, e le bibarasse, capelonghe, telline e quant’altro si riesce a trovare al mercato, aggiungendo anche due o tre folpetti o due calamaretti nostrani.

Preparazione

Per prepararlo bisogna far saltare su una pentola con olio d’oliva e uno spicchio d’aglio le cappe separatamente (lavate e spurgate in acqua salata, se necessario) un tipo alla volta, oppure potete farlo più rustico lasciando le cappe;  mettere da parte il sugo di cottura formatosi, filtrandolo bene per togliere eventuali residui di sabbia, Preparare in una pentola, meglio se di terracotta per rispettare la tradizione, un abbondante soffritto con cipolla, sedano, carota e aggiungere tutti i tipi di cappe, i calamaretti e/o i folpetti, tagliati a pezzetti se troppo grandi, amalgamando il tutto.

Aggiungere quindi due bicchieri di vino bianco rimescolando energicamente, iniziare a questo punto ad aggiungere l’acqua di cottura delle cappe (recuperatene il più possibile) e spezie in quantità a piacere: cannella, noce moscata, alloro, abbondante pepe, timo e altri aromi che vi piacciono.

Abbassare al minimo la fiamma, o se avete una cucina a legna ancora meglio,  e lasciare cuocere, “pipare” appunto, con molta calma; aggiungendo mano a mano l’acqua delle cappe rimasta. Alla fine il sugo deve risultare denso.

Si può mangiare come zuppa o come condimento dei bigoi.

Alberta Bellussi

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I Bussolai sono i biscotti tipi dell’Isola di Burano. Il loro nome deriva dalla tipica forma a ciambella con al centro un buco che in dialetto veneziano si dice “buso”. La tradizione vuole il bussolà come dolce pasquale, accuratamente preparato nelle case e portato a cucinare dai fornai. Riposto poi nelle credenze. In passato, proprio per il loro aroma vanigliato venivano utilizzati anche per profumare i cassetti della biancheria. Secondo antiche leggende, questi biscotti venivano preparati in casa dalle mogli dei pescatori e dei marinai. Quando i mariti partivano per mare, ne portavano con sé in grandi quantità, perché erano molto nutrienti e si conservavano bene, indurendosi appena con il trascorrere del tempo. Questa usanza si diffuse talmente tanto che qualcuno iniziò a produrli per venderli. Fu così che da biscotti dei marinai, i Bussolai vennero presto consumati da tutti gli abitanti di Venezia specialmente in prossimità della Pasqua. Riscossero talmente tanto successo che conquistarono il palato proprio di tutti, anche quello delle Suore del Convento di San Maffio. Si racconta, infatti, che nel XVI secolo le ecclesiastiche ricevettero l’ordine di diminuire le spese per l’acquisto dei Bussolai dato che ne consumavano troppi. Difficile resistere alla tentazione, dato che il convento sorgeva nell’Isola di Mazzorbo, a pochi metri da Burano, il maggior centro di produzione di questi biscotti. Allo stesso impasto si può dare la forma di una esse; la famosa Esse buranea.  Questo dolcetto era comodo da “mogiar” (ammollare, nel senso di pucciare) nel vin santo o nello zibibbo.

Le versioni del bussolà sono tante gli ingredienti sono sempre gli stessi variano invece le quantità di burro o quelle dello zucchero oppure la quantità delle uova. Quelli che si vedono in commercio sono di un bel colore giallo e per questo si possono utilizzare uova a pasta gialla.

INGREDIENTI

  • 300 g di burro
    • 600 g di zucchero
    • 1 kg di farina
    • 12 tuorli d’uovo
    • 10 g di sale
    • 6-7 g di lievito
    • 1 bicchierino di mistrà
    • 1 bustina di vanillina.

