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Le Anguane:  non ne avevo mai sentito parlare, devo ammetterlo, conoscevo il Mathariòl,  ma loro no e domenica durante una visita guidata ad un castello le ho conosciute, ne sono rimasta affascinata, e mi sono subito messa a cercare più cose possibile di loro.

La provincia di Treviso è una provincia di acque… l’acqua del Piave ha un valore molto importante per i territori che attraversa e per le sue genti.  Dalle acque sotterranee del Piave, vicino al Montello, hanno origine anche le sorgenti del Sile, l’altro grande fiume che attraversa la provincia di Treviso.

Il Sile ha una temperatura costante; l’acqua sempre limpida anche in città e la scorrevolezza continua.

Ci sono delle creature mitologiche che proteggono le acque trevigiane e si chiamano “Anguane”, una sorta di ninfe che, nelle leggende , assumono una  forma simile alla sirena, specie nel basso Piave e basso Sile, ma non solo, proteggono anche le acque di molti altri posti nel Veneto.

Ma chi è l’Anguana?

Sono creature che vivono vicino alle sorgenti, caverne o altri ambienti acquatici, come si capisce dall’origine etimologica del loro stesso nome, che viene fatto derivare dal latino Acquaneae, cioè abitatrici dell’acqua.

Dalla vita in su sono delle bellissime fanciulle, dalla vita in giù hanno corpo di anguilla o di pesce.

Secondo  altre varianti montane presentano semplicemente dei piedi rovesciati oppure, per probabile contaminazione con la figura mitologica del Mathariòl, hanno gambe caprine.

La metà umana presenta delle caratteristiche particolari; la pupilla dilatabile come gli animali notturni; sono a sangue freddo; la loro pelle è viscida e la folta chioma è costituita da alghe filiformi.

Stanno ritirate durante tutto il giorno, escono all’imboccatura delle grotte o fuori dalle sorgenti al tramonto, a lavare i panni e a cantare.

Il loro canto è ammaliante. Per sottrarsi al loro fascino gli umani devono indossare dei girocolli fatti con virgulti di viburno intrecciati.

Vengono descritte come perfette massaie, eppure la liscia della Anguane era riferita al bucato mal riuscito perché erano abituate a lavare i panni di notte, e anche ricamare lenzuola e fazzoletti, conservati dagli uomini che se ne innamoravano.

Brave madri anche se capaci di uccidere lefanciulle delle quali erano invidiose; mogli devote ma che scomparivano se lo sposo ne pronunciava il nome leggendario.

Ci sono due interpretazioni; la prima è che le Anguane siano personificazioni mitiche dell’ambivalenza dell’acqua. Se questa, da un lato, è vista come fonte di vita e di allegria, dall’altra è certo anche una potenziale occasione di morte. La seconda indica il fortissimo legame con una figura di madre controversa, complessa e articolata, parte di quel mito della fertilità e della figura materna che accompagna da sempre l’uomo.

Alberta Bellussi

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Ormai chi mi segue nella pagina del Ilcuoreveneto lo sa che sono affascinata e attenta a quei modi di dire che erano nel parlare dei nostri nonni e che, ogni tanto,  escono, anche a noi,  in mezzo ai discorsi del vivere quotidiano.

Ascolto il linguaggio dei ragazzi e mi rendo sempre più conto che il loro disquisire manca di questi detti coloriti e carichi di veneticità e un po’ mi dispiace.

L’altro giorno ero in Posta e mi piace parlare con gli anziani, mentre attendo il mio turno, e un signore di 86 anni  mi raccontava della sua Cinquecento parcheggiata fuori, mi ha detto: “ la e dei tempi de Marco Caco ma la se mantien come na signorina”.

Uè! mi si è accesa la lampadina, anche mia nonna parlava spesso di sto Marco Caco per dire che una cosa era tanto ma tanto vecchia, in modo ironico, ma non solo e allora ho provato a cercare per capire chi fosse.

Di notizie sul signor Caco ce ne sono davvero poche, sembra, però, che il nome con il quale è “comunemente” conosciuto sia la storpiatura di Marco Cacamo. Lui era un  valoroso condottiero che si contraddistinse nella lotta tra veneziani e padovani alla Torre delle Bebbe, nel 1214.

Si tratta della “guerra del castello d’amore”. La vicenda ha inizio a Treviso, il 19 maggio 1214, festa di Pentecoste, dove era stato allestito, secondo la tradizione popolare di quella città, un castello di legno, addobbato a festa, dagli spalti del quale si affacciavano per difenderlo le fanciulle più belle della città.

Erano accorsi giovani anche dalle città vicine: Padova, Venezia e Chioggia. Avanzavano nell’impresa tenendosi uniti attorno al vessillo della propria città. Nella finzione le armi della contesa sarebbero state innocue, ovvero fiori, dolci, confetti e battute spiritose.

