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Italia…. così piccola e fragile

“erano due paesi dove tutti si conoscevano e si davano una mano come accade nei piccoli paesi, in quelle province italiche che al momento buono sono capaci, malgrado la fatica, il dolore, di far prevalere il senso di solidarietà sugli egoismi, sui rancori, le invidie. Dove tutti hanno un nome e un cognome e nessuno è un numero in un lungo elenco di vittime”…

In Italia i disastri spesso aprono nuove fasi e consapevolezze…è il tempo di una rivoluzione di valori positivi.

E di nuovo accade, in Italia, ad un anno dal tremendo terremoto che ha ferito, come un fendente al cuore, il centro dell’ Italia  (Amatrice, Norcia, ecc.), ora è toccato a Ischia. Casamicciola e Lacco Ameno implosi su se stessi.

Non usa giri di parole e non si risparmia, Vittorio Sgarbi, all’indomani del terremoto ad Ischia, “una catastrofe che dovrebbe costringerci una volta per tutte alla riflessione su ciò che non si è mai riusciti a salvare, sulla mancanza di prevenzione e, non da ultimo, sulle mancate ricostruzioni che vedono lo Stato latitante e colpevole. Il caso di Ischia mi pare a dir poco emblematico. Proprio Casamicciola e Lacco Ameno, 140 anni fa, furono teatro di ben sei terremoti uno dei quali causò quasi 3mila vittime nella popolazione. Paradossalmente dovremmo quasi gioire se ieri le vittime sono state soltanto due. Ma purtroppo dobbiamo ringraziare il cielo che la scossa sia stata soltanto una e neppure di altissima intensità. Insomma, è andata bene? “Direi proprio di sì, visto che la lezione di 140 anni fa non è servita a nulla”.

E di nuovo delle immagini tremende scorrono, da un paio di giorni, alla televisione e riaprono   dei cassetti emotivi dolorosi; questi fatti drammatici rinnovano in noi il senso di appartenenza all’Italia e quanto ci teniamo a proteggere la nostra splendida penisola che ancora una volta si è rivelata vulnerabile.

L’Italia è universalmente riconosciuto come uno dei paesi più belli al mondo. Un territorio dalla bellezza però fragile. Un paese che necessita di cure e prevenzione contro i cosiddetti georischi , alcuni dei quali sono e saranno inevitabilmente accentuati dall’avanzare dei cambiamenti climatici e altri che sono così perché la posizione geografica ne segna il destino. I fenomeni che hanno devastato il territorio italiano sono i terremoti e le alluvioni.

La stima della popolazione esposta a rischio alluvioni in Italia è pari a 8.600.000 abitanti nello scenario di pericolosità idraulica media mentre i beni culturali esposti al medesimo rischio sono circa 28.500 e circa 7.100 le strutture scolastiche. Le Regioni più colpite sono state Liguria, Piemonte, Toscana, Veneto, Campania, Lombardia e Sicilia.

La popolazione che vive in aree ad elevato rischio sismico è invece di circa 24 milioni di abitanti (che vivono nel 46% degli edifici sparsi sul territorio). Il rischio sismico si concentra nella parte centro-meridionale della Penisola, lungo la catena montuosa appenninica, in Calabria e Sicilia ed in alcune regioni settentrionali, come il Friuli, parte del Veneto e la Liguria occidentale, ma solo la Sardegna non risente particolarmente di eventi sismici.

Non si può infine dimenticare come l’Italia sia inoltre fortemente esposta al rischio delle eruzioni vulcaniche. I vulcani attivi, caratterizzati da eruzioni frequenti, sono l’Etna e lo Stromboli. I vulcani quiescenti, la cui ultima eruzione è avvenuta negli ultimi 10 mila anni, sono:  Colli Albani, Campi Flegrei, Ischia, Vesuvio, Lipari, Vulcano, Panarea, Isola Ferdinandea e Pantelleria. I vulcani sottomarini, alcuni dei quali attivi (Marsili, Vavilov e Magnaghi), sono concentrati nel Mar Tirreno e nel canale di Sicilia.

E a queste che sono le minacce più grandi che rendono vulnerabile l’Italia, si aggiungono  tutte le altre provocate o meno dall’intervento antropico.

Se mi fermo per un attimo a pensare sono davvero molte e spiazzanti. Ti sembra che di fronte a queste minacce l’uomo non abbia nessun tipo di  difese.

Se penso alle ultime catastrofi ambientali che ha visto protagonista l’Italia in lungo e in largo mi sento ancora più smarrita…

Se penso a quelle centinaia di persone morte nella loro casa; uno dei luoghi che si ama di più nella vita, mi sento impotente.

La cosa che maggiormente mi fa dolore è l’incapacità della politica di aver trattato l’Italia come uno stato fragile e di aver pensato a una programmazione globale, che partisse da lontano, e che lo mettesse in una condizione di sicurezza e non di totale vulnerabilità. Non c’è un vero piano prevenzione: in stato pessimo o mediocre 2,1 milioni di abitazioni e sono davvero tante. Mi fa schifo pensare ai miliardi spesi interventi serviti a nulla o mai finiti perché fermati da mille inchieste.

C’è una via di uscita a tutto ciò?

Per ora tutte le riflessioni sono negative e tristi  ma in queste circostanze fanno emergere gli aspetti belli e umani che caratterizzano questo nostro Paese:   la solidarietà, la bontà e l’altruismo. Questi sono valori che fanno tenere i piedi saldi per terra e  che consentono di affrontare insieme le difficoltà con la speranza di far rinascere questo nostro paese allo sbando

La strada è molto difficile…e impervia… chissà cosa accadrà?

 

Alberta Bellussi

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Se sfoglio i giornali, ascolto la Tv, leggo nel web le notizie che emergono e che colpiscono la mia emotività sono notizie, per la maggiorparte, negative…omicidi, stupri, corruzione, malapolitica ecc ecc…un elenco lunghissimo ma anche tristissimo. Questi accadimenti  smarriscono gli animi sensibili, gettano la nostra mente in un torpore malinconico quasi di deriva … E, naturalmente, ti trovi a fare delle riflessioni sul senso della vita, su ciò che conta ma soprattutto se il tuo cammino su questa vita è un cammino felice.

La felicità… è una parola piena, con l’accento, allegra.

E mentre penso e rifletto mi capita in mano uno scritto, mio vecchio, su un foglio di carta …. che curiosamente leggo.

“ Per tanto tempo ho avuto la sensazione che la mia vita sarebbe cominciata, prima o poi sarebbe cominciata la vera vita! Ma c’erano sempre ostacoli da superare strada facendo, qualcosa di irrisolto, un affare che richiedeva ancora tempo, delle cose non concluse. In seguito la vita sarebbe cominciata ne ero certa . Finalmente ho capito che questa era la vita. Oggi”.

E mentre i miei occhi scorrevano tra le righe di questo piccolo scritto mi si  sono aperte mille finestre di sensazioni e riflessioni.

Da piccoli pensiamo che saremo più felici quando a 18 anni avremo la patente, quando saremo grandi. Da grandi rimpiangiamo di non essere ancora piccoli e protetti.  E poi da adulti dobbiamo avere la macchina, la casa, le vacanze. E poi ci prende l’ansia della riproduzione e siamo convinti che assolutamente ci dobbiamo sposare e avere figli per essere felici e in questo correre ansioso spesso sbagliamo, inciampiamo, ma poi la vita comunque ti da la possibilità di rialzarti.  Poi ci sentiamo frustrati perché i nostri figli volano per la loro vita e in realtà è giusto sia così. E poi ci troviamo, magari, con un partner che non amiamo e con il quale non condividiamo più nulla perché l’obiettivo sul quale ci eravamo concentrati erano i figli ma loro sono volati via . E poi, magari, mentre aspettiamo che migliori accade ancora qualcosa di peggio come un intoppo di salute, un incidente, un grande dolore, una perdita. E noi stiamo aspettando che qualcosa di meglio accada e la vita trascorre;  ogni giorno qualcosa accade ma la vita non è ciò che accade ma ciò che facciamo noi con quello che ci accade. Non abbiamo alternative. Il passato bianco o nero che sia lo dobbiamo lasciar scorrere per vivere il presente…e provare a essere felici ora.

Ma se non cominciamo a vivere una vita piena e felice ora quando cominciamo?

Ogni giorno si presenterà qualcosa e ogni giorno la dovremo affrontare. Tanto vale accettare la realtà che abbiamo e decidere di essere felici qualunque cosa accada. Non c’è un mezzo per essere felici ma è la felicità è il mezzo che ci rende tali. Quindi apprezziamo ogni istante che la vita ci regala, soprattutto, quelle piccole cose che ci sembrano banali ma che sono quelle che danno un senso alle giornate belle.

La apprezzerete ancora meglio se avete una persona con cui condividere e dividere i momenti preziosi che la vita vi presenta ma si può essere felici anche con sè stessi.

Dobbiamo cambiare atteggiamento e non  aspettare di finire la scuola, di fare la patente, di avere la macchina, di dimagrire, di avere un lavoro, di sposarci, di avere figli, di aspettare che crescano, di andare in pensione.

Smettiamo di aspettare perché mentre noi aspettiamo il tempo non aspetta continua la sua impietosa conta.

E passa.  Trascorre e la lancetta gira.

Smettiamo di aspettare e decidiamo che non c’è momento migliore per essere felici che il presente.

Capiamo cosa ci rende felici e imbocchiamo quella strada anche se presuppone coraggio e impegno: una persona, un lavoro, un luogo, un’emozione, un dono ………

La nostra vita è un viaggio di sola  andata e in questo viaggio meritiamo di essere felici ma soprattutto dobbiamo avere coraggio di non aspettare ma di esserlo ora.

Tra le più belle poesie sulla felicità c’è  l’Ode al giorno felice di Pablo Neruda  un vero e proprio inno alla felicità nel suo significato più profondo. La felicità che va goduta in compagnia di chi si ama

 

Questa volta lasciate che sia felice,

non è successo nulla a nessuno,

non sono da nessuna parte,

succede solo che sono felice

fino all’ultimo profondo angolino del cuore.

Camminando, dormendo o scrivendo,

che posso farci, sono felice.

Sono più sterminato dell’erba nelle praterie,

sento la pelle come un albero raggrinzito,

e l’acqua sotto, gli uccelli in cima,

il mare come un anello intorno alla mia vita,

fatta di pane e pietra la terra

l’aria canta come una chitarra.

Tu al mio fianco sulla sabbia, sei sabbia,

tu canti e sei canto.

Il mondo è oggi la mia anima

canto e sabbia, il mondo oggi è la tua bocca,

lasciatemi sulla tua bocca e sulla sabbia

essere felice,

essere felice perché sì,

perché respiro e perché respiri,

essere felice perché tocco il tuo ginocchio

ed è come se toccassi la pelle azzurra del cielo

e la sua freschezza.

Oggi lasciate che sia felice, io e basta,

con o senza tutti, essere felice con l’erba

e la sabbia essere felice con l’aria e la terra,

essere felice con te, con la tua bocca,

essere felice.

 

Alberta Bellussi

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Sarde in saor alla veneta
Dosi per 4 persone: 600 gr di sarde, olio di arachidi, sale.

 

Per la marinata (saor):
250 gr di cipolla, 1 cucchiaio di uvetta di Corinto, 1 cucchiaio di pinoli, 1/2 litro di buon aceto di vino rosso, 1/2 litro di vino bianco secco, 3 cucchiai di olio di oliva, sale, pepe in grani.
Mettere a bagno l’uvetta nel vino.
Pulire le sarde, infarinarle e friggerle, salarle e asciugarle su carta assorbente.
In un’altra padella metter a freddo i 3 cucchiai di olio, qualche cucchiaio di vino, le cipolle affettate molto finemente, salarle e far stufare molto lentamente.
Quando sono morbide aggiungere l’uvetta, i pinoli, il vino, l’aceto, salare e lasciar sbollire la marinata per alcuni minuti. Sistemare le sarde in una terrina e ricoprirle con metà della marinata. Ripetere un secondo strato. Lasciar riposare il saor per alcuni giorni nella parte più bassa del frigorifero.
Gustare con della buona polenta abbrustolita.

dal ricettario di Claudio Rorato

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Sai dove nasce la parola Spritz?

Una curiosità frivola…

Non c’è giornata in cui non si entri in un bar e non si senta richiedere uno Spritz.

Lo spritz, chiamato comunemente  spriss o sprisseto, è l’aperitivo più comune  del Nordest.

La ricetta la sanno tutti ma lo spritz, come il caffè,  ha varie personalizzazioni più acqua, più  Prosecco,  con  Aperol o Campari o Martini e una spruzzata di selz o senza.

Insomma la ricetta è quella ma la storia qual è?

Lo spritz sarebbe nato nell’Ottocento, durante il periodo della dominazione Asburgica in Veneto.

I soldati, i lavoratori e i diplomatici dell’impero asburgico si erano  presto conformati all’abitudine veneta di bere vino in osteria però erano disabituati alla gradazione troppo elevata dei vini nostrani e quindi erano  soliti chiedere agli osti di spruzzare un po’ d’acqua nel vino.

 “Spritzen!”, infatti, in tedesco  è “spruzzare”;  l’oste serviva un bicchiere di vino diluito con acqua, il neonato spritz era semplice e di poche pretese.

Nei primi anni del ‘900, l’abitudine dello sprissetto rimane  e  iniziano a diffondersi i sifoni per l’acqua di Seltz, acqua gassata con un particolare procedimento di addizione, grazie a cui fu possibile rendere frizzante anche lo spritz composto da vini fermi e dal basso grado alcolico.

Questa evoluzione fu molto gradita  alle nobildonne austriache che sorseggiavano con gusto una bevanda leggera, dotata di quel tocco di sofisticazione in più dato dall’aggiunta di selz.

Questa era solo la prima delle molte ricette creative che hanno fatto nascere molte varianti legate al territorio o  all’estro del barista.

Non avendo una ricetta ufficiale lo spritz lascia spazio alla creatività.

C’è chi calibra le aggiunte in modo da preservarne la colorazione rossa e c’è chi rimarca il colore diverso come nota distintiva. Esempio più noto: lo spritz bianco, ottenuto dall’aggiunta di Martini bianco.

Lo spritz rosato si ottiene invece sostituendo al prosecco un vino rosè e aggiungendo, a piacimento, sciroppo di rose. C’è poi chi si sbizzarrisce con l’aggiunta di frutta, facendo virare l’aperitivo sullo stile del cocktail estivo.

Spazio alla fantasia e Buona estate.

Alberta Bellussi

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 Il Veneto è ricco di cose molto interessanti, i labirinti sono una di queste.

Nella nostra Regione ce ne sono diversi e ben conservati; sono davvero delle   straordinarie architetture vegetali.

Il primo e anche il più famoso   quello di Strà, è sito nel giardino di Villa Pisani. La sua forma è circolare, inscritta in un quadrilatero irregolare. È un labirinto a scelte, cioè un irrigarten; l’ingresso uscita è sulla base del quadrilatero. Si tratta di un tipico labirinto d’amore, le cui prime forme compaiono in Francia tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400 con il nome di Maison Dèdalus.

Il secondo è a Valsanzibio, nei Colli Euganei, nella Villa Barbarigo. Ha forma quadrata con belvedere centrale a cui si accede direttamente; l’ingresso e l’uscita non coincidono e si trovano al centro, alla base del belvedere.

A Verona, nel giardino di Palazzo Giusti, si trova il terzo labirinto veneto, più piccolo degli altri e con le siepi che non superano il metro d’altezza. La forma è quadrata, a 11 spire, con sala quadra al centro, senza torretta o belvedere e con un solo percorso, con andata e ritorno per la stessa via.

Uno molto grande si trova a Socchieva, alle porte di Belluno, nella Villa Paganigaggia. Il labirinto è la copia di quello di Strà per la forma, le dimensioni e la torretta centrale; il percorso è invece estremamente semplificato.

L’ultimo arrivato è il Labirinto Borges della Fondazione Cini, un labirinto arboreo creato per celebrare e ricordare lo scrittore argentino Jorge Luis Borges a 25 anni dalla morte. Il Labirinto Borges, ricostruzione del giardino-labirinto che l’architetto Randoll Coate progettò in suo onore. L’immagine del labirinto è centrale nella poetica di Jorge Luis Borges. Essa costituisce un’allegoria della complessità del mondo, la cui intelligibilità non è afferrabile attraverso la sola ragione.

L’opera è stata realizzata dalla Fondazione Cini, che si trova sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia. Il Labirinto è stato pensato come un terzo chiostro, dopo il Chiostro del Palladio e il Chiostro dei Cipressi. Il giardino, che davanti a sè ha il bacino di San Marco, occupa un’area di 2.300 metri quadrati, per quasi 3 km lineari di sviluppo delle siepi. Le piante di bosso sono tagliate ad un’altezza di 75 centimetri da terra.

Se pensiamo al passato, il primo labirinto che conosciamo è quello legato al mito di Cnosso.  Apollodoro, scrittore del I secolo a.C., ci descrive la storia di Teseo il quale, grazie alla complicità di Arianna, riesce a uccidere il terribile Minotauro (il mostro metà uomo e metà toro), nascosto al centro del dedalo di Cnosso, a Creta, e a trovare poi la via d’uscita.

Il labirinto è un simbolo che ricorre con enorme frequenza nella storia dell’umanità. Esso è presente in culture, miti e religioni più disparate, ma anche nell’arte e nella filosofia. La storia dei labirinti è complessa, intricata e affascinante, così come lo sono i percorsi che li strutturano. Essi compaiono in civiltà ed epoche diverse ed in luoghi lontani come il Perù, Creta, l’Egitto, l’India, la Grecia, la Cina, e l’Europa.

Alla fine, poi, a livello simbolico ciascuno di noi si rapporta con il proprio labirinto.

Incontrando numerosi ostacoli nel corso della vita e tentando di superarli, non facciamo altro che iniziare un percorso di crescita entrando e uscendo di continuo da labirinti quotidiani.

Il messaggio iniziatico del labirinto è presente in ogni istante del nostro vivere.

 Ma, tra i molti interrogativi che possiamo porci, uno merita particolare attenzione: qual è la via di uscita del labirinto?          

Alberta Bellussi

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Ma lo sapevi che la parola  CIAO…è di origine veneta?

Questo termine di saluto amichevole della lingua italiana ormai lo sentiamo pronunciare in molte parti del mondo; si è diffusa ovunque, infatti, a seguito delle migrazioni degli italiani, ed  è una delle parole della lingua italiana più conosciute al mondo. E’ entrata come saluto informale anche nel lessico tedesco, francese (tschao), ungherese (csáo), lo spagnolo (chao), portoghese (tchau), albanese (çao/qao), bosniaco  (ćao), bulgaro, macedone, russo (чао  / čao), ceco, lettone (čau), esperanto, slovacco, sloveno (ĉaŭ), estone (tšau), lituano (čiau), maltese (ċaw), rumeno (ciau), serbo, croato ( ћао,  ćao ), turco (çav), vietnamita chào.

L’origine di questa parola però è, forse, meno nota.

Ciao viene dal dialetto veneto, precisamente da s-ciavo. S-ciavo (successivamente contrattosi in s-ciao e poi in ciao) significa ‘schiavo’, che deriva a sua volta dal neolatino sclavus, ovvero schiavo.

Era usato dai servi nell’atto di rivolgersi ai loro padroni nella Venezia del ‘700. Il significato del saluto, com’è facile intuire, equivaleva a: ‘servo suo’, ‘ai vostri ordini’.Anche attualmente, In Austria e in Baviera un comune saluto è “servus” e anche in italiano qualcuno dice ancora “servo suo!”

Ma così come altre espressioni di saluto – ad esempio “servo suo” – si usava per esprimere rispetto profondo, rispetto che si desiderava rinnovare ad ogni incontro mettendosi simbolicamente a disposizione dell’altro come un servo, come uno schiavo ora è, invece, un saluto informale.

L’espressione «schiavo vostro» o «servo vostro», comune secoli fa, si ritrova, tra l’altro, nelle commedie di Goldoni (1707-1793)in cui viene pronunciato con superiorità da nobili altezzosi e cicisbei; ne ‘La locandiera’, ad esempio, il Cavaliere di Ripafratta si congeda dagli astanti con «Amici, vi sono schiavo».

“Ciao” è infatti entrato nella lingua italiana solo nel corso del Novecento.

Questa parola, ora, rappresenta in tutto il mondo l’italianità; un saluto ormai divenuto internazionale e riconosciuto ovunque che si potrebbe pensare di non considerare più solo informale e strettamente confidenziale, ma adatto ad un numero di circostanze ben  più ampio.

Alberta Bellussi

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Alvisopoli!

Non sapevo  dov’era e non ne conoscevo i segreti e le curiosità.

Un libro regalato mi ha aperto una finestra su una piccola pagina di storia veneta che non conoscevo.

Mi è parso strano perché da sempre sono curiosa delle cose bizzarre del Veneto e del mondo. Ma Alvisopoli mi  è proprio sfuggita.

Sulle Tracce di una rosa perduta” di Andrea di Robilant, erede di Lucetta Memmo, è il titolo del libro che mi ha permesso questa nuova conoscenza.

Beh la storia rocambolesca di questa rosa mi ha intrigato e ho pensato di raccontarvela.

E’ una rosa antichissima di una specie quasi sicuramente estinta, sopravvissuta allo stato inselvatichito nel bosco ultra bisecolare di Alvisopoli.

La pianta, secondo precise testimonianze documentate nel libro, da Parigi era stata portata ad Alvisopoli dalla  nobildonna veneziana Lucietta Memmo, consorte di Alvise, e impiantata nel bosco-giardino di Alvisopoli, nel primo decennio dell’Ottocento.

Alvisopoli era stata realizzata nei primi anni dell’Ottocento dal nobile veneziano Alvise, un cultore degli ideali illuministici del tempo, che aveva fatto costruire in un ampio possedimento di famiglia, nelle vicinanze di Fossalta di Portogruaro, una mitica città utopica, autonoma sul piano istituzionale, sociale, economico, culturale, architettonico e religioso.

Per dare un cenno della sua importanza basti dire che ad Alvisopoli era stata impiantata una tipografia gestita inizialmente dal mitico tipografo Niccolò Bettoni, più tardi editore della celeberrima traduzione dell’Illiade (1810) di Vincenzo Monti e nel 1807 della prima edizione dei “Sepolcri” l’immortale capolavoro di Ugo Foscolo.

Nel bosco di Alvisopoli  è stata rinvenuta questa  interessante “rosa antica”. Sfuggita, con l’abbandono del parco, alla coltura giardiniera, si comporta oggi come una specie di sottobosco, con una discreta presenza di esemplari anche in zone molto ombreggiate. Questa rosa appartiene al cosiddetto gruppo delle “Rose cinesi” e assomiglia molto a un’antica rosa denominata “Le Vesuve”, importata da Parigi per l’appunto da Lucietta.

E’ una rosa molto particolare  il fiore varia di colore da un rosso intenso del bocciolo al rosa, per diventare da ultimo bianco e candido. Fiorisce due volte all’anno, in inverno e in primavera.

Secondo molti botanici  potrebbe trattarsi di esemplari unici.

 La rosa non ha un nome ma molti l’hanno battezzata “Lucetta” dal nome della nobildonna che ebbe cura di trasportarla da Parigi, assieme a tante altre piante di fiori, fino al bosco di Alvisopoli. Sarebbe un modo appropriato per ricordare questa nobildonna veneziana dal “pollice verde”, innamorata della natura.

Nel 1813 muore Alvise, poi è rimasta a Lucetta la gestione dell’area, come è scritto nel libro dell’ultimo erede di Lucia Memmo, Andrea di Robilant, il quale racconta la storia di questa rosa pregiata.

Il WWF aveva una concessione con l’Ater proprietario dell’area e anche del bosco che gestiva a sue spese, in cambio dell’affitto di alcune stanze all’interno della Villa Mocenigo. Quando il WWF non potè più utilizzare gli obiettori di coscienza che lavoravano gratuitamente per il WWF al posto del servizio militare non riuscì più a tenere in ordine il bosco e tutto andò in degrado.

Pare che adesso intervenga il Comune che ha ottenuto un finanziamento per il recupero e la gestione del bosco che potrà di nuovo essere riaperto al pubblico.

 La rosa ha resistito dall’Ottocento ad oggi passando attraverso la storia, i passaggi di proprietà e gli eventi del mondo e  continuerà  a sbocciare anche in futuro. Meriterebbe di essere valorizzata, conosciuta, anche riprodotta.

Alvisopoli e la rosa rarissima erano inserite in un circuito nazionale, per cui ogni anno avevamo migliaia di visitatori. Uno strumento di conoscenza del territorio, una vera e propria eccellenza.

A Fossalta di Portogruaro c’è l’unico esemplare al mondo di una rosa fantastica che abbiamo chiamato  “Lucetta”e Alvisopoli,città utopistica, con le sue mille cose interessanti cadute in degrado, sempre per il solito motivo, la mancanza di risorse.

Speriamo davvero ci sia un intervento che renda, di nuovo, visitabile questo luogo e che protegga questa rosa dal vestito delicato e bizzarro  ma al tempo stesso forte e coriacea da resistere nei secoli.

Alberta Bellussi

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Bigoli in salsa  alle noci

Piatto veneto antichissimo

Ingredienti per 4 persone:

350 grammi di bigoli freschi all’uovo in alternativa usare i bigoli mori di Castelfranco.

70 grammi di gherigli di noci

40 grammi di pan grattato

30 grammi di burro

1 cucchiaino di zucchero di canna

1 pizzico di cannella in polvere (se piace, altrimenti ometterla)

Sale, pepe nero macinato fresco, noce moscata Olio d’oliva Extra vergine q.b.

Storia:

Tra i primi piatti, senza ombra di dubbio la pasta è l’elemento più diffuso nella cucina del Veneto. E’ la base della maggior parte dei primi piatti asciutti. Sono tenuti in gran conto i bigoli – ruvidi spaghetti di pasta fresca, fatti con farina di grano duro rimacinata o di farine integrali o miste e acqua salata, un tempo senza l’aggiunta di uova. In passato venivano preparati con il “ bigolaro”, un antico attrezzo a vite, che serviva a pressare questi grossi spaghettoni. Oggi comunque, vanno preparati con l’aiuto delle macchine per pasta fresca “presse”, che ci premettono trafilare a bronzo ottimi bigoli in diverse misure. La misura di sempre va da 2 a 3 mm di diametro .

Preparazione:

Preparate innanzitutto l’acqua per la cottura della pasta, perché i nostri bigoli grossi interamente di semola di grano duro, essendo all’uovo, ci metteranno parecchio tempo a cuocersi. Frullare nel finemente le noci con lo zucchero, la cannella e un po’ di noce moscata grattugiata finemente. Se serve a favorire l’operazione aggiunger un goccio di acqua. Salate, pepate e mescolate con cura. Prendete una padella e sulla fiamma bassa lasciateci rosolare il burro, aggiungete il pangrattato e fatelo tostare. Versate il trito in una padella con il pangrattato e rimestate ancora. Lasciate da parte. A questo punto, scollate la pasta bene al dente ma tenetevi da parte un po’ di acqua di cottura che servirà per ottenere la salsina. Verste la pasta nella salsa di noci, aggiungete a piacere l’acqua di cottura un po’ di olio d’oliva extravergine e servite ben caldo.

Buon Appettito!

dall’archivio delle ricette storiche di Claudio Rorato

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Cara Italia,
ti scrivo questa lettera d’amore perché sono un’innamorata smarrita.
Follemente innamorata, inebriata dalla totalità della tua bellezza che a volte è così esagerata da farmi rimanere senza fiato e
assorta a guardarti con gli occhi trasognati.

Sembra che tu sia l’opera d’arte uscita dalle mani di un’artista divino che non ha tralasciato neanche un particolare, che ha usato tutta la tavolozza per riempire di sfumature questa bizzarra tela.

La tua forma era già il presagio della tua stravaganza: sei uno stivale accarezzato da tre mari e ancorato al Continente dal gioiello delle Alpi.

Non sei uno stivale qualsiasi! Sei sinuosa nelle tue forme e sensuale. Lungo la tua silhouette sei agghindata di isole e isolette che ti rendono ancora più attraente.

Sei donna, una donna affascinante.

A guardarti dall’alto sembri la trina di uno splendido merletto uscito dalle mani di una ricamatrice che, in ogni tua  parte, ha usato fili variopinti e tutti i punti di ricamo conosciuti.

Sei piccina  ma non sei mai stata timida; la tua personalità forte, determinata è emersa subito. Hai conquistato il mondo con la tua eleganza, la tua cultura, l’arte, il gusto estetico, la bellezza naturale, la genialità di chi ti ha popolata, la creatività, i frutti della tua terra, la meraviglia dei tuoi prodotti, la musica classica, il teatro, le canzonette, la solarità della tua gente.

Quando sono venuta al mondo, da subito, ho capito che ti amavo follemente e che non c’era un altro posto al mondo nel quale avrei voluto nascere. L’aria di campagna del mio amato Veneto  mi ha cresciuto e mi ha plasmato ai valori deI rispetto per le persone e per la vita. E solo qui poteva avvenire questo.

L’artista folle e divino che ti ha creato ha deciso che proprio sulla trama del tuo merletto sarebbero state ricamate Venezia, Firenze, Roma ma anche Siena, Torino, Trieste, ma anche Asolo, Taormina, Gubbio, ma anche Oderzo e Portobuffolè  ma anche Borgo Malanotte e Tempio di Ormelle, ma anche…ma anche…ma anche un’infinità di altre meraviglie.

Ha deciso che dalle forme materne e burrose del tuo corpo sarebbero nati Dante, Leonardo, Giotto, Galileo, Caravaggio, Palladio, Tiepolo, Canaletto, Leopardi ma anche Verdi, Puccini e Morricone ma anche… ma anche… ma anche  tantissime altre meraviglie.

Ma sono nate, anche, un sacco di brave persone che si sono date da fare per uscire dalle sofferenze delle guerre e della miseria; che hanno creato imprese e aziende famose in tutto il mondo.

Ora stai soffrendo e io sono smarrita.  Non vorrei che tu soffrissi. I contorni del tuo corpo sono accarezzati da una splendida mano azzurra;  i tuoi seni, i tuoi glutei, le tue carni, sono aride ma lì dove le goccioline ti rinfrescano sei verdeggiante e viva.  Comunque tu soffri le scelte di chi non ha saputo tutelare la tua bellezza. Soffri il disamore  di chi ti ha svenduto e violentato per quattro soldi.  Soffri la rassegnazione e  la stanchezza della tua gente. Soffri la prepotenza e l’arroganza di chi ti vuole rovinare e non ti ama. Soffri l’incomprensione dei potenti che soffocano la tua libertà e la tua creatività e vogliono metterti il cappio.

Riscattati, ribellati, fai splendere il tuo corpo. Rinasci! Liberati dalla sofferenza che deturpa la tua meravigliosa bellezza e la tua personalità.

Io ti aiuto, ti difendo… ci provo…ce la metto tutta ma sono  smarrita non posso salvarti da sola ma ce la metto tutta te lo prometto.

Con amore

Alberta

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Hai mai abbracciato un albero?

Oggi si parla di abbracci e carezze. E si dai concedetemi questa deviazione romantica, dopo tutti i pezzi di argomenti ambientali molto impegnativi, che invitavano a riflessioni profonde sulle sorti del Pianeta. La mia predilezione per gli  abbracci e le carezze è nota a chi mi conosce. Penso siano tra i gesti della vita quotidiana portatori di grandi benefici, capaci di regalare una forma di conoscenza che va oltre l’aspetto materiale della vita. Quando abbracci una persona hai la percezione immediata del suo rapporto con la sfera emotiva. Chi ti avvolge, di solito, è una persona capace di esprimere qualsiasi sentimento o emozione che prova; chi, invece, reagisce come un baccalà quasi impaurito dalla morbidezza del tuo abbraccio, ha spesso problemi con il suo lato emotivo emozionale. È stato provato che il bisogno emotivo di contatto è una necessità fondante per la nostra esistenza. La sua assenza provoca insicurezze, ansia e disturbi dello sviluppo e nelle altre fasi della vita; lo scienziato statunitense Harlow ne studiò la sua importanza. Sono diversi i buoni motivi per incrementare questa modalità di comunicazione nelle nostre relazioni. Il cervello ha bisogno di coccole e contatto; la concentrazione di alcuni ormoni ipofisari lo prova. Le affettuosità innalzano il livello di ossitocina, ormone del benessere che riduce ansia e paura e dona sensazione di calma e positività. Ma non solo le persone si possono abbracciare per trarne beneficio: tutto si può abbracciare. Non vi nego, che difronte alla bellezza di alcune colonne romane o greche, ho ceduto alla meravigliosa tentazione di avvolgerle per rubare loro un pò di storia. Mi scappa, spesso, qualche carezza furtiva per sfiorare la sinuosità dei marmi lavorati delle chiese o alle tele con gli oli materici. Questi gesti mi regalano una forma di conoscenza sensoriale che va oltre l’aspetto culturale va ad arricchire la mia sfera emozionale. E gli alberi li avete mai abbracciati? Io si! Ve lo consiglio. Si chiama Silvoterapia quando abbracciare gli alberi fa bene al corpo e alla mente riscoprendo il contatto diretto con la natura. E’ questa un’antichissima arte celtica che aiuta a ritrovare l’equilibrio sfruttando l’energia positiva delle piante. Con silvoterapia non si intende soltanto la pratica di abbracciare un albero, ma anche il soggiorno in luoghi boschivi, che viene proposto in particolare a chi soffre di asma bronchiale, bronchite cronica, ipertensione arteriosa, nervosismo e insonnia. L’aria dei boschi è benefica perché contiene notevoli quantità di ioni negativi di ossigeno, che aiutano a stimolare e armonizzare i processi vitali e la sfera psichica e emozionale. Gli alberi sono tra le cose che noi diamo per scontate. La loro funzione la conosciamo tutti, è quasi banale spiegarla, e non ci soffermiamo mai sul loro enorme valore per la nostra vita. Le piante assorbono la luce e la trasformano in nutrimento vitale per gli esseri umani. Le loro radici sono in contatto con la terra e con la chioma interagiscono con l’Universo, assorbono l’anidride carbonica e producono ossigeno per la vita. E’ risaputo da millenni che negli alberi si uniscono le energie della terra e del cielo in un binomio positivo. Nelle culture celtiche i grandi alberi erano luoghi di guarigione e di preghiera. Nella cultura cristiana il grande albero è visto come manifestazione di Dio con la sua crescita verso l’alto ambisce alla Luce. Per non parlare della tradizione dell”Albero della Vita” presente in tutte le culture e religioni capace di guarire le malattie e di dare l’immortalità. Gli alberi monumentali sono delle vere e proprie opere d’arte che sono stati testimoni di secoli di storia e hanno contribuito agli essere umani di proseguire con la loro specie. Sono stati compagni di gioco e quando eravamo piccini erano il nostro rifugio, la nostra casa sospesa; io da bambina biricchina qual’ero scappavo spesso sopra il mio ciliegio preferito o il larice e come un condottiero di un veliero osservavo il mondo da li e scappavo a mia mamma per ore. L’albero è tutto ciò; ha mille connotazioni ed è carico di energia. Quando lo abbracciamo proviamo ad entrare in una nuova connessione con la natura. E’ con il contatto che iniziamo a sentire meglio l’energia che può donarci. Magari tutto ciò può sembrare folle e stimolare in voi pensieri ilari e umoristici ma provare non costa nulla e potrebbe essere un ‘esperienza nuova e unica. Solo l’idea di sperimentare una sensazione bella e nuova ci aiuterà comunque fin da subito a sentirci meglio. #Abbracciaaccarezzasiifelice#

Alberta Bellussi