PREPARAZIONE

Porre la farina sulla tavola: versare al centro lo zucchero, il burro fuso, il sale e il lievito sciolto in un po’ di acqua tiepida. Tagliare la pasta a pezzetti per formare dei piccoli cerchi vuoti al centro. Sistemare i Bussolai su una teglia coperta da carta forno e infornare a 180° per 15 minuti. Abbassare poi la temperatura del forno a 150° e cuocere per altri 10 minuti. Sfornare anche se sono un po’ soffici dato che s’induriscono raffreddandosi.

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“Radici e Fasioi” è un piatto rurale particolarmente diffuso lungo le sponde del fiume Piave, in Veneto. Questo piatto è sempre accompagnato da fette di polenta abbrustolita e sempre condito con una dadolata di lardo o pancetta saltati in padella…

L’uso del lardo o della pancetta come condimento, era quasi obbligatorio, poiché, a causa delle comuni ristrettezze economiche, non vi era alcuna possibilità di acquistare l’olio né di semi né d’oliva.

Le origini dei Radici e Fasioi si perdono nella notte dei tempi e diventa impossibile darne una datazione certa. Tuttavia, possiamo affermare, che questo piatto era consumato dalle famiglie umili, poiché i fagioli non facevano certamente parte della dieta delle famiglie più facoltose e benestanti. Era, per abitudine, una pietanza da consumare alla sera e per molti era un vero e proprio piatto unico. Si consumava in tutti i periodi dell’anno e spesso accompagnato da un buon bicchiere di Vino Rosso. E’ utile ricordare che i fagioli hanno un valore nutritivo particolarmente elevato, dal punto di vista proteico e quindi non mancavano mai nella dieta quotidiana anche perché sia agricoltori che gente comune non avevano la possibilità di comprare la carne! Negli ultimi tempi questo piatto popolare è stato rispolverato, creando anche una Confraternita che porta avanti la tradizione e ha depositato la ricetta originale a Roma. Viene preparato in alcune trattorie della zona del Piave, sia in provincia di Treviso che di Venezia spesso come antipasto caldo e servito in cocottine di terracotta con i fagioli ben caldi e il Radicchio a temperatura ambiente.

Ingredienti

300 grammi fagioli borlotti, Lamon o Cuneo;

1 costa di sedano, 1 cipolla piccola, 1 carota piccola, Sale e pepe

300 grammi di radicchio di campo;

olio extra vergine di oliva, 1 testa d’aglio, 1 rametto di rosmarino,

I fagioli vanno prima mondati con abbondante acqua tiepida e poi vanno messi a bagno in acqua fredda per una notte intera, prima della preparazione. La mattina seguente, si prepara un fondo d’aglio cipolla e rosmarino ben tritati. Si fa rosolare questo trito di verdure con un pò d’olio, si aggiungono i fagioli e si fanno insaporire. Si coprono d’acqua, si aggiungono foglie di sedano, e si fanno bollire per circa due ore mezza a fuoco moderato, avendo cura di aggiungere acqua ben tiepida per ultimarne la cottura. Un tempo si usava aggiungere della cotenna di maiale per dare sapore e risalto al piatto.

A cottura ultimata bisogna passare metà dei fagioli con un passaverdura o setaccio sino ad ottenere una purea morbida. Il composto di fagioli dovrà avere una parte di fagioli interi e una passata. Si aggiusta di sale e pepe e dado in polvere sempre alla fine.

A parte si prepara il radicchio, lavato per bene e sgocciolato in un colino. In seguito in un piatto da zuppa si unisce il radicchio mondato coperto dalla purea di fagioli ottenuta. Si condiscono con olio di semi o extravergine d’oliva, aceto, sale, pepe e per i piu’ golosi anche lardo a pezzetti saltato in padella. Meglio se i fagioli sono caldi e se ne avete la possibilità serviteli con fette di polenta grigliata. E’ Un modo di mangiare semplice, dai sapori dimenticati che forse stona con alcuni piatti altisonanti, ma ritengo che sia un modo per scoprire i sapori di un mondo che non c’è più.

Alberta Bellussi