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La chiocciola, @, è un carattere apparso, insistentemente, nella nostra vita negli ultimi 20 anni. E’ simpatico nel nome, quasi amichevole e fumettistico nella sua rappresentazione grafica.

Ognuno di noi ha un indirizzo mail e quindi ha la sua chiocciolina personale. Non c’è tastiera del Pc che non abbia questo simbolo ma appare dalla combinazione con l’Alt-Gr. Anche sui social network la chiocciola è diventata utile, per i tag, ovvero per far sapere ad una persona che stiamo parlando di lei, per un uso molto comune di questo simbolo.

La usa un numero smisurato di persone ma credo che pochi sappiano che, in realtà,  la chiocciola, detta anche “a commerciale”, ha origini molto, molto più lontane di quello che possiamo immaginare.

La sua storia poggia le basi nella Venezia del pieno medioevo, nel VI secolo d.C., quando l’Impero Romano d’occidente già era caduto ma quello d’oriente ancora era ben saldo. In questo quadro economico Venezia si confermava come una vera e propria capitale dei commerci.  La città veneta aveva un ruolo così importante e predominante che si permetteva il lusso di crearsi unità di misura inventate per rendere più equi possibili gli atti di compravendita.

In questo contesto venne inventata la chiocciola. Il simbolo trae origine dal simbolo à, con l’accento che è stato man mano allungato fino ad essere portato come lo conosciamo oggi nella @, soprattutto per una questione di distinzione grafica tra i simboli.

In realtà graficamente simboleggiava l’anfora, che nei tempi antichi era utilizzata come unità di misura di peso o di capacità a seconda se c’erano all’interno dei solidi o dei liquidi. Le anfore erano considerate un’unità di misura universale, e la chiocciola in questa connotazione fu utilizzata per moltissimi anni, nei commerci.

Nei tempi moderni il simbolo non perse la sua valenza commerciale.  In uno dei primi modelli di macchina per scrivere la chiocciola venne utilizzata   con il significato di “al prezzo di”, quindi ad esempio “2 chili @ 30 dollari”, per risparmiare inchiostro.

Quando nacquero i primi computer che riprendevano la struttura della tastiera proprio dalla macchina il simbolo fu traslato anche sulla tastiera dei dispositivi più moderni.

La vera entrata trionfale da star nella nostra vita la @ chiocciola la fece nel 1971 quando fu inventata la posta elettronica.  L’ingegnere statunitense Raymond Samuel “Ray” Tomlinson di Arpanet responsabile della sua creazione pensò di utilizzare la chiocciola con il significato di “A”, preposizione, per indicare il server a cui il messaggio doveva arrivare. Per esempio, pippo @ server1 significava che il messaggio doveva arrivare a Pippo che si serviva del server1 per leggere la posta. Oggi utilizziamo lo stesso principio infatti ciò che sta dopo la chiocciola è proprio il server, colui che memorizza in uno spazio proprietario i nostri messaggi di posta elettronica, per cui il suo utilizzo, negli ultimi anni, non è mai cambiato.

E’ romantico pensare che questo simbolo @ che lo associamo al massimo della modernità, in quanto ci permette di avere corrispondenza in tutto il mondo in tempo reale, rappresenti da secoli l’anfora antica unità di misura concreta e tangibile.

Il fascino della storia sta proprio in queste piccole curiosità che ritroviamo poi nella nostra quotidianità spesso ignari della loro provenienza.

Alberta Bellussi

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 Mmmh che buoni gli  arachidi croccanti e salati per accompagnare un aperitivo con gli amici …ne mangeremo a manciate perché sono sfiziosi, invitanti. Uno tira l’altro e non ti accorgi che ne hai già mangiati una ciotola intera. In bocca rimane il lieve sapore salato e il dolce dell’arachide che ingolosisce il palato riescono ad esprimersi al meglio  accompagnati da un ottimo Spriz o Gingerino.

Ma tu lo sai che l’inventore di questo croccante stuzzichino è Amedeo Obici originario di Oderzo?

Sì! The Peanuts King è l’opitergino che divenne famoso in tutto il mondo con i bagigi tostati e salati.

Amedeo Voltejo Obici nacque  a Oderzo, in Contrada del Cristo 7, nel 1878, figlio di Pietro e Luigia Carolina Sartor, appartenenti a un ramo decaduto degli Obizzi, antica e nobile famiglia opitergina. Da una situazione quasi catastrofica in Italia infatti la famiglia era poverissima pochi anni più tardi diventerà uno dei maggiori imprenditori degli USA.

Nel 1885 muore il padre e Amedeo deve mollare la scuola per mantenere la famiglia.  Diventa apprendista idraulico, arrotondando i pochi dollari che gli arrivano dall’America dallo zio Vittorio Sartor.

Nel 1889 lo zio gli propone di partire per gli Usa e quindi da solo Amedeo prende il treno per Le Havre, poi la nave per New York e infine il treno per Scranton, in Pennsylvania, dove vive lo zio.

Il ragazzo arriva di notte, ma lo zio non si è presentato ad accoglierlo, avendo sbagliato a capire l’orario. Amedeo, che non sa una parola di inglese, piange sconsolato e un poliziotto gli si avvicina per consolarlo, offrendogli delle noccioline americane che pochi anni dopo saranno la sua fortuna.

Nei sei anni successivi Amedeo fa un po’ tutti i mestieri e impara a parlare l’inglese e coi risparmi che riesce a raccogliere decide di aprire una sua piccola attività.

Amedeo si mette a vendere bagigi; ma la sua idea geniale è quella di venderle sbucciate, tostate e leggermente salate in sacchetti a 5 centesimi.

Si mette in società con un altro emigrante trevigiano, Mario Peruzzi, e capisce subito che per avere successo deve puntare alla qualità ma soprattutto al marketing. La prima campagna promozionale è quella di   regalare un sacchetto di noccioline a tutti  coloro che riescono a comporre la parola “Obici” (il suo cognome) con le lettere incluse in ogni pacco.

Il successo arriva prestissimo!

Fonda una società per azioni che nel 1906 diventerà la Planters Nut and Chocolate Company e si trasferisce a Suffolk, in Virginia, dove gli arachidi le coltivazioni di arachidi rendono al massimo.

Ha poi l’idea di indire un concorso di idee tra gli studenti per creare il logo della ditta; da questo momento Mr. Peanut è un’arachide con occhi, arti, bombetta e bastone che verrà riprodotto in tutte le salse su cartelloni pubblicitari e gadget da vincere con la raccolta punti.

Il personaggio “Mr Peanut”, logo e mascotte della Planters, fu creato nel 1916 da un tredicenne italiano, figlio di immigrati in Virginia, tale Antonio Gentile, che per l’occasione vinse con il proprio disegno la somma di cinque dollari.  In questo periodo alle noccioline tostate si affianca la nascita di nuovi prodotti come le noccioline al cioccolato, le barrette o l’olio di noccioline, quest’ultimo in versioni speciali destinate ad americani, emigranti italiani ed ebrei con rispetto delle loro regole alimentari.

Negli anni trenta la Planters arriva a seimila dipendenti.  Amedeo Obici, the Peanuts King, è un omino grassottello che non ama la celebrità, che aiuta la Chiesa e i bisognosi e che paga di nascosto le spese mediche ai suoi operai. Fa istituire la cattedra di italiano al college di Williamsburg e regala a Suffolk un ospedale che dedica alla memoria della moglie, deceduta nel 1938.

L’anno prima a Oderzo a sue spese avevano costruito un nuovo padiglione dell’ospedale in memoria di sua madre era sempre rimasto legato a Oderzo. Nel 1947 The Peanuts King, questo il suo soprannome, se ne va, lasciando un’azienda con settanta negozi presenti anche in Canada e una fondazione gestirà a fini caritatevoli parte del suo patrimonio.

A partire dal 2000, dopo essere stato quasi dimenticato dai suoi conterranei, la sua fama cresce anche nella sua terra d’origine, con il gemellaggio tra Oderzo e Suffolk. Nel 2004 gli è stato intitolato l’Istituto Statale di Istruzione Superiore “A. V. Obici” in Oderzo. L’inaugurazione si è tenuta il 24 maggio 2004 con la posa del monumento raffigurante Mr. Peanut posto nel giardino della scuola. (Fonte Wikipedia).

E’ così grande la sua fama che anche i Simpson nella puntata  num. 337, intitolata “tutto è lecito in guerra e cucina” è dedicata a Mr Peanuts.

Evviva i bagigi! Evviva i Veneti nel mondo e la loro intraprendenza!

Alberta Bellussi

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L’8 marzo è la Festa della Donna festa istituita negli USA a inizio secolo ma a me piaceva oggi parlare di una donna veneta, la cui figura mi ha sempre affascinata da quando ne sono venuta a conoscenza ed è la prima laureata al mondo:  Elena Lucrezia Cornaro Piscopia. L’idea che una donna nel lontano seicento  amasse la cultura e lo studio e avesse lottato per questo mi piace e lo ritengo esempio di grande emancipazione femminile.

Elena ha  ottenuto, infatti,  la laurea in filosofia all’Università di Padova nel 1678. La cosa strana è che l’Italia vanta la prima donna laureata al mondo e forse non lo sa nemmeno.

Non c’è un’aula universitaria intitolata, né un francobollo celebrativo, da poco un istituto scolastico superiore di Jesolo si chiama con il suo nome.

Elena vanta un credito enorme  con il nostro Paese, ed sarebbe ora di darle il giusto merito. Laurearsi e essere donna di cultura nel ‘600 non deve essere stata cosa semplice per lei ma era determinata e votata allo studio.

Figlia naturale del nobile Giovanni Battista Cornaro, procuratore di San Marco, e della popolana Zanetta Boni, nacque a Venezia nel 1646, quinta di sette figli. Venne iscritta all’albo d’oro dei nobili a 18 anni, quando il padre sborsò 100.000 ducati per elevare a patrizi lei e i suoi fratelli. Si appassionò presto agli studi, in cui venne seguita dal padre, deciso a servirsi delle doti di Elena per riscattare il lustro della famiglia Cornaro; a questo scopo la affidò al teologo Giovanni Battista Fabris, al latinista Giovanni Valier, al grecista Alvise Gradenigo, al professore di teologia Felice Rotondi e al rabbino Shemel Aboaf, da cui Elena apprese l’ebraico. Studiò anche lo spagnolo, il francese, l’arabo, l’aramaico, e arrivò a possedere una profonda cultura musicale. Accanto alla passione per lo studio, Elena coltivava un’autentica vocazione religiosa, che la spinse a diventare, diciannovenne, oblata benedettina.  Questa scelta scontentò i genitori, intenzionati a farla sposare, ma evitò loro la delusione di una reclusione monastica e permise alla giovane di vivere seguendo la regola benedettina. Nel 1677 fece domanda per addottorarsi in teologia, ma il cancelliere dello Studio padovano, il cardinale Gregorio Barbarigo, oppose un fermo rifiuto alla sua richiesta. A una donna, infatti, non era concesso ricevere il titolo di dottore in teologia. Inizia, così, una lunga polemica tra lo Studio di Padova, che aveva acconsentito alla laurea, e il cardinale Barbarigo. A 32 anni, il 25 giungo del 1678,  Elena ottiene, finalmente, la sua laurea: gliela concedono, però, in filosofia e non dunque in teologia, come inizialmente desiderato.

La donna, che aveva condotto i suoi studi interamente a Venezia, si trasferì a Padova solo dopo la laurea, andando ad abitare a Palazzo Cornaro, vicino al Santo. La sua costituzione, già debole, era stata messa alla prova dallo studio e dalle macerazioni ascetiche; si ammalava di frequente e anche per lunghi periodi, fino a morire nel luglio del 1684. Venne sepolta nella chiesa di Santa Giustina a Padova.

La sua cultura era così elevata che era considerata dai familiari un fenomeno da esibire, donna erudita in grado di affrontare dissertazioni filosofiche e capace di dialogare in latino. A  quell’epoca stupiva gli intellettuali che tutto ciò accadesse in un corpo di donna. Lei non usava la cultura né come affermazione della dignità femminile, né  per  competere con gli uomini in campo intellettuale. Elena Lucrezia Cornero si prese la sua rivincita, era divenuta una celebrità, tutti la cercavano perché volevano parlare con lei. Anche Luigi XVI manda i suoi informatori a verificare le doti eccezionali della donna. Qualcuno racconta che ci fossero, quel giorno, 30mila persone che partecipavano all’evento.

Elena muore giovane a soli 38 anni e di lei rimane pochissimo.

Nel 1773 Caterina Dolfin donò all’Ateneo padovano la statua raffigurante Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, che ora è posta ai piedi dello scalone Cornaro, nel Cortile Antico di Palazzo Bo e solo nel 1969, nell’occasione del tricentenario, si muove finalmente l’Università di Padova, che avvia delle ricerche su Elena e  conferma la verità della storia.

W le donne  tenaci e determinate. W le donne libere e la cultura è un grande mezzo di libertà.

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Ti sei mai chiesto da dove viene il detto veneto     “Vecio come el cuc?”

Ci sono varie spiegazioni come spesso accade a questi detti  trasmessi nella tradizione orale ma, in questo caso, riconducono tutti all’idea di vivere tanti anni, di eternità e vetustà.

La prima versione fa derivare il nome cuc  da Abacuc, ottavo  dei profeti minori della Bibbia vissuto prima del 606 a.C.

Lamentandosi  con Dio per l’ingiustizia del mondo e l’oppressione dei deboli, Abacuc  gridò: “Fino a quando durerà questa tirannia?”.

E Dio rispose: “Abbi fede e pazienza: giustizia certo verrà e non tarderà”. E Abacuc ebbe tanta fede e tanta pazienza, per tanti anni e divenuto vecchissimo, rimbambì del tutto.

La seconda spiegazione  si riferisce al cuc, nome veneto del cuculo, che le leggende raccontano viva moltissimo e che sia in grado di predire la durata della vita altrui. Infatti si racconta che i bambini chiedesse al canto del cuculo : Quanti anni me datu de vita?

Per avere la risposta si contava il numero di cu-cu che corrispondevano al numero di anni da vivere.

Il cuc,  usato  nell’accezione di uccello parassita che ruba il nido agli altri uccelli, lo troviamo in un altro detto veneto che definisce, appunto cuc l’uomo che va a vivere a casa della moglie.

Si dice quel  le cuc.

La terza possibilità  rimanda al “cuco”, un fischietto che fu uno dei primi

giocattoli sonori dell’antichità.

Ognuno di noi ne preferirà una a me piace la versione del cuculo.

Maria santa te se vecio come el cuc

Alberta Bellussi

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Il 6 dicembre si festeggia San Nicolò.

Chi, come me, ha passato la sua infanzia nella Sinistra Piave Trevigiana ricorda sempre questa giornata con un po’ di nostalgia. I santi che portano i doni ai bimbi nel periodo dell’Avvento sono diversi, a seconda delle usanze seguite nelle differenti zone d’Italia. Da me, la notte del 5 dicembre passava con il suo carretto trainato da uno stanco asinello e lasciava il dono del suo passaggio. Dalle mie parti  la tradizione vuole che,  la notte  prima del 5 dicembre, i bimbi scrivano una letterina al Santo con la richiesta di doni. Ricordo ancora le mie letterine,   il bicchierino di grappa, la sigaretta e un po’ di paglia per l’asinello. Non mi stupii mai che i gusti del Santo combaciassero perfettamente con quelli di mia mamma, ma io ho sempre voluto credere alle favole e mi andava bene così. Ricordo la vibrante emozione di quei momenti che alimentavano i miei sogni di bambina romantica. La mattina del 6 dicembre mi svegliavo prestissimo; ero emozionata e aprivo la finestra della mia cameretta e trovavo il mio pacchettino. Il cuore mi batteva forte forte. Erano piccoli regali ma avevano un grande significato.

A scuola poi si imparava la canzoncina:

San Nicolò de Bari

xè la festa dei scolari

 

 

San Nicolò, nel mio immaginario di bambina, me lo sono sempre rappresentata vestito da vescovo. Essendo un vescovo appunto, era raffigurato con la mitra e il pastorale. L’aria severa era poco compatibile con il ruolo che gli era stato attribuito. In realtà c’era anche un’altra versione, decisamente più allegra: quella di un vecchietto con la barba bianca e il vestito rosso bordato di bianco. Così venne descritto San Nicholas nel poema A Visit from St. Nicholas scritto da Clement C. Moore nel 1821.

Tutto ciò crea un pò di confusione e questa figura si confonde con quella di Babbo Natale e siccome qualche giorno dopo arriva anche lui a portarci i doni, continuai   a preferire la raffigurazione classica di San Nicolò in abiti vescovili così le due figure erano distinte e mi arrivavano due regali.

C’è un legame tra il nostro San Nicolò e questo San Nicholas con le fattezze di Babbo Natale?

Uno dei simboli del Natale è sicuramente il vecchio allegro e paffutello che porta i doni: Babbo Natale. Come molti sanno, la sua figura è legata a San Nicola di Myra in Anatolia.

Fin dal VI secolo il culto di San Nicolò (o San Nicola) era diffuso in tutto l’oriente. La sua fama quindi approdò in Italia, specie a Roma e nel sud che allora era dominato dai Bizantini. Attraverso i secoli il ricordo di questo santo non si spense, tanto che viene nominato come San Nicolò di Bari, quasi la città pugliese l’avesse adottato. Tuttavia, i baresi, di cui è anche patrono, festeggiano il santo il 9 maggio, giorno in cui le sue spoglie arrivarono in città nel 1087, mentre nel nord la sua festa ricorre, come ho già detto, il 6 dicembre che è la data in cui sarebbe morto a Myra nel 343.

È credenza diffusa che le reliquie di San Nicola si trovino nella Basilica di San Nicola a Bari, ma quest’ultima conserva circa la metà dello scheletro del santo, perché il resto si trova a Venezia…

Quando Myra cadde in mano musulmana, Bari e Venezia, che erano dirette rivali nei traffici marittimi con l’Oriente, entrarono in competizione per il trasferimento in Occidente delle reliquie del santo.

Nel 1087 una spedizione di marinai baresi raggiunse Myra e si impadronì di circa metà dello scheletro di Nicola.

I Veneziani non si rassegnarono e nel 1099 approdarono a loro volta a Myra per visitare il sepolcro vuoto dal quale i baresi avevano prelevato le ossa. Tuttavia qualcuno rammentò di aver visto celebrare le cerimonie più importanti non sull’altare maggiore, ma in un ambiente secondario… E fu proprio in tale ambiente che i veneziani rinvennero una gran quantità di minuti frammenti ossei che i baresi non avevano prelevato! I resti vennero trasferiti nell’abbazia benedettina di San Nicolò del Lido nella laguna di Venezia.

San Nicola di Myra era molto venerato a Venezia, essendo il Santo patrono dei marinai: ai tempi della Repubblica Serenissima, durante la Festa della Sensa, al termine della celebre cerimonia dello sposalizio del Mare, la messa solenne di ringraziamento veniva celebrata proprio nell’abbazia benedettina di San Nicolò del Lido.

Alberta Bellussi

 

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Andémo béver un’ombra in un bàcaro

Quante volte si sente dire : “Ciò, Andémo béver un’ombra!”…

E’ questo un invito conviviale molto usato in Veneto e si tramanda da generazioni. Davanti a un “ombra” cioè a un bicchiere di vino si fanno quattro chiacchiere con gli amici, si concludono affari, ci si rilassa per spezzare la giornata.

 

Ma da dove deriva questa espressione?

Il termine  risale  alla fine del secolo quattordicesimo quando, attorno al campanile di S. Marco, venivano montate molte   bancarelle  di legno che proponevano varie attività commerciali: rigattieri, panettieri, spezieri e osterie. La Piazza era infatti il luogo ideale per incontri e chiacchiere, solitamente accompagnate da un buon bicchiere di vino. I mescitori di vino avevano molto lavoro; loro per  non rovinare il prezioso liquido di Bacco e mantenerlo sempre fresco anche nelle stagioni più calde,  spostavano la loro bancarella attorno al Campanile, inseguendo la sua ombra man mano che si spostava il sole. Il vino, per essere buono, doveva rimanere all’ombra e così il bicchiere di vino prese il nome … l’ombra.

Un’altra spiegazione simile nel contenuto ma diversa nella contestualizzazione poggia le sue basi nella civiltà contadina. Tempo fa i contadini al momento della mietitura si alzavano molto presto e verso le 9/10 erano 4/5 ore che lavoravano di falce, il sole a picco …..a quell’ora le donne portavano la merenda ( polenta e ….poco altro).
Ecco che allora si disse :
‘Ndemo farse un ombra…vale a dire : andiamo all’ombra di un albero e bere un bicchiere di vino e a mangiare.
Cit Marino Panto

Un tempo  si diceva: “Andémo béver all’ombra”, che con la trasmissione orale divenne : “Andémo béver un’ombra”.  Questo modo di dire è tutt’ora molto vivo e molto usato in tutto il Veneto.

E “l’ombra” a Venezia si beve nel bàcaro.

L’etimologia dell’appellativo bàcaro è alquanto controversa, nel corso degli anni, infatti, si sono affermate 4 teorie sulla sua origine:

  • secondo la prima il termine bàcaro deriva dal nome del dio romano del vino e della vendemmia: Bacco;
  • una seconda teoria fa desumere il nome dalla tipica espressione veneziana “far bàcara“, che letteralmente significa “far festa”; si fa risalire, infatti, a una esclamazione di un gondoliere che un giorno, assaggiando un nuovo vino venuto dal sud Italia, esclamò: Bon, bon! Questo xe proprio un “vin de bàcaro”. L’espressione veneziana “far bàcara” equivale a far baldoria, mangiare e bere in buona compagnia: quindi un “vin de bàcaro” non può essere che un vino adatto a questo scopo. Secondo questa leggenda, riportata da Elio Zorzi nel suo libro “Osterie Veneziane´ del 1928, il gondoliere avrebbe creato un nuovo termine, che si trasmise poi ai locali di mescita di vino sfuso;
  • bàcari pare che venissero chiamati anche i venditori di vino in botte a Piazza San Marco;
  • l’ipotesi meno probabile è quella che il nome derivi da un vino pugliese del ‘700 particolarmente apprezzato nella città, vino appunto chiamato bàcaro.

Alberta Bellussi

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LA BANDIERA VENETA: la sua storia

In questo periodo la bandiera Veneta è argomento molto attuale perché ha quella forma e quei colori?

La Bandiera Veneta viene chiamata anche  “Gonfalone di San Marco” e  rappresenta la storia di un Popolo, quello Veneto.

La bandiera Veneta è una bandiera particolare  è simbolo di un’identità molto forte e di un’appartenenza che le viene data dalla storia. La bandiera è nata quasi 15 secoli fa e raffigura il simbolo del santo patrono protettore della città e della Repubblica Serenissima di Venezia (San Marco).

Le code, o frange, rappresentano i 6 Sestieri di Venezia. La bandiera Veneta originale, essendo per definizione unica al mondo, deve necessariamente essere dotata di 6 frange, sempre ben distinte e indipendenti. Esse hanno la funzione di preservare integra la parte centrale che in tal modo non viene danneggiata dal vento. Questa era la prassi di tutta la marina militare e mercantile della Serenissima Repubblica di Venezia (697-1797), la più ricca e potente del mondo.

La Serenissima Repubblica di Venezia , però, non aveva mai codificato con una legge i propri vessilli, lasciando  che fosse  l’uso a definirne le caratteristiche, a seconda delle circostanze.

La tradizione racconta che la prima bandiera avesse proprio il Leone di San Marco su fondo blu,  il colore del mare, anche senza code od altri ornamenti , aggiunti successivamente .

Fu poi sostituita dalla bandiera col fondo rosso, nelle varie varianti, con libro aperto, chiuso o con spada,  qualcuno dice il colore del sangue, certamente usata in tempo di guerra. Altri semplicemente affermano che il colore fu cambiato per renderla meglio visibile in mare.

La bandiera Veneta non è, in realtà,  una bandiera politica.

Il vessillo Veneto ha varie versioni, in quello più diffusa, il Leone di San Marco che  regge aperto un libro recante la scritta in lingua latina “Pax tibi Marce Evangelista Meus”.

Meno diffusa è la bandiera dove il leone impugna  la spada: presente solo sulle navi e  rappresenta la bandiera della marina militare in tempo di guerra, mentre quella con il libro chiuso indicava situazioni conflittuali fra la Repubblica ed il luogo dove è osservabile.

Il leone alato con il libro aperto è un simbolo ricorrente ed è ancora oggi murato sulle porte delle città che facevano parte della Repubblica, ma anche su palazzi pubblici e privati. La bandiera di San Marco era affissa in ogni capoluogo della Serenissima Repubblica di Venezia, d’ordine del Doge, che provvedeva a far spedire ad ogni città supplicante, gratuitamente ed a cura dell’arsenale, un apposito palo, che veniva periodicamente sostituito quando deteriorato.

Singolare la storia della Comunita’ di Perasto (oggi Montenegro) fu l’ultima città ad arrendersi ai francesi e l’ultima ad ammainare la bandiera Veneta. Durante il Medioevo Perasto  entrò a far parte  della Repubblica di Venezia, cui appartenne a periodi intermittenti e poi ininterrottamente dal 1420 al 1797.  Fu nel  ‘700 che  la cittadina visse il suo momento di maggior splendore, giungendo ad avere quattro cantieri navali, una flotta di circa cento navi, nove torri difensive, la fortezza di Santa Croce (1570), i sedici palazzi barocchi e le diciannove chiese. La devozione della cittadina alla Repubblica di Venezia non venne meno neppure alla caduta di quest’ultima.  Quando il 12 maggio 1797 il Doge, Ludovico Manin, depose le insegne di San Marco, i perastini decisero  di rimanere veneziani e si ressero in autogoverno fino all’arrivo delle truppe austriache.

Giuseppe Viscovich, capitano di Perasto, il 23 agosto del 1797 ammainava la bandiera di San Marco pronunciando la celebre orazione «ti co nu, nu co ti», con la bandiera tra le mani bagnato dal pianto di tutto il Popolo. I vessilli veneti rimasero così issati sulla città fino al giorno in cui vennero seppelliti con una cerimonia solenne, sotto l’altare maggiore della Chiesa di San Nicolò (Sveti Nikola).  Perasto era stata fedele alla Repubblica di Venezia per 377 anni.

La bandiera Veneta è di tutti ed è una bandiera di pace e rettitudine ma soprattutto di identità cultura e appartenenza.

Alberta Bellussi

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Chipilo:  il Veneto  in Messico

Sfogliavo il giornale,  il giorno dopo il terribile terremoto che ha colpito il Messico e provavo sofferenza a vedere quelle immagini e a leggere di quel disastro. In Messico ci andai molti anni fa perché argomento della  mia tesi di laurea  e fu  subito amore per quella terra, per quella cultura, per quella gente.

Tra i vari trafiletti del giornale mi ha colpito  la storia del paese di Chipilo, in Messico  e devo dire mi sono emozionata. Davvero non lo sapevo che in Messico un paesino parla veneto. Il terremoto non ha perdonato nemmeno questo luogo e spero trovino la forza di rialzarsi… ma volevo parlare di loro… di quei Veneti che nel mondo ci sono andati, si sono alzati le maniche e dati da fare nei paesi lontani che hanno dato loro ospitalità.

La storia di Chipilo, a me curiosa del mondo, è apparsa subito una storia affascinante quasi incredibile. Sospesa tra leggenda e realtà.

Chipilo è un piccolo paese di cinquemila  abitanti in Messico. L’America Latina fu meta di molti emigranti trevigiani a fine ottocento. Alla fine dell’Ottocento, per esempio, il Messico concedeva agli immigrati ampi territori da colonizzare. Si andava in Mèrica che era  la terra promessa. Lo Stato Messicano dava a chi s’impegnava a coltivare i  terreni, tra i più impervi e inospitali, attrezzi agricoli e bestiame.

Era circa il 1880 quando ci fu una grande inondazione del Piave; nel  paese di Segusino, in provincia di Treviso, l’alluvione aveva reso i campi incolti e portato molta carestia.  In quegli anni di miseria e povertà una  cinquantina di  famiglie da Segusino  decisero di emigrare in Messico. Nello  stato di Puebla fondarono la colonia di Chipilo.

I primi coloni trevigiani  erano allevatori e si diedero all’industria casearia. Hanno introdotto il formaggio e la “panna Chipilo” che è una marca conosciuta in tutto il paese e usata per i tacos, le enchiladas e i burritos della cucina messicana.

La cosa affascinante è che oggi, dopo 130 anni dal primo insediamento, nella comunità di Chipilo a causa di un particolare fenomeno d’isolamento dal resto del paese, ancora vi sono tradizioni venete e si parla dialetto veneto. Perduta nel centro del Messico e incastrata nella terra azteca, questa Comunità non parla  né castigliano né nàhuatl, lingua atzeca; parla, invece,  il dialetto del nord-est dell’Italia, cioè il veneto ma non quello che parliamo noi bensì quello dei nostri avi. E’ la stessa  lingua che si erano portati in “valigia” quando erano partiti dall’Italia a cercar fortuna. Mentre il nostro dialetto si   è evoluto, la lingua di Chipilo è rimasta attaccata alle vecchie radici. Infatti quando i suoi abitanti si congedano non dicono arrivederci ma dicono ‘se vedon’.

I chipileños non sono veneti solo nella lingua. Molti di loro sono biondi e con gli occhi chiari in una terra ibrida, tutti mangiano polenta e giocano a bocce. C’è un una collinetta nel loro paesaggio che  chiamano  Monte Grappa, in onore ai caduti italiani nella prima guerra mondiale.

Chipilo appare una realtà particolare  quasi una riserva di veneti in terra messicana;  un rapporto non sempre facilissimo quello tra i veneti e gli indios  perché i veneti locali accusano gli indios d’essere troppo pigri. E’ nel DNA dei Veneti quello di essere operosi e lavoratori e tutti loro affermano di aver insegnato agli indios come si lavora.

Qui i cognomi sono ancora veneti Calzature “Bortolotti”, latteria “Stefanoni”, alimentari “Minutti”: i nomi sono sempre quelli delle 50 famiglie venute qui nel 1882 con qualche straccio e molte speranze.

L’interesse per l’Italia si è un po’ spento anche se  nel 1982, nel centenario dell’emigrazione, i due paesi, quello di origine: Segusino e quello di arrivo: Chipilo, si sono gemellati. E’ allora che è cominciata a emergere questa anomalia linguistica, di messicani che parlano dialetto veneto e hanno mantenuto le secolari tradizioni del loro paese di origine. Il comune di Segusino ha recentemente organizzato anche dei centri estivi per bambini di Chipilo, sponsorizzati da Trevigiani nel mondo. La scrittrice Francesca Cazzaniga che ha sposato un messicano, ha deciso  di scrivere la storia di quella gente, che a fine Ottocento abbandonò tutto per l’avventura e che ora si ritrova in Messico a parlare e a sognare in veneto.

E’ un piccolo racconto, quasi romanzesco, di uno spaccato di quel  popolo veneto che ovunque è andato nel mondo ha lasciato la sua impronta positiva.

Alberta Bellussi

 

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“Mona” !  Avete mai pensato da dove deriva?

In questo mio viaggio attraverso quelle piccole cose venete che segnano l’appartenenza alla nostra terra, scoprire da dove arriva la parola “mona” era una mia curiosità.

“Mona” è uno dei termini che ci appartiene; possiamo dire che  è  di proprietà di tutti i Veneti; non ha nemmeno inflessioni o varianti in tutta la Regione,  lo si usa nella stessa forma ovunque ma ha molti significati dipende dall’uso e  dal contesto.

E’ una parola che continua ad essere molto usata e può avere  significato offensivo oppure semplicemente un intercalare.

Letteralmente indica l’organo genitale femminile.  In passato l’etimologia della parola “mona” era, sempre, stata collegata al termine latino “mea domina”, che significa mia signora, mia padrona, oppure Madonna, la seconda, accreditata dalla prestigiosa firma di Manlio Cortelazzo, faceva risalire il termine al greco “bunion”, e poi “muni” cioè monte, collinetta, da cui “monte di Venere”.

La parola, secondo altri storici, potrebbe essere di origine celtica, popolo che abitava la Regione, dove “mònes”  indicava la scimmia.

Ma la versione più accreditata, anche da un recente studio di Onghia (ricercatore della Normale di Pisa),  fa derivare questo termine  dall’arabo “maimun”, che vuole dire “scimmia” o “gatta”, simbolo del peccato o della lussuria, quindi utilizzato per riferirsi anche all’organo sessuale femminile.  Era stato d’altronde lo stesso Marco Polo a raccontare del “gatto mammone” che in realtà era una scimmia che assomigliava a un felino. Scimmia in quanto animale peloso, come l’”oggetto” in questione, ma anche simbolo del peccato di lussuria, nell’iconografia cristiana. Il termine “maimòne” si ritrova anche nei più antichi dizionari di italiano ad indicare infatti un particolare genere di scimmia, appartenente alla famiglia dei cercopitechi.

Un’ipotesi questa che allineerebbe l’uso dialettale veneziano al francese (“moniche/ mouniche”), al castigliano (“maimón”), al catalano (“maimó”) e alle voci di gergo statunitensi “monkey” e “monkey box”. Ma la metafora animale per indicare l’organo sessuale femminile è largamente diffusa, in Italia e fuori: basti pensare a “passera”, “farfalla”, o al francese e all’inglese, con “chatte”, “cat” e “pussy”.

Ma ancora più curiose sono le molte espressioni e frasi fatte che usano questo termine.

“Te si mona” viene spesso usato con l’accezione di uomo che fa lo stupido come una scimmia;.

Mandar tuto in mona” è traducibile con un mandare tutto a rotoli.

“Va in mona” equivale al nostro va’ a quel paese o qualcosa di più volgare. Questo ha anche un’altra espressione “Va in mona dea Daria” questa signora povera sentirà ogni giorno fischiare le orecchie.

Na monada” è un’espressione che significa scemenza, cosa di poco conto, stupidaggine. “Monade” sono i gesti leziosi compiuti dall’animale e nel dialetto diventano appunto le stupidaggini.

‘Ndar in mona”, infine, si usa per quelle cose o quelle persone che si sono rincitrullite.

Alberta Bellussi

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…QUEL DEL FORMAIO

L’altra sera parlando tra amici e con il casaro del banco del formaggio del mercato di Tezze disquisivamo sull’origine del detto “ Te trovarà quel del formaio” ; detto che in Veneto si manifesta nelle centinaia di  inflessioni dialettali locali.

Avevo promesso che avrei cercato il perché di questa formula sempre in uso e mai passata di moda nel nostro vivere comune. Lo si usa quando una persona è prepotente e arrogante, e magari fa delle furbate verso gli altri allora gli si augura che “prima o poi trovi quello del formaggio”, per  abbassargli la cresta e quietare l’arroganza.

Ma cosa centra l’uomo del formaggio con la giustizia sociale?

Ho provato a cercare e chiedere agli anziani. Alla fine del mio ricercare tre sono le spiegazioni che ne escono che hanno un filo conduttore  comune la forza fisica come soluzione all’arroganza.

La storia è dibattuta da anni e si trova lo stesso modo di dire anche in altri  dialetti dell’area triveneta, in Trentino, in Friuli, nel Triestino e perfino in Istria, ma rimane la questione:

cosa c’entra l’uomo del formaggio?

1- “Rivarà quel del formajo” secondo la tradizione veneziana deriva da “formaiea”.

Un tempo, per conciare le pelli, si usavano cortecce di rovere. Dopo averle usate si lasciavano asciugare al sole. Una volta asciugate venivano pestate e usate come combustibile per riscaldare le case. Erano le  “Formagee dea Giudeca” perché i conciapelli vivevano proprio in questa isola. E’ arrivato quello del formaggio significherebbe, quindi, colui che batte le cortecce cioè quello  che ti pesta a dovere.

2-  “La seconda ipotesi nasce in territorio trentino, pare da un fatto di una cronaca giudiziaria locale narrato da Giovanni de Tisi di Giustino, notaio di Rendina, per quanto riguardava  una controversia tra le comunità di Pelagio e Rendina per il possesso della malga del monte Spinole. I fatti avrebbero avuto luogo  nel 1380 in una remota e poco abitata zona del Trentino, in una società  che basava tutta la sua economia esclusivamente sull’ agricoltura e  la pastorizia,  sotto il dominio  del  principe – vescovo di Trento tramite nobili locali. Ed è uno di questi il cardine della storia, il nobile Giovanni de Tisi accusa di omicidio un malgaro che aveva ucciso “l’uomo del formaggio”. Era uso, in quel tempo, che l’affitto di una malga fosse pagato in natura. Nel caso in questione si era pattuito come affitto della malga un “uomo del formaggio” ovvero una quantità di prodotto caseario pari all’altezza di un uomo.  Quell’anno, particolarmente povero di latte, i padroni mandarono a riscuotere l’affitto un uomo di statura imponente.  Il povero malgaro incominciò  ad accatastare le forme di formaggio accanto al gigante, ma  arrivato alle spalle,  aveva terminato il formaggio, così  tolse dal ceppo un’ascia e semplicemente  tagliò la testa del riscossore del tributo e raggiunse la giusta quantità da dare”. ( cit. Carlo Scattolini)

Questa spiegazione non risponde appieno al significato della  frase, ma vediamo ora una terza ipotesi

3- I malgari ovvero i produttori di formaggi, erano gente abituata alla solitudine dei monti, forti, temprati da un lavoro duro e dall’ ambiente di montagna impervio e rigido.  Erano uomini taciturni, burberi, pratici, contemplativi e poco avvezzi alle furberie della gente di città.  Accadeva, quelle rarissime volte, che scendevano a valle per vendere o barattare i loro prodotti  che se qualcuno provava a imbrogliarli o a prendersi gioco di loro si facevano giustizia da soli in modo brutale e violento. Loro erano fisicamente molto forti e ne avevano spesso la meglio a suon di pugni e sberle.

Queste sono le spiegazioni che sono riuscita a trovare di questo detto sempre molto usato ci riportano tutte a una giustizia fatta utilizzando qualche sberla o pugno… come andava di moda un tempo per farsi rispettare.

E io auguro a tutti gli arroganti di trovare prima o poi quel del formajo, magari, che insegni loro l’educazione a parole ma che l’arroganza venga spenta definitivamente sul nascere.

Alberta Bellussi