Ben presto si venne alle mani e la gara degenerò in zuffa, quindi in una vera e propria battaglia quando i padovani ebbero la malaugurata idea di stracciare e vilipendere lo stendardo veneziano.  Davanti allo sfregio del gonfalone di San Marco, veneziani e chioggiotti sfoderarono le armi e non ci fu una sanguinosa carneficina solo grazie all’intervento del sovrintendente della gara, Torello Salinguerra.  Ma la lotta, momentaneamente interrotta venne ripresa su iniziativa dei padovani che, alleati con un gruppo di trevigiani, si presentarono ai confini del territorio di Chioggia per riprendere le ostilità, guidati dal capitano Geremia da Peraga, decisi ad ottenere la rivincita ma anche i vantaggi sulle saline.

Ottennero risultati positivi scendendo d’improvviso nei territori di Cavarzere e Cavanella d’Adige, riuscendo anche ad occupare la Torre di Bebe, a Chioggia,  che pure era stata difesa strenuamente dai chioggiotti capitanati dal coraggioso Marco Cacamo detto Caco.

Il contrattacco, con l’appoggio di un contingente veneziano, ebbe inizio il 21 ottobre 1214 e fu coronato da una serie di successi.

La compagnia di trevigiani accorsi in aiuto dei padovani venne sconfitta e si procedette al recupero dei castelli, nei quali si erano annidati i nemici, compreso Geremia da Peraga, che cadde nelle mani alleate.

La pace venne siglata il 9 aprile del 1215 e le clausole rivelarono la vera natura della contesa: la restituzione dei territori sottratti alla Repubblica di Venezia e il divieto ai padovani di avvicinarsi alla laguna.

Quindi essere dell’epoca di Marco Caco significa avere circa 800 anni.

Alberta Bellussi

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Non so voi, ma io ricordo mia nonna che ogni volta che c’erano una serie di eventi atmosferici strani, anomali mi ripeteva vari detti veneti che andavano a giustificare il fortunale o la siccità.

E quando verso fine giugno si verificavano dei temporali tremendi era sempre colpa “dea mare di san Piero”, “la madre di san Pietro”; questi fenomeni si manifestano nei giorni vicini alla festività dei santi Pietro e Paolo, il 29 di giugno.

Ma dove nasce questa leggenda?

Questo detto poggia le sue radici su una leggenda italiana ma soprattutto veneta che viene tramandata oralmente di generazione in generazione. Si racconta, infatti, che la madre di San Pietro non fosse per nulla buona e caritatevole nemmeno con le persone di famiglia che le erano vicine; anzi sembra fosse davvero cattiva e che maltrattasse le persone. Quando morì, per la sua condotta di vita, venne spedita velocemente all’Inferno anche se suo figlio cercò in tutti i modi di impedirlo, usando anche la sua autorità.

Sappiamo che proprio Pietro era il capo della prima comunità cristiana di Roma. Il Vangelo di Matteo riporta: – 18- E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. 19- A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

Egli fu martirizzato crocifisso a testa in giù, perché predicava la fratellanza universale, l’amore tra le persone, la conversione al bene e anche la conciliazione tra i popoli; le sue azioni e le sue parole erano considerate scandalose rispetto a ciò che diffondeva il potere romano che adorava l’imperatore come una divinità e quindi non potevano esistere altre divinità all’infuri di lui.

Era il momento in cui il cristianesimo stava mettendo le radici ma non era facile; Pietro fu il primo Papa e in Paradiso era il responsabile degli ingressi di tale luogo, infatti viene sempre raffigurato con due grosse chiavi in mano e da sempre si dice che quando moriamo sarà San Piero ad aprirci o meno le porte.

Tornando “alla mare de San Piero” lui decise di prendere questo incarico che gli permetteva di  stare sulla porta del Paradiso perché da lì poteva vedere anche l’inferno dove era finita sua mamma.

Un giorno chiese di poterla vedere ma gli fu negata. Continuò a insistere finché dopo tante lusinghe presso il Padre Eterno gli venne concessa. Poteva vederla una volta all’anno nei giorni della sua festa, il 29 di giugno, che guarda caso si trova proprio nel periodo astrale del solstizio d’estate.

Gli angeli del cielo costruirono una scala di corda e la calarono fino a farla giungere vicino alla porta degli inferi, dove si trovava la donna. Accadde che le persone che erano negli inferi si accorsero della scala preparata per farla uscire e moltissimi si attaccarono scatenando un grandissimo caos perché tutti volevano uscire.  La scala, dal peso, si ruppe togliendole definitivamente ogni possibilità per poter accedere al Paradiso. San Pietro dal Paradiso non smise mai di intercedere per poter rivedere la mamma e ma ogni volta che si aprivano le porte dell’Inferno si scatenava il finimondo perché tutti sospettavano che la donna volesse scappare.  Proprio a questi episodi si riferiscono certi fenomeni atmosferici fatti di lampi e tuoni e grande fragore che capitano proprio nel periodo che comprende la festa dei santi Pietro e Paolo, il 29 giugno.

Stiamo a osservare quest’anno se la “mare de San Piero” aprirà le porte dell’Inferno e scatenerà il disastro anche quest’anno o no?  Semmai c’è sempre la candela della “Zerioa” accesa che, nella tradizione veneta, scaccia i temporali estivi e le catastrofi ma magari ne parleremo in futuro.

Alberta Bellussi

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Quale donna non si emoziona al regalo di un bocciolo di rosa rosso passione da parte del proprio amato?

Lo sapevi che questa romantica tradizione nasce a Venezia?

Ci sono due versioni una tragica e una più allegra ma entrambe sottolineano l’importanza dell’Amore.

Il 25 aprile giorno della festa del patrono di Venezia, l’evangelista Marco, i Veneziani rivivono un’antica tradizione. E’ usanza, infatti, regalare alla propria donna un bocciolo di rosa rossa in dialetto per l’appunto bòcolo. Le origini di questa usanza sono antichissime.

 

La tradizione poggia le sue radici sulla leggenda del Boccolo di San Marco dove si racconta dell’amore di due giovani, così forte e intenso da essere tramandato nella tradizione veneziana proprio con un fiore, il bòcolo.

La storia dice che, nella seconda metà del IX secolo, la figlia del Doge Orso I Partecipazio, Maria detta Vulcana perché aveva i capelli di un rosso fiammeggiante, amava ricambiata un giovane di umili origini, un certo Tancredi.

Il Doge di Venezia non avrebbe ovviamente approvato la loro unione, così la fanciulla consigliò all’amato di arruolarsi nelle truppe dell’imperatore Carlo Magno a combattere contro i mori di Spagna  per ottenere la gloria necessaria per aspirare alla sua mano. Il giovane si distinse valorosamente in guerra ma fu ferito mortalmente in un roseto.

Prima di morire però affidò all’amico Orlando un bocciolo tinto col il rosso del suo sangue perché lo consegnasse alla sua amata come estremo pegno d’amore. Il 25 aprile, il giorno dopo aver ricevuto da Orlando il messaggio d’amore dell’innamorato, Maria fu trovata morta nel suo letto con il bocciolo sul petto.

Ancora oggi si racconta che il fantasma di Maria, nel giorno di San Marco, il 25 aprile, si aggiri per Venezia, pallida presenza senza colore, se non per quel fiore rosso stretto al petto provata dalla morte del suo grande amore.

La tradizione della festa del Bocolo: storia di un amore a lieto fine

La Festa del Boccolo di Venezia ha però anche una versione meno tragica.  Questa parla di un amore a prima vista tra due giovani appartenenti a due rami nemici della stessa famiglia, i cui orti furono per lungo tempo divisi da un roseto senza fiori.

Questa pianta iniziò a rifiorire proprio il 25 aprile, di fronte allo sbocciare del nuovo amore. Quel roseto proveniva dal luogo di sepoltura di San Marco Evangelista e fu donato, molti anni prima, ad un marinaio della Giudecca di nome Basilio, antenato dei due giovani, quale premio per la sua partecipazione al trafugamento delle spoglie del Santo.  Proprio da questo roseto l’innamorato staccò un bocciolo che donò alla fanciulla, ripristinando così la pace tra le due famiglie.

Non so quale sia la versione che vi piace di più ma sempre di amore e passione si tratta e il simbolo è quel bocciolo di rosa rossa che viene regalato, ancor oggi, alla propria amata in segno d’Amore.

Alberta Bellussi

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Il 13 dicembre è Santa Lucia.

Tante davvero le cose che rimandano a questa Santa, proverò in questo mio disquisire a cercare di dare una spiegazione a quelle più note e legate al nostro territorio.

In questa giornata ci torna alla mente il detto popolare: “Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia”.  Questo detto risale al periodo fino al 1582, quando il solstizio d’inverno cadeva proprio il 13 dicembre; ma in quello stesso anno Papa Gregorio XIII riformò il calendario, che risaliva all’epoca di Giulio Cesare perché non era più corrispondente con la realtà dei fatti presentava troppe imprecisioni.  Fu, quindi,  adottato un calendario, dove i  calcoli della scienza, collocano il giorno più breve in corrispondenza del solstizio d’inverno, che cade tra il 21 e il 22 dicembre.

In alcune regioni del Nord Italia, come il Trentino, il Friuli Venezia Giulia, la Lombardia, l’Emilia e il Veneto esiste una tradizione legata alla Santa, il 13 dicembre, giorno della sua morte. I bambini le scrivono una letterina, dicendo che sono stati buoni e si sono comportati bene per tutto l’anno, e chiedendo in regalo dei doni. Preparano del cibo e delle carote sui davanzali delle finestre, per attirare la Santa e il suo asinello e poi vanno a letto.

In Svezia e in Danimarca è abitudine che la mattina del 13 dicembre la figlia primogenita si vesta con una tunica bianca e una sciarpa rossa in vita e, con il capo coronato da un intreccio di rami verde e sette candeline, porti caffè, latte e dolci ai famigliari ancora a letto, accompagnata dalle sorelle più piccolo vestite con tunica e cintura bianche.

Ma chi è questa santa italiana così generosa e quale la sua storia? Scopriamola insieme…

La prima leggenda

C’era una volta una piccola e bella fanciulla siciliana di nome Lucia, figlia di un ricco nobile di Siracusa. La bimba sin da subito si sentì profondamente legata al Cristianesimo, tanto da voler dedicare la sua vita al Signore. I genitori non concordavano con questa sua decisione e vollero sposarla con un giovane pagano, ma lei si rifiutò. Da quel momento iniziò una vera e propria persecuzione per farle cambiare idea, ma Lucia non volle saperne, così per punizione le vennero strappati gli occhi e infine fu uccisa, oggi infatti è considerata la protettrice della vista.

Una volta defunta, Lucia salì in cielo e conquistò con i suoi modi affabili tutti i santi, compreso lo scontroso S. Pietro.  Lucia era molto triste. San Piero chiese la ragione di tanta malinconia e lei rispose che avrebbe tanto voluto rivedere la sua amata Sicilia e i suoi poveri. S. Pietro si commosse e decise di chiedere a Dio se fosse possibile esaudire tale desiderio. Dopo un po’ udì un tintinnio: il Signore aveva in mano una chiave dorata, con la quale Lucia avrebbe potuto aprire una finestrella sul mondo. Così S. Pietro e Lucia salirono su una nuvoletta che li portò alla finestrella, Lucia infilò la chiave nella fessura e le apparve il mondo. La Santa fu felice di quella visione ma dopo un po’ di tempo qualcosa ricominciò a turbarla.

Un giorno decise di tornare sulla nuvoletta e di dare un’altra sbirciatina sul mondo, ma questa volta quello che vide fu terribile, le comparvero infatti tutte le ingiustizie degli uomini e le sofferenze dei poveri bambini. Lucia, triste e dispiaciuta, se ne tornò in cielo ma il Signore riconobbe il suo turbamento e decise che da quel momento sarebbe stata proprio lei a portare una volta all’anno, il 13 dicembre giorno del suo martirio, un po’ di felicità ai bimbi della terra. Lucia, fattasi Santa, raccolse moltissimi giochi e li mise in grandi sacchi, il peso però era davvero eccessivo, così S. Pietro chiese in giro se c’era qualcuno disposto ad aiutarla. Fu allora che si sentì pronunciare un sonoro “Iho, Iho”, era l’asinello di Pietro, che tutt’oggi le fa da fedele accompagnatore.

 

Secondo un’altra leggenda diffusa a Verona, verso il XIII secolo in città c’era  una grave ed incurabile epidemia di “male agli occhi” che aveva particolarmente colpito i bambini. La popolazione allarmata, aveva allora deciso di chiedere la grazia a Santa Lucia, compiendo un pellegrinaggio a piedi scalzi e senza mantello, fino alla chiesa di S. Agnese, dedicata anche alla martire siracusana. Oggi nel luogo dove un tempo sorgeva la chiesa, si trova invece la sede del Comune scaligero: Palazzo Barbieri.

La storia tramandata racconta che a causa del freddo i bambini della città si rifiutarono inizialmente di partecipare al pellegrinaggio. Per risolvere la situazione i genitori promisero loro che, se avessero ubbidito accettando di unirsi nella processione a piedi scalzi, la Santa avrebbe fatto trovare, al loro ritorno, numerosissimi doni. I bambini accettarono felici, l’epidemia terminò subito e da quel momento in poi è rimasta la tradizione il 13 dicembre di portare in chiesa i bambini per ricevere una benedizione degli occhi.

Nel corso del ‘900 in concomitanza con la ricorrenza di Santa Lucia, si è venuta a creare a Verona la tradizione di dare vita alla grande fiera che proprio nei tre giorni precedenti il 13 dicembre si svolge tra Piazza Bra, via Roma e piazza Cittadella, riempite dai cosiddetti “bancheti de Santa Lussia” che offrono a tutti gli interessati la possibilità di gustare specialità enogastronomiche o di acquistare prodotti tipici artigianali.

Anche a Santa Lucia di Piave in Provincia di Treviso si svolge una delle fiere agricole più antiche del Veneto.

Forse non tutti lo sanno e a me è capitato, nel mio vagare per Venezia, di entrare nella Chiesa di San Geremia e di trovare, con grande sorpresa,   le spoglie di Santa Lucia.

Originariamente le spoglie di Santa Lucia erano custodite a Siracusa, città natale della Santa, e qui rimasero per diversi secoli dopo la sua morte. Successivamente, durante le invasioni arabe dell’878, il corpo fu spostato in un luogo segreto perché fosse al riparo dagli attacchi. Nel 1040, il comandante bizantino Giorgio Maniace sottrasse Siracusa al dominio arabo e fece trasferire le spoglie della Santa a Costantinopoli. Il trasferimento definitivo a Venezia avvenne nel 1204, dopo la conquista di Costantinopoli da parte della Serenissima; il luogo designato per ospitare le reliquie fu la Chiesa di San Giorgio Maggiore ma nel 1861 fu abbattuta per offrir spazio all’attuale stazione ferroviaria che ancor oggi ne conserva il nome. Le spoglie della santa furono portate nell’attuale teca nel 1863 nella Chiesa di San Geremia che  si trova nel Sestiere di Cannaregio ed affaccia sul Canal Grande, vicino alla Stazione ferroviaria.

La chiesa che contiene le reliquie  è un importante edificio di culto che al suo interno custodisce molte   opere d’arte e  i resti mortali della venerata Santa Lucia di Siracusa. Sulla facciata esterna, visibile passando sul Canal Grande, si può leggere la seguente iscrizione:  ” Lucia Vergine di Siracusa in questo tempio riposa. All’Italia e al Mondo ispiri luce e pace”. Il luogo è meta di innumerevoli fedeli che da ogni parte del mondo portano venerazione alla santa.

L’episodio che molti a Venezia ricordano, è relativo alla trafugazione di Santa Lucia, avvenuta nel 1981, anno in cui alcuni delinquenti sottrassero le sue spoglie con un’azione fulminea e a mano armata, per poi chiedere un riscatto. Provvidenzialmente le spoglie della santa furono recuperate dalla polizia proprio nella data della sua celebrazione, il 13 dicembre dello stesso anno. Ogni anno nel Giorno di santa Lucia, si intensificano le celebrazioni e molti sono i visitatori che si recano alla Chiesa di San Geremia per rivolgere una preghiera alla santa ed accendere una candela.

Merita una visita.

Alberta Bellussi

 

 

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Il 6 dicembre si festeggia San Nicolò.

Chi, come me, ha passato la sua infanzia nella Sinistra Piave Trevigiana ricorda sempre questa giornata con un po’ di nostalgia. I santi che portano i doni ai bimbi nel periodo dell’Avvento sono diversi, a seconda delle usanze seguite nelle differenti zone d’Italia. Da me, la notte del 5 dicembre passava con il suo carretto trainato da uno stanco asinello e lasciava il dono del suo passaggio. Dalle mie parti  la tradizione vuole che,  la notte  prima del 5 dicembre, i bimbi scrivano una letterina al Santo con la richiesta di doni. Ricordo ancora le mie letterine,   il bicchierino di grappa, la sigaretta e un po’ di paglia per l’asinello. Non mi stupii mai che i gusti del Santo combaciassero perfettamente con quelli di mia mamma, ma io ho sempre voluto credere alle favole e mi andava bene così. Ricordo la vibrante emozione di quei momenti che alimentavano i miei sogni di bambina romantica. La mattina del 6 dicembre mi svegliavo prestissimo; ero emozionata e aprivo la finestra della mia cameretta e trovavo il mio pacchettino. Il cuore mi batteva forte forte. Erano piccoli regali ma avevano un grande significato.

A scuola poi si imparava la canzoncina:

San Nicolò de Bari

xè la festa dei scolari

 

 

San Nicolò, nel mio immaginario di bambina, me lo sono sempre rappresentata vestito da vescovo. Essendo un vescovo appunto, era raffigurato con la mitra e il pastorale. L’aria severa era poco compatibile con il ruolo che gli era stato attribuito. In realtà c’era anche un’altra versione, decisamente più allegra: quella di un vecchietto con la barba bianca e il vestito rosso bordato di bianco. Così venne descritto San Nicholas nel poema A Visit from St. Nicholas scritto da Clement C. Moore nel 1821.

Tutto ciò crea un pò di confusione e questa figura si confonde con quella di Babbo Natale e siccome qualche giorno dopo arriva anche lui a portarci i doni, continuai   a preferire la raffigurazione classica di San Nicolò in abiti vescovili così le due figure erano distinte e mi arrivavano due regali.

C’è un legame tra il nostro San Nicolò e questo San Nicholas con le fattezze di Babbo Natale?

Uno dei simboli del Natale è sicuramente il vecchio allegro e paffutello che porta i doni: Babbo Natale. Come molti sanno, la sua figura è legata a San Nicola di Myra in Anatolia.

Fin dal VI secolo il culto di San Nicolò (o San Nicola) era diffuso in tutto l’oriente. La sua fama quindi approdò in Italia, specie a Roma e nel sud che allora era dominato dai Bizantini. Attraverso i secoli il ricordo di questo santo non si spense, tanto che viene nominato come San Nicolò di Bari, quasi la città pugliese l’avesse adottato. Tuttavia, i baresi, di cui è anche patrono, festeggiano il santo il 9 maggio, giorno in cui le sue spoglie arrivarono in città nel 1087, mentre nel nord la sua festa ricorre, come ho già detto, il 6 dicembre che è la data in cui sarebbe morto a Myra nel 343.

È credenza diffusa che le reliquie di San Nicola si trovino nella Basilica di San Nicola a Bari, ma quest’ultima conserva circa la metà dello scheletro del santo, perché il resto si trova a Venezia…

Quando Myra cadde in mano musulmana, Bari e Venezia, che erano dirette rivali nei traffici marittimi con l’Oriente, entrarono in competizione per il trasferimento in Occidente delle reliquie del santo.

Nel 1087 una spedizione di marinai baresi raggiunse Myra e si impadronì di circa metà dello scheletro di Nicola.

I Veneziani non si rassegnarono e nel 1099 approdarono a loro volta a Myra per visitare il sepolcro vuoto dal quale i baresi avevano prelevato le ossa. Tuttavia qualcuno rammentò di aver visto celebrare le cerimonie più importanti non sull’altare maggiore, ma in un ambiente secondario… E fu proprio in tale ambiente che i veneziani rinvennero una gran quantità di minuti frammenti ossei che i baresi non avevano prelevato! I resti vennero trasferiti nell’abbazia benedettina di San Nicolò del Lido nella laguna di Venezia.

San Nicola di Myra era molto venerato a Venezia, essendo il Santo patrono dei marinai: ai tempi della Repubblica Serenissima, durante la Festa della Sensa, al termine della celebre cerimonia dello sposalizio del Mare, la messa solenne di ringraziamento veniva celebrata proprio nell’abbazia benedettina di San Nicolò del Lido.

Alberta Bellussi

 

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Andémo béver un’ombra in un bàcaro

Quante volte si sente dire : “Ciò, Andémo béver un’ombra!”…

E’ questo un invito conviviale molto usato in Veneto e si tramanda da generazioni. Davanti a un “ombra” cioè a un bicchiere di vino si fanno quattro chiacchiere con gli amici, si concludono affari, ci si rilassa per spezzare la giornata.

 

Ma da dove deriva questa espressione?

Il termine  risale  alla fine del secolo quattordicesimo quando, attorno al campanile di S. Marco, venivano montate molte   bancarelle  di legno che proponevano varie attività commerciali: rigattieri, panettieri, spezieri e osterie. La Piazza era infatti il luogo ideale per incontri e chiacchiere, solitamente accompagnate da un buon bicchiere di vino. I mescitori di vino avevano molto lavoro; loro per  non rovinare il prezioso liquido di Bacco e mantenerlo sempre fresco anche nelle stagioni più calde,  spostavano la loro bancarella attorno al Campanile, inseguendo la sua ombra man mano che si spostava il sole. Il vino, per essere buono, doveva rimanere all’ombra e così il bicchiere di vino prese il nome … l’ombra.

Un’altra spiegazione simile nel contenuto ma diversa nella contestualizzazione poggia le sue basi nella civiltà contadina. Tempo fa i contadini al momento della mietitura si alzavano molto presto e verso le 9/10 erano 4/5 ore che lavoravano di falce, il sole a picco …..a quell’ora le donne portavano la merenda ( polenta e ….poco altro).
Ecco che allora si disse :
‘Ndemo farse un ombra…vale a dire : andiamo all’ombra di un albero e bere un bicchiere di vino e a mangiare.
Cit Marino Panto

Un tempo  si diceva: “Andémo béver all’ombra”, che con la trasmissione orale divenne : “Andémo béver un’ombra”.  Questo modo di dire è tutt’ora molto vivo e molto usato in tutto il Veneto.

E “l’ombra” a Venezia si beve nel bàcaro.

L’etimologia dell’appellativo bàcaro è alquanto controversa, nel corso degli anni, infatti, si sono affermate 4 teorie sulla sua origine:

  • secondo la prima il termine bàcaro deriva dal nome del dio romano del vino e della vendemmia: Bacco;
  • una seconda teoria fa desumere il nome dalla tipica espressione veneziana “far bàcara“, che letteralmente significa “far festa”; si fa risalire, infatti, a una esclamazione di un gondoliere che un giorno, assaggiando un nuovo vino venuto dal sud Italia, esclamò: Bon, bon! Questo xe proprio un “vin de bàcaro”. L’espressione veneziana “far bàcara” equivale a far baldoria, mangiare e bere in buona compagnia: quindi un “vin de bàcaro” non può essere che un vino adatto a questo scopo. Secondo questa leggenda, riportata da Elio Zorzi nel suo libro “Osterie Veneziane´ del 1928, il gondoliere avrebbe creato un nuovo termine, che si trasmise poi ai locali di mescita di vino sfuso;
  • bàcari pare che venissero chiamati anche i venditori di vino in botte a Piazza San Marco;
  • l’ipotesi meno probabile è quella che il nome derivi da un vino pugliese del ‘700 particolarmente apprezzato nella città, vino appunto chiamato bàcaro.

Alberta Bellussi

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LA BANDIERA VENETA: la sua storia

In questo periodo la bandiera Veneta è argomento molto attuale perché ha quella forma e quei colori?

La Bandiera Veneta viene chiamata anche  “Gonfalone di San Marco” e  rappresenta la storia di un Popolo, quello Veneto.

La bandiera Veneta è una bandiera particolare  è simbolo di un’identità molto forte e di un’appartenenza che le viene data dalla storia. La bandiera è nata quasi 15 secoli fa e raffigura il simbolo del santo patrono protettore della città e della Repubblica Serenissima di Venezia (San Marco).

Le code, o frange, rappresentano i 6 Sestieri di Venezia. La bandiera Veneta originale, essendo per definizione unica al mondo, deve necessariamente essere dotata di 6 frange, sempre ben distinte e indipendenti. Esse hanno la funzione di preservare integra la parte centrale che in tal modo non viene danneggiata dal vento. Questa era la prassi di tutta la marina militare e mercantile della Serenissima Repubblica di Venezia (697-1797), la più ricca e potente del mondo.

La Serenissima Repubblica di Venezia , però, non aveva mai codificato con una legge i propri vessilli, lasciando  che fosse  l’uso a definirne le caratteristiche, a seconda delle circostanze.

La tradizione racconta che la prima bandiera avesse proprio il Leone di San Marco su fondo blu,  il colore del mare, anche senza code od altri ornamenti , aggiunti successivamente .

Fu poi sostituita dalla bandiera col fondo rosso, nelle varie varianti, con libro aperto, chiuso o con spada,  qualcuno dice il colore del sangue, certamente usata in tempo di guerra. Altri semplicemente affermano che il colore fu cambiato per renderla meglio visibile in mare.

La bandiera Veneta non è, in realtà,  una bandiera politica.

Il vessillo Veneto ha varie versioni, in quello più diffusa, il Leone di San Marco che  regge aperto un libro recante la scritta in lingua latina “Pax tibi Marce Evangelista Meus”.

Meno diffusa è la bandiera dove il leone impugna  la spada: presente solo sulle navi e  rappresenta la bandiera della marina militare in tempo di guerra, mentre quella con il libro chiuso indicava situazioni conflittuali fra la Repubblica ed il luogo dove è osservabile.

Il leone alato con il libro aperto è un simbolo ricorrente ed è ancora oggi murato sulle porte delle città che facevano parte della Repubblica, ma anche su palazzi pubblici e privati. La bandiera di San Marco era affissa in ogni capoluogo della Serenissima Repubblica di Venezia, d’ordine del Doge, che provvedeva a far spedire ad ogni città supplicante, gratuitamente ed a cura dell’arsenale, un apposito palo, che veniva periodicamente sostituito quando deteriorato.

Singolare la storia della Comunita’ di Perasto (oggi Montenegro) fu l’ultima città ad arrendersi ai francesi e l’ultima ad ammainare la bandiera Veneta. Durante il Medioevo Perasto  entrò a far parte  della Repubblica di Venezia, cui appartenne a periodi intermittenti e poi ininterrottamente dal 1420 al 1797.  Fu nel  ‘700 che  la cittadina visse il suo momento di maggior splendore, giungendo ad avere quattro cantieri navali, una flotta di circa cento navi, nove torri difensive, la fortezza di Santa Croce (1570), i sedici palazzi barocchi e le diciannove chiese. La devozione della cittadina alla Repubblica di Venezia non venne meno neppure alla caduta di quest’ultima.  Quando il 12 maggio 1797 il Doge, Ludovico Manin, depose le insegne di San Marco, i perastini decisero  di rimanere veneziani e si ressero in autogoverno fino all’arrivo delle truppe austriache.

Giuseppe Viscovich, capitano di Perasto, il 23 agosto del 1797 ammainava la bandiera di San Marco pronunciando la celebre orazione «ti co nu, nu co ti», con la bandiera tra le mani bagnato dal pianto di tutto il Popolo. I vessilli veneti rimasero così issati sulla città fino al giorno in cui vennero seppelliti con una cerimonia solenne, sotto l’altare maggiore della Chiesa di San Nicolò (Sveti Nikola).  Perasto era stata fedele alla Repubblica di Venezia per 377 anni.

La bandiera Veneta è di tutti ed è una bandiera di pace e rettitudine ma soprattutto di identità cultura e appartenenza.

Alberta Bellussi

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Ma chi è il  SIGNOR DA VIDOR?

Nella Sinistra Piave, e forse non solo, si usa un’espressione di stupore o di sorpresa che è “ Ih signor da Vidor” come per dire “Mamma mia”, “Maria Vergine”.

L’altro giorno l’ho sentita pronunciare da una signora e ho pensato chissà mai da dove deriva.

Ho chiesto a uno storico di cultura locale  e ho fatto qualche ricerca ed eccoci svelato il mistero.

Esiste anche un’antica  filastrocca che parla di questo Signor da Vidor che recita:

Oh Signor da Vidor ciol  su la barca e vegnéme a cior;

 

Ma chi è sto Signor da Vidor?

L’area  adiacente all’Abbazia di Santa Bona di Vidor in epoca medievale era diventata  un porto fluviale nel quale c’era il  servizio di traghetto delle persone e merci da una sponda all’altra del Piave.

Il signor da Vidor era il barcaiolo  che a Vidor, con la barca, portava le persone dalla sinistra Piave alla destra; e se non c’era il signor da Vidor rimanevi lì,  non potevi traghettare perché l’acqua del fiume era alta e con molta corrente.

Il servizio di traghetto, in quest’area,  funzionò fino al 1871 quando venne inaugurato il primo ponte di legno sul Piave.

Per molti anni in questo luogo si era conservata l’antica casa  dei barcaiolo  o traghettatori addetti al passo barca, che fu distrutta poi durante la guerra del 1915-18. Nella roccia è ancora visibile un anello di ferro detto in dialetto “la sciona”” per l’attracco delle imbarcazioni.

Lungo il corso del Piave c’erano altri  punti di traghettamento perché  all’epoca questo corso d’acqua aveva una portata molto elevata e impetuosa che rendeva quasi impossibile guadarlo a piedi.

Le rivalità tra i numerosi passi barca del Piave sono, appunto,  menzionate nel detto:

Oh Signor da Vidor ciol  su la barca e vegnéme a cior;

che quel da Zian l’é’n poro can;

quel da Bigolin l’é massa picinin;

quel da Col nol me vol e de quel da Onigo no me fido!

 

Traduzione  (o Signore da Vidor, prendete la barca e venitemi a prendere;

che quello di Ciano è un poveraccio;

quello da Bigolino è troppo piccolino;

quello di Covolo non mi vuole e di quello di Onigo non mi fido!).

Alberta Bellussi

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…QUEL DEL FORMAIO

L’altra sera parlando tra amici e con il casaro del banco del formaggio del mercato di Tezze disquisivamo sull’origine del detto “ Te trovarà quel del formaio” ; detto che in Veneto si manifesta nelle centinaia di  inflessioni dialettali locali.

Avevo promesso che avrei cercato il perché di questa formula sempre in uso e mai passata di moda nel nostro vivere comune. Lo si usa quando una persona è prepotente e arrogante, e magari fa delle furbate verso gli altri allora gli si augura che “prima o poi trovi quello del formaggio”, per  abbassargli la cresta e quietare l’arroganza.

Ma cosa centra l’uomo del formaggio con la giustizia sociale?

Ho provato a cercare e chiedere agli anziani. Alla fine del mio ricercare tre sono le spiegazioni che ne escono che hanno un filo conduttore  comune la forza fisica come soluzione all’arroganza.

La storia è dibattuta da anni e si trova lo stesso modo di dire anche in altri  dialetti dell’area triveneta, in Trentino, in Friuli, nel Triestino e perfino in Istria, ma rimane la questione:

cosa c’entra l’uomo del formaggio?

1- “Rivarà quel del formajo” secondo la tradizione veneziana deriva da “formaiea”.

Un tempo, per conciare le pelli, si usavano cortecce di rovere. Dopo averle usate si lasciavano asciugare al sole. Una volta asciugate venivano pestate e usate come combustibile per riscaldare le case. Erano le  “Formagee dea Giudeca” perché i conciapelli vivevano proprio in questa isola. E’ arrivato quello del formaggio significherebbe, quindi, colui che batte le cortecce cioè quello  che ti pesta a dovere.

2-  “La seconda ipotesi nasce in territorio trentino, pare da un fatto di una cronaca giudiziaria locale narrato da Giovanni de Tisi di Giustino, notaio di Rendina, per quanto riguardava  una controversia tra le comunità di Pelagio e Rendina per il possesso della malga del monte Spinole. I fatti avrebbero avuto luogo  nel 1380 in una remota e poco abitata zona del Trentino, in una società  che basava tutta la sua economia esclusivamente sull’ agricoltura e  la pastorizia,  sotto il dominio  del  principe – vescovo di Trento tramite nobili locali. Ed è uno di questi il cardine della storia, il nobile Giovanni de Tisi accusa di omicidio un malgaro che aveva ucciso “l’uomo del formaggio”. Era uso, in quel tempo, che l’affitto di una malga fosse pagato in natura. Nel caso in questione si era pattuito come affitto della malga un “uomo del formaggio” ovvero una quantità di prodotto caseario pari all’altezza di un uomo.  Quell’anno, particolarmente povero di latte, i padroni mandarono a riscuotere l’affitto un uomo di statura imponente.  Il povero malgaro incominciò  ad accatastare le forme di formaggio accanto al gigante, ma  arrivato alle spalle,  aveva terminato il formaggio, così  tolse dal ceppo un’ascia e semplicemente  tagliò la testa del riscossore del tributo e raggiunse la giusta quantità da dare”. ( cit. Carlo Scattolini)

Questa spiegazione non risponde appieno al significato della  frase, ma vediamo ora una terza ipotesi

3- I malgari ovvero i produttori di formaggi, erano gente abituata alla solitudine dei monti, forti, temprati da un lavoro duro e dall’ ambiente di montagna impervio e rigido.  Erano uomini taciturni, burberi, pratici, contemplativi e poco avvezzi alle furberie della gente di città.  Accadeva, quelle rarissime volte, che scendevano a valle per vendere o barattare i loro prodotti  che se qualcuno provava a imbrogliarli o a prendersi gioco di loro si facevano giustizia da soli in modo brutale e violento. Loro erano fisicamente molto forti e ne avevano spesso la meglio a suon di pugni e sberle.

Queste sono le spiegazioni che sono riuscita a trovare di questo detto sempre molto usato ci riportano tutte a una giustizia fatta utilizzando qualche sberla o pugno… come andava di moda un tempo per farsi rispettare.

E io auguro a tutti gli arroganti di trovare prima o poi quel del formajo, magari, che insegni loro l’educazione a parole ma che l’arroganza venga spenta definitivamente sul nascere.

Alberta Bellussi