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Venezia è città d’arte per antonomasia, la capitale del romanticismo, meta da sogno sospesa nel tempo tra la terra e l’acqua eppure potrebbe essere descritta attraverso i numeti. Infatti, Venezia, che prima di tutto è un topos geografico reale, “ha molti numeri” importanti i quali, oltre che per individuarla e descriverla, risultano preziosi per comprenderne più a fondo la natura. Ecco così che, anche attraverso una semplice enumerazione di dati, inesorabile emerge l’immagine di una città ancora una volta differente dalle altre, da un lato sempre sorprendente e magica, dall’altro pur con la sua fragilità e complessità

Venezia è  composta da 6 sestieri: San Marco con 5.562 numeri civici; Dorso Duro con 3004 numeri civici; Cannaregio con 6.423 numeri civici; Santa Croce con 2.344 numeri civici; San Polo con 3.144 numeri civici;  Castello con 6.827 numeri civici.

Un’unica piazza che è la meraviglia di Piazza San Marco e un unico palazzo, Palazzo Ducale.

118 sono le isole che la compongono

420 sono i ponti che attraversano i canali

4 sono i ponti sul Canal Grande: Il Ponte della Costituzione più noto come Calatrava, dal suo progettista, il Ponte degli Scalzi o della stazione, il Ponte di Rialto e il Ponte dell’Accademia. I piccoli ponti sono 300 in pietra 59 in ferro 49 in legno più il Ponte dei tre ponti.

Un solo ponte di accesso alla città il ponte della Libertà un tempo noto come Ponte di Littorio, costruito nel periodo fascista affiancato anni dopo dal ponte della Ferrovia.

177 sono i rii che si intersecano

3 soli canali : Il Canal Grande, il Canale della Giudecca e Il Canale di Cannaregio.

135 sono i campi

196 i campielli

380 le corti

7 i campazzi

1198 calli

367 rami

52 rio terrà

42 salizade

10 rughe

1 strada ( Nova)

2 vie

142 fontane

256 pozzi pubblici

circa 2.500 pozzi privati.

La sua superfice è di 415,9 chilometri quadrati e conta 250191 al 31 maggio 2024.

Le Chiese sono 98 quelle di culto, 26 quelle sconsacrate 2 di altri culti, gli armeni e i greco-ortodossi e ben 40 quelle che sono state demolite. 117 sono i campanili.

Sono questi numeri importanti da ricordare in quanto Venezia non è solo San Marco e Rialto ma l’insieme di tante calli, campi, campielli, rii, ponti che sono i testimoni tangibili  di una storia che millenaria che rimane nel cuore non solo dei veneziani ma di tutti quelli che la visitano e la amano.

Alberta Bellussi

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In Comelico e in Cadore esiste un’istituzione molto antica che si chiama “Regola”.

Le “Regole di comunione familiare” del Comelico sono la testimonianza del forte legame tra la comunità locale e il proprio territorio che si tramanda da oltre un millennio. Gestisce il patrimonio collettivo costituito da boschi, pascoli, praterie, malghe, che è inalienabile, indivisibile, inusucapibile. Ha preistoria e storia. Creata per motivi di sopravvivenza, solidarietà e difesa in zona montana.Le famiglie regoliere tramandano di padre in figlio le proprietà collettive di boschi e pascoli, insieme ai diritti di appartenenza alla Regola di Comunione Familiare, con lo scopo di preservare e migliorare la propria terra. I beni che derivano dalle attività legate al bosco e al pascolo rappresentano da sempre la principale fonte di sostentamento della comunità e sono amministrati con direttive approvate democraticamente dall’assemblea dei regolieri e contenute in antichi codici rurali detti “Laudi Statuti”. Ancora oggi, infatti, sono il punto di forza dell’offerta turistica delle Dolomiti Comelicesi, caratterizzata da contenuti ambientali e paesaggistici davvero unici. Le Regole di comunione familiare hanno saputo nel tempo adeguare la propria funzione e in questi anni hanno promosso numerose azioni di valorizzazione dell’ambiente indirizzate alla fruizione sostenibile del territorio. Le Regole di comunione familiare, che garantiscono una gestione armonica dei beni spontanei del territorio nel rispetto di tradizioni centenarie un tempo enti di diritto pubblico perché concorrevano direttamente al bilancio comunale, oggi sono diventate di diritto di privato e definite “Comunioni Familiari” a partire dalla legge 102/1971, che conferisce loro il titolo di azienda di diritto privato. È evidente che la considerazione del ruolo femminile ha sempre avuto scarsa attenzione: infatti, c’è sempre stata una tendenza all’esclusione delle donne anche, ma non solo, dall’attività regoliera. Non si deve dimenticare che questo antico diritto, pur nascendo dalle comunioni familiari, è sempre stato rappresentato dalla figura preminente dei maschi anziani, lasciando alle donne compiti di supplenza o di subentro temporaneo solo per le vedove con figli maschi minori. Tutto questo può non stupire, rientrando nella normale concezione storica della figura femminile. Pur però essendo cambiato il ruolo delle donne, gli statuti sono rimasti invariati. Tuttora le uniche donne considerate regoliere sono le vedove aventi figli di cui almeno uno maschio a carico e finché dura lo stato di vedovanza o finché un figlio maschio e convivente abbia raggiunto la maggiore età. Nel 2022 ci fu una svolta nelle elezioni tenutesi a Valle di San Pietro di Cadore la maggioranza ha votato per la prima volta una donna, Manuela Pradetto Bonvecchio, sarà chiamata a presiedere l’antichissimo istituto regoliero, che detiene la proprietà privata collettiva di un grande patrimonio ambientale. Il Comelico terra preziosa di conservazione e anche terra capace di imprevedibili scatti in avanti: finalmente un segnale netto di apertura alle donne che viene dall’assemblea dei regolieri.

Nell’area di Comelico sono ancora attive 16 Regole di comunione familiare cosi descritte:

Comune di Comelico Superiore: Regola di Padola – Regola di Dosoledo – Regola di Casamazzagno- Regola di Candide;

Comune di San Nicolo di Comelico: Regola di San Nicolo – Regola di Costa;

Comune di Danta di Cadore: Regola di Tutta Danta – Regola di Mezza Danta.

Comune di Santo Stefano di Cadore: Regola di Santo Stefano – Regola di Campolongo – Regola di Casada – Regola di Cotalissoio;

Comune di San Pietro di Cadore: Regola di San Pietro – Regola di Presenaio – Regola di Valle – Regola di Costalta.

Alberta

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Come mai si chiamano così?

A differenza di quello che si può credere dal loro nome, le tende alla veneziana non sono state inventate a Venezia ma, si tramanda, addirittura in Giappone. In realtà, andando ancora più indietro nel tempo si scopre che manufatti molto simili erano già presenti in Persia, Cina ed Egitto. Tuttavia, la loro funzione decorativa sulle finestre delle abitazioni potrebbe essere originaria del periodo settecentesco: questa è la datazione approssimativa che ne fanno gli esperti.

Ma per quale ragione, allora, si chiamano “tende alla veneziana”?

Un’antica leggenda ci svela che i primi commercianti veneziani portarono in Persia, durante i loro viaggi d’affari, questi antichi manufatti. In effetti, questo spiegherebbe perché le veneziane, in Francia, sono conosciute anche con il nome di “persienne”.

Il termine persiana deriverebbe dal latino “persa, -ae”, la cui traduzione è “originario della Persia”. Sembra dunque che la persiana sia arrivata in Europa per la prima volta nel XVIII secolo, a Venezia in particolare. Tanto che le persiane più famose sono proprio quelle veneziane. La storia della persiana ha origini antichissime, una dimostrazione data da diversi dipinti dell’epoca dei Persiani, dai quali deriva appunto il nome “persiana”. Ma i luoghi in cui veniva importata preferivano chiamarla diversamente: i mercanti veneziani la chiamavano appunto “veneziane”.

Una curiosità è che un altro nome che si usa tutt’ora, soprattutto legato alle persiane genovesi,  è “gelosia”, nome che si dice sia legato agli uomini persiani i quali, troppo gelosi delle proprie mogli, avevano appunto escogitato questo stratagemma per impedire loro di mostrarsi alla finestra.

Anche i materiali con cui venivano realizzate hanno avuto la loro ovvia evoluzione.

Dapprima venivano utilizzati il ferro e il legno, in seguito attorno al 1850 sono apparse le prime persiane realizzate in alluminio, fino ad arrivare ai giorni nostri e alla diffusione di altri materiali come il PVC e l’acciaio zincato.

Le persiane sono infissi caratterizzati da lamelle inclinate che lasciano passare la luce dell’esterno dentro le abitazioni. Le lamelle possono essere fisse oppure orientabili, ovvero modulabili a seconda della quantità di luce che si vuole diffondere all’interno dell’ambiente.

Però  colui che, per primo, ha brevettato questo sistema, nel 1769, è stato il fisico inglese Edward Bevan: il suo era un congegno di lame mobili di legno che potevano essere azionate per mezzo di una corda e una puleggia inserite in un telaio. Ed è curioso che sia stato proprio un inglese a brevettare questo sistema quando è risaputo che in molti Paesi nordici le persiane sono le assenti per eccellenza.

Come mai noi abbiamo le persiane e invece ad altre latitudini sono assenti? E’ un fatto comune vedere le persiane in alcuni Paesi, ma in altri non ce n’è traccia.

“Per quanto riguarda la differenza di utilizzo con i Paesi del nord Europa (non solo quelli più a nord, ma anche Paesi Bassi, Belgio, Germania) sembra ci siano due ragioni. Da un lato, è un problema funzionale, poiché più a nord tendono a intrappolare il poco sole che le raggiunge, mentre più a sud dobbiamo evitarlo per non surriscaldare gli spazi in cui viviamo e lavoriamo. Dall’altro, le correnti protestanti – luteranesimo e calvinismo – che si sono insediate in quelle zone d’Europa hanno cambiato la concezione della privacy tra la gente. Lì, nascondersi dietro una tenda o una persiana potrebbe voler dire che si sta nascondendo qualcosa di peccaminoso”, afferma l’architetto José María Mateo.

 

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“Costoro non seminano, non arano, non vendemmiano, ma comprano dappertutto grano e vino”: questa cronaca del VIII secolo descrive perfettamente l’attitudine innata dei Veneziani al commercio, riconosciuta in tutto il mondo fin dall’antichità. Proprio per questo motivo la moneta di Venezia è stata per secoli la valuta più pregiata di tutte; monete di tantissime forme e tagli. Ne elencherò alcune seguendo l’ordine alfabetico.

Il BAGATIN era questa una moneta tra le più usate dal popolo e durata sino alla caduta della Serenissima.

Il BAIOCCO era una moneta romana che però aveva corso legale anche a Venezia e valeva due soldi veneti

Il BESSO era in rame e valeva sei denari o mezzo soldo veneto

Le BISANTE prendono il nome dalla città di Bisanzio dove venne coniata per la prima volta ma successivamente la si coniava anche a Venezia era una moneta d’oro dal valore altissimo

Il DANARO o PICCIOLO valeva come il bagatin

Il DUCATO quello d’argento pesava 109 carati e un grammo e valeva otto lire venete mentre il Ducato corrente valeva sei lire venete e quattro soldi.

Il GROSSO moneta tipica veneziana coniata nel 1200 dal Doge Pietro Ziani e valeva quattro soldi e c’era anche GROSSON che valeva otto soldi.

La LIRA VENETA valeva venti soldi e fu in corso sino alla fine della Serenissima

Il MARCHETO piccola moneta di rame coniata poco prima della caduta della Serenissima

La PALANCA valeva un soldo e il PALANCON valeva due soldi.

Lo SCUDO D’ORO coniato dal Doge Andrea Gritti nel 1530  valeva sei lire venete e dieci soldi mentre lo SCUDO D’ARGENTO valeva sei lire venete ma alla fine della Serenissima il suo valore era di dodici lire venete e otto soldi. C’era poi il MEZZO SCUDO, il QUARTO DI SCUDO e il MEZZO QUARTO DI SCUDO.

Il SISIN era una piccola moneta d’argento ma durò poco per la facilità di contraffazione, che esisteva anche allora.

Il SOLDIN piccola moneta di rame mentre il SOLDO era una moneta di rame che valeva un ventesimo di Lira veneta.

Lo ZECCHINO  moneta che prese il nome in onore della Zecca e aveva un grosso valore mentre la OSELLA era d’argento e fu emessa dal Doge Antonio Grimani .Veniva coniata ogni anno ed era il regalo che i Dogi facevano ai grandi personaggi della Serenissima nel periodo natalizio.

Queste sono le più conosciute ma ce ne sono anche molte altre.

Alberta Bellussi

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L’OROLOGIO PIU’ ANTICO DEL MONDO SI TROVA IN VENETO

Lo sai dovedove si trova il contributo più antico del mondo?

Si trova sul campanile della chiesa di Sant’Andrea di Chioggia e segna l’ora esatta da 630 anni.
L’orologio di Chioggia fu ritrovato nel 1997 da un carpentiere, Gianni Lanza, che era stato incaricato di sistemare le vecchie scale in legno che portavano alla cella campanaria. Quell’antico marchingegno era stato accantonato in un angolo dopo l’elettrificazione dell’orologio; i pesi furono ritrovati al piano terra della torre, cosicchè l’esemplare può dirsi completo in ogni sua parte. Per fortuna il parroco comprese che si poteva trattare di un reperto meritevole di attenzione e non lo fece smaltire si preoccupò invece di capirne le origini.

Uno studioso locale, Aldo Bullo, esperto di orologeria antica, vedendo l’arcaico manufatto lo collegò a quello della cattedrale di Salisbury, considerato fino a quel momento il più antico al mondo menzionano a partire dal 1386. Il meccanismo di Chioggia venne sottoposto al giudizio del prof. Ettore Pennestri (università Tor Vergata di Roma e membro del Registro Italiano Orologi da Torre) e alla d.ssa Marisa Addomine, collega del Registro. Gli studiosi intrapresero insieme un’approfondita ricerca, sia sul reperto che d’archivio, dalla quale emerse anzitutto il documento sovrano sulla sua datazione, in cui si legge :
Quod ponatur in exitu per massarios ad quod restat ad expensam orologi et quod teneat in ordine et acconcio – Si metta a disposizione degli economi del Comune la somma per saldare le spese dell’orologio e per tenerlo in ordine e funzionante. die XXVI february (26 febbraio 1386). Anche per l’esemplare chioggiotto si deve quindi ritornare al 1386: che battaglia per il primato con Salisbury.

In questo documento, per la verità, si parla già dell’esistenza dell’orologio, ma è la carta più antica di cui si disponga poiché l’archivio precedente venne distrutto durante la Guerra di Chioggia (1379-’80)
Gli studiosi sono riusciti a ricostruire l’intera storia del vetusto meccanismo, e hanno pure ricostruito virtualmente l’orologio; infatti grazie a tecniche di reverse engineering e di modellazione tridimensionale, presso la cattedra di Meccanica Applicata alle Macchine del Dipartimento di Ingegneria Meccanica dell’Università di Roma “Tor Vergata”, è stato possibile eseguire lo studio cinematico dell’orologio.
Oggi l’originale è custodito all’interno della torre, che ospita un Museo verticale, dislocato su cinque livelli, fino a raggiungere la cella campanaria, dalla quale si gode un panorama mozzafiato.

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Venezia è unica e lo sappiamo ed è un gioiello anch’esso unico al Mondo: la Pala d’oro.

La Basilica di San Marco ospita al suo interno la preziosa Pala d’Oro, una maestosa opera bizantina di oreficeria prodotta nel X secolo. La sua realizzazione ha richiesto una tecnica sopraffine di decorazione artistica a smalto chiamata cloisonné (sottili fili o listelli o piccoli tramezzi metallici (di solito rame), celle o alveoli (detti in francese cloisons), vengono saldati o incollati ad una lastra di supporto dell’opera da costruire; successivamente quindi, nelle zone rilevate dal metallo, viene colato dello smalto, ottenendo quindi una sorta di mosaico le cui tessere sono circoscritte esattamente dai listelli metallici).

Negli anni venne impreziosita sempre più fino a suo completamento nel XIV secolo; la struttura, posta sull’altare maggiore della Basilica, è in stile gotico in argento e oro e misura 334x212cm. Sono rappresentate numerose immagini sacre con al centro il Cristo circondato dagli Evangelisti, ai lati profeti, apostoli, arcangeli e in cornice la storia di vita di San Marco. Ma la particolarità che lascia tutti abbagliati sono le 1927 gemme che contiene: 526 perle, 330 granati, 320 zaffiri, 300 smeraldi, 183 ametiste, 75 rubini, 175 agate, 34 topazi, 16 corniole, 13 diaspri. Data la sua grande preziosità sembra strano che sia arrivata a noi senza essere stata trafugata, in realtà è stata in serio pericolo come racconta la tradizione. Napoleone, trovatosi al suo cospetto durante l’invasione, fu tratto in inganno da un “gioco” linguistico tutto Veneziano che ha permesso di salvarla; Xe tutto vero! dissero i veneziani all’Imperatore senza troppo pensare che la parola italiana “VERO” in dialetto veneto significa anche “VETRO. Napoleone, per fortuna, comprese che l’opera era tutta di vetro e quindi priva di valore e la lasciò al suo posto portando in Francia altri preziosi. Grazie a questo qui pro quo dialettale, la Pala d’Oro fu salvata, concedendoci il privilegio di poterla ammirare ancora nella sua bellissima “casa” di origine.

Alberta Bellussi

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“Stai parlando a vanvera” vuol dire parlare a vuoto, senza un senso, solo per aprir bocca.

È un detto usato in tutta Italia ma la sua origine è legata a Venezia e ad un oggetto in particolare usato dalle dame del ‘600 nella città lagunare, la cosiddetta “vanvera”.

Ma la vanvera che cosa è?  È un oggetto che era molto in voga che nella Venezia seicentesca e veniva usato dalle dame che non andavano mai in giro senza le loro ampie gonne sorrette da rigide strutture a gabbia. La vanvera era una parte integrante dei sontuosi abiti delle veneziane che veniva usata in qualsiasi occasione di festa.  Si trattava appunto di una sorta di tubicino, indossato dalle donne sotto le loro gonne sul sedere, con un palloncino contenitore alla sua estremità che serviva per contenere le possibili flatulenze delle signore che, così, non sarebbero finite nell’aria provocando spiacevoli figure per le eleganti dame. Questo attrezzo, che non mancava mai nell’outfit delle signore veneziane in occasioni come balli, feste di palazzo o cene di gala serviva sostanzialmente come contenitore di flatulenze ed era molto più comune di quello che si possa pensare.  Esisteva anche un’altra versione della vanvera; ce n’era una che veniva utilizzata sotto le coperte e che portava l’aria delle proprie flatulenze fuori dalla finestra con un tubicino in modo che la stanza restasse profumata durante la notte.  Il collegamento tra l’oggetto vanvera e il modo di dire del parlare all’aria, cioè senza senso diventa è quindi  chiaro e se inizialmente veniva usato per scherzare su questo doppio senso, con il tempo e con la scomparsa dell’oggetto della vanvera, ora è rimasto il modo di dire che usiamo sempre.

Alberta Bellussi

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In Italia ci sono alcune città molto famose per il caffè, come Napoli o Trieste, ma fu Venezia la prima città italiana a scoprirlo e nella quale arrivarono i primi chicchi.

Nel 1570 fu, infatti, Prospero Alpini, medico del console Giorgio Emo, che lo scoprì in Egitto quando il politico era impegnato lì per conto della Repubblica di Venezia. Il dottore fu il primo italiano a raffigurare la pianta su una tavola botanica e studiare i benefici dei suoi chicchi, che dopo essere stati tostati regalavano una bevanda nera e “di sapore simile alla cicoria”; il suo testo si chiamava “De Plantis Aegypty”, famoso trattato sulle piante di origine nordafricana in cui il caffè è oggetto di studio per la prima volta.

Più di un secolo dopo, nel 1683, le cose cambiarono e in Piazza San Marco aprì la prima “Bottega del caffè“ dove si vendeva la bevanda nera dal forte potere stimolante.

Nel 1720, sotto le Procuratie Nuove, viene aperto il Caffè Florian, con il nome di “Alla Veneziana trionfante” che presto cambiò il nome in Florian.  La data fissata per l’apertura fu il 26 dicembre ma intoppi burocratici la fecero spostare al 29 dicembre. Così ben presto i veneziani lo elessero a punto d’incontro, «’Ndemo da Florian!» dicevano in dialetto e così la bottega di Floriano Francescani prese il nome con cui è ancora oggi conosciuta in tutto il mondo. Sarà il primo “cafè” d’Europa; fu un successo enorme tanto che attorno alla metà del ‘700 si contano in città già oltre 220 botteghe del caffè. Da Venezia si diffondono rapidamente in tutta Italia e in Europa facendo dilagare la moda dei cafè come centro della vita mondana e intellettuale, ritrovo dove deliziarsi anche con il tabacco e la cioccolata che nel frattempo erano approdati in Occidente.  Il locale divenne subito di gran moda, grazie alla posizione, ma anche alla raffinatezza degli arredi, alla bellezza delle sue sale piene di stucchi e affreschi: qui s’incontrava la bella gente dell’epoca, ed anche i dongiovanni visto che fu uno dei primi bar aperti anche alle donne,  come Carlo Goldoni o Giacomo Casanova e, in tempi più recenti, Antonio Canova, Lord Byron, Gabriele d’Annunzio, Ernest Hemingway, solo per citarne alcuni, ma anche personaggi cinematografici come James Bond e Gwyneth Paltrow. È sopravvissuto alla caduta della ”Serenissima” e a due guerre mondiali, conservando intatto il suo fascino nei secoli. Protagonista dei maggiori capitoli della storia veneziana, fu qui, a fine ‘800, che l’allora sindaco di Venezia, Riccardo Selvatico, ebbe l’idea di organizzare un’esposizione internazionale d’arte, divenuta poi famosa con il nome di Biennale di Venezia. Nel 2020 ha compiuto 300 anni ed è stato emesso un francobollo.

Alberta Bellussi

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E’ una frase questa che abbiamo usato e sentito centinaia di volte aver ascoltato

Te fasso veder mi che ora che xe” è un detto che i veneti conoscono bene e capiscono subito che quando lo sentono pronunciare sanno che c’è qualcosa che non va anzi forse meglio girare alla larga.

Questa frase, infatti, che letteralmente significa “Adesso ti faccio vedere io che ora è” è una vera e propria minaccia, usata anche bonariamente o ironicamente per rimproverare o spaventare qualcuno che si è comportato male e dovrà pagarne le conseguenze.

Ma da dove deriva questo modo di dire veneziano?

Un motivo c’è ed è legato alla storia di Venezia. Questo detto comunissimo, infatti, trae origine da un’abitudine tutta veneziana ai tempi della Serenissima rimasta nel linguaggio comune in questo detto: “”Te fasso veder mi che ora che xe”.

Nella metà del XVIII secolo in piazza San Marco nello spazio tra le colonne di San Marco e San Todaro, venivano effettuate le esecuzioni capitali.

Quest’area di San Marco è ancora oggetto di superstizione da parte dei veneziani che non vi passano mai in mezzo perché era destinata alle uccisioni ed è proprio da questo luogo che deriva il detto “Te fasso veder mi che ora che xe”.

I condannati a morte erano costretti a dare le spalle al bacino San Marco e l’ultima cosa che guardavano, appena prima di venire ammazzati, era dritto alla torre dell’orologio che avevano davanti che segnava l’ora della propria morte. Proprio da qui deriva questa minaccia di origine molto antica: “Ti faccio vedere che ore sono”, nel senso di “Ti condanno a morte” ora fa ancora parte dei modi di dire veneti in un’accezione più leggera.

Alberta Bellussi

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La frase “tagliare la testa al toro” significa risolvere definitivamente una questione che si protrae da tempo anche a scapito o a danno dì qualcosa o di qualcuno.

Ma da dove nasce questa espressione? Lo sai che è un detto veneziano.

Tutto iniziò nel 1162, quando il patriarca di Aquileia, Ulrico di Treven mosse alla conquista di Grado, città della Serenissima.  Il Doge di Venezia, Vitale II Michiel, reagì fortemente sconfiggendo l’esercito di Aquileia e facendo vari prigionieri tra i quali 12 prelati, 12 alleati e lo stesso Ulrico. Venezia accettò, poi, di liberare Ulrico solo dopo il pagamento di un ingente riscatto: 12 pani per i prelati, 12 maiali per gli alleati e un toro per il Patriarca. I pani vennero distribuiti alla popolazione, la carne dei maiali venne distribuita tra i Senatori e il toro, che simboleggiava il Patriarca, fu ucciso nella pubblica Piazza, tagliandogli la testa. Così, la decapitazione del toro pose fine alla diatriba tra i contendenti e assunse il significato odierno di risolvere definitivamente una controversia che si protrae da tempo. Per ridicolizzare gli aquilani, si stabilì inoltre che ogni anno un toro, 12 maiali e 12 pani dovessero essere mandati a Palazzo Ducale dove si celebrava una festa in cui gli animali, simbolo dei vinti, venivano giustiziati. Il popolo in massa seguiva con applausi e grida di eccitazione il macabro rituale. La tradizione perdurò per secoli fino a quando nel 1523 il doge Andrea Gritti abolì l’uccisione dei maiali, mantenendo solo la tradizione del “Taglio della testa del toro” e portando a tre il numero dei tori da sacrificare. La cosa si è poi trasformata in una vera e propria cerimonia che veniva fatta a Carnevale, il giovedì grasso: non si usavano più maiali e pani ma c’erano 3 tori, portati dalle due corporazioni dei Fabbri e dei Macellai, che il giovedì grasso venivano decapitati, questo segnava la chiusura di ogni lotta e dello spettacolo. Da qui la decapitazione del toro diventa quindi il simbolo della fine della diatriba tra i contendenti e da qui deriva il significato di risolvere definitivamente una controversia che si protrae da tempo, dare una fine a una cosa, una discussione, un problema.

Alberta Bellussi