Follow Me

Close
By

Andémo béver un’ombra in un bàcaro

Quante volte si sente dire : “Ciò, Andémo béver un’ombra!”…

E’ questo un invito conviviale molto usato in Veneto e si tramanda da generazioni. Davanti a un “ombra” cioè a un bicchiere di vino si fanno quattro chiacchiere con gli amici, si concludono affari, ci si rilassa per spezzare la giornata.

 

Ma da dove deriva questa espressione?

Il termine  risale  alla fine del secolo quattordicesimo quando, attorno al campanile di S. Marco, venivano montate molte   bancarelle  di legno che proponevano varie attività commerciali: rigattieri, panettieri, spezieri e osterie. La Piazza era infatti il luogo ideale per incontri e chiacchiere, solitamente accompagnate da un buon bicchiere di vino. I mescitori di vino avevano molto lavoro; loro per  non rovinare il prezioso liquido di Bacco e mantenerlo sempre fresco anche nelle stagioni più calde,  spostavano la loro bancarella attorno al Campanile, inseguendo la sua ombra man mano che si spostava il sole. Il vino, per essere buono, doveva rimanere all’ombra e così il bicchiere di vino prese il nome … l’ombra.

Un’altra spiegazione simile nel contenuto ma diversa nella contestualizzazione poggia le sue basi nella civiltà contadina. Tempo fa i contadini al momento della mietitura si alzavano molto presto e verso le 9/10 erano 4/5 ore che lavoravano di falce, il sole a picco …..a quell’ora le donne portavano la merenda ( polenta e ….poco altro).
Ecco che allora si disse :
‘Ndemo farse un ombra…vale a dire : andiamo all’ombra di un albero e bere un bicchiere di vino e a mangiare.
Cit Marino Panto

Un tempo  si diceva: “Andémo béver all’ombra”, che con la trasmissione orale divenne : “Andémo béver un’ombra”.  Questo modo di dire è tutt’ora molto vivo e molto usato in tutto il Veneto.

E “l’ombra” a Venezia si beve nel bàcaro.

L’etimologia dell’appellativo bàcaro è alquanto controversa, nel corso degli anni, infatti, si sono affermate 4 teorie sulla sua origine:

  • secondo la prima il termine bàcaro deriva dal nome del dio romano del vino e della vendemmia: Bacco;
  • una seconda teoria fa desumere il nome dalla tipica espressione veneziana “far bàcara“, che letteralmente significa “far festa”; si fa risalire, infatti, a una esclamazione di un gondoliere che un giorno, assaggiando un nuovo vino venuto dal sud Italia, esclamò: Bon, bon! Questo xe proprio un “vin de bàcaro”. L’espressione veneziana “far bàcara” equivale a far baldoria, mangiare e bere in buona compagnia: quindi un “vin de bàcaro” non può essere che un vino adatto a questo scopo. Secondo questa leggenda, riportata da Elio Zorzi nel suo libro “Osterie Veneziane´ del 1928, il gondoliere avrebbe creato un nuovo termine, che si trasmise poi ai locali di mescita di vino sfuso;
  • bàcari pare che venissero chiamati anche i venditori di vino in botte a Piazza San Marco;
  • l’ipotesi meno probabile è quella che il nome derivi da un vino pugliese del ‘700 particolarmente apprezzato nella città, vino appunto chiamato bàcaro.

Alberta Bellussi

By

“Buongiorno un caffè corretto grazie!”

“Quant’è?”

“Un euro Ioanina come sempre”.

E la Ioanina   tira fuori dalla sua borsa “magica” la carta di una caramella tutta piegata e mi paga.

Faccio un sorriso, come ogni giorno,  e ritiro “ quei soldi” del caffè. Eh sì!  E’ proprio così la Ionanina è piena di carte che per lei sono miliardi. Lei è un’esile vecchietta molto bizzarra “nel suo che”. Indossa abiti un pò lisi, porta sempre gli orecchini e si mette il rossetto un po’ sulle labbra e un pò sulla dentiera ma si capisce che era una donna di classe. Vive nella Casa di Riposo del paese ma scappa via, spesso, a bordo della sua storica bicicletta.  Tutte le mattine arriva al bar per il caffè e per raccontare le storie del suo passato. Sì, perché, il racconto del mattino per lei è, ormai, un bisogno a cui non può rinunciare.

Il bar del paese per la “signora” come ama definirsi, è un po’ come la sua casa, che non ha più, e i clienti: i suoi parenti. Lì si sente protetta e al sicuro. Quando  inizia a parlare di sé, anche i muri potrebbero continuare quel racconto. I clienti del bar  l’hanno sentito milioni di volte, ma nessuno interrompe Ioanina.

Lei conosce tutti quelli che frequentano il bar, tutti la salutano con un sorriso, e le prestano “un orecchio” per qualche minuto. Ognuno fa un piccolo turno di ascolto e lei è felice, si sente importante. Un tempo, la signora Ioanina era una nobildonna di famiglia ricca; almeno così lei racconta.

Poi apre la sua borsetta da cui non si separa mai. E’ una borsetta  magica perché è piena di miliardi.  Inizia a tirar fuori tutto quello che contiene e a contare le sue piccole e grandi carte: no scusate, non carte ma soldi, lei vede. Cento, duecento, trecento insomma nella sua borsa sono contenuti milioni di lire. Lire, per lei sono rimaste le  lire. Non è facile spiegare a una bizzarra anziana di 93 anni che le lire sono sparite perché si rischia di non uscirne fuori. In fondo che le sue carte siano soldi è stato accettato da tutti. E’ curioso che i cosiddetti  “normali” abbiano accreditato la sua follia. Gli esercenti del paese accettano, a pagamento dei piccoli acquisti della Ionania, quegli insoliti  “soldi”. Lei non ha grandi esigenze: caffè corretto, qualche bicchierino di vov o punch, qualche giornale. Lei è convinta di essere molto ricca e che, come nobildonna, deve essere trattata con riguardo.

Quando siamo soli io e lei, allora, si mette a piangere e mi dice quanto fosse bello quel  militare che le aveva  rubato il cuore. Parla di questo amore come se fosse ancora vivo. Quando racconta i piccoli occhi verdi,  secchi dall’età, d’improvviso si inumidiscono e si emozionano. Suo padre era severo e geloso della figlia  e non voleva assolutamente che la “sua principessa” finisse tra le braccia di quell’umile fante di campagna. Era bello, moro…insomma un fusto, il suo militare.

Si è fatto mezzogiorno in Casa di Riposo si mangia a quest’ora.

“Ioanina ti conviene andare sennò salti il pranzo”.

Attratta dal richiamo del cibo lei sale in sella alla sua bicicletta e intanto  si asciuga l’ultima lacrima. Una lacrima  che evoca la sofferenza di una vita per quell’amore negato sul quale lei ha immaginato racconti romanzati,  ha riposto sogni e aspettative e si è sentita, un giorno,  donna desiderata.

Accenna la prima pedalata mentre il suo volto torna malinconico alla triste realtà.

“Ciao Ioanina a domani”.

La giornata continua ognuno va per la sua strada, ma il bar del paese rimane sempre un punto fermo.

Il bar della Piazza del paese è un po’ il punto di ritrovo delle persone più fragili della comunità e anche di quelle più  sole. Si trovano bene in questo posto perché si sentono protette. In fondo la comunità si prende cura di loro perché proprio per quella bizzarra follia che li distingue sono persone che lasciano il segno e verso cui provi simpatia e tenerezza.

Accade così che “i normali” si trovino quotidianamente a essere catapultati dentro le stranezze “dei diversi” e  le assecondino come in un patto segreto. Una realtà  nuova che fa entrare “i normali”  per qualche momento nel  mondo “dei diversi”. Quasi una surreale commedia umana della vita dove cadono  maschere, muri e ipocrisie.

Nel pomeriggio è solito passare per il paese un personaggio strano che sembra uscito da un tempo remoto… l’è el vecio dee scoaze che passa con il suo carretto di legno trascinato da Furia un vecchio e stanco equino nero. Urla al suo passaggio: “ Carta, straze e fero vecio”.   Al vecchio potrebbero attribuirgli il premio per essere uno dei primi in assoluto ad aver capito l’importanza della raccolta differenziata. Nel suo carretto, da anni e anni, raccoglie rifiuti di qualsiasi tipo e li differenzia…carta, plastica, vetro e qualsiasi altra cosa di cui ci si voglia liberare. Addirittura quando il cavallo esercita i suoi bisogni fisiologici, il vecchio si ferma, e li raccoglie per usarli come fertilizzante per il suo orto.  Tutti sanno quando passa e se  hanno qualcosa lo mettono fuori del cancello e lui  carica e differenzia. A el vecio dee scoaze non interessa molto parlare di lui; ha sguardo serio e concentrato sulla sua raccolta. Porta, in tutte le stagioni, un capello di panno in testa e non accenna mai un sorriso. L’unica creatura alla quale si rivolge con un po’ più d’amore è il suo vecchio e fidato cavallo Furia; è un’intesa di quelle che dura da una vita, costruita giorno dopo giorno. Periodicamente il vecchio passa davanti al bar. Arresta il suo cavallo e aspetta il bicchiere di acqua e menta che le offro nelle giornate afose d’estate. Anche lui, con le sue scandite abitudini, è parte della comunità e anche lui è stato regalato quell’abbraccio che alla fine riscalda e protegge. Un calore umano tipico dei piccoli paesi. Paesi che hanno una strana personalità; abitanti critici e pettegoli sulle cose altrui; spietatamente maldicenti, curiosi e bramosi di riportare la notizia del momento con creativa ricchezza di particolari, anche molto coloriti e ingigantiti, ma dall’altro canto sanno diventare profondamente umani e protettivi con le persone fragili, indifese e bisognose di sostegno.

Mi giro e butto lo sguardo fuori dalla grande vetrata del bar. Vedo catapultarsi, in un gesto simil-eroico, dentro un auto, con il finestrino aperto, il mio caro amico Gino Bicicletta. Lui si sente uno dei protagonisti del telefilm Hazzard, ma non si sa bene quale. Queste incursioni eroiche ogni tanto hanno buon esito e contribuiscono ad aumentano il suo ego da eroe.  Fa tutto questo perché poi entra al bar e racconta la sua epica avventura come fosse la vittoria alle Termopili. Accade  spesso  che queste incursioni non riescano e il bar diventa, allora, il luogo delle medicazioni.  Ma il lietmotive della vita di Gino sono sempre le biciclette. Lui le ruba da tutta una vita e poi le nasconde dentro a  casa sua.  E’ un tipo molto solare e leggero il Gino. Veste camicia attillata a quadretti e braghe jeans a zampa di elefante. Pettina i capelli come John Travolta ed è costretto a mettersi il gel perché la sua brillantina Linetti non la trova più in commercio. Per lui gli anni migliori sono stati gli anni ’60.

Quando cammina dondola un po’ e ti saluta con “UAU”.

Ma tornando alle biciclette, Gino le porta a casa sua che ne è invasa in ogni stanza. Quando la casa è proprio satura le parcheggia nel campo di mais del vicino che usa come deposito. Il problema vero si presenta nel momento della trebbiatura perché la trebbia spesso è bloccata dalla presenza delle biciclette.

La cosa più simpatica, anzi surreale, di Gino bicicletta è che, poi, lui ti rivende la bicicletta che ti ha rubato magari avendole cambiato il colore. Se trovi la tua bicicletta in mezzo a quel campo recupero devi iniziare la trattativa se vuoi riaverla. Gino ha l’occhio furbo, dell’affarista e se vede che ti interessa davvero, alza il prezzo, in un guizzo quasi da Wall Street, ma alla fine con 30/40 euro te la cavi e se ti trova al bar ti paga anche da bere per suggellare l’affare.

Mentre fuori accade tutto ciò, io sono dietro il bancone del bar e dall’altra parte arrivano Bepy e Piero. Ascolto i loro discorsi in disparte e sorrido da solo. Penso quanto sono belli questi personaggi spogliati di ogni filtro ipocrita e liberi di essere ciò che veramente sono. Sono felici di essere liberi  e di essere “folli”. Sono quei personaggi che la società moderna convenzionalmente definisce con una parola inglese “border line” cioè persone ai bordi. Io invece le definirei persone che lasciano il segno.  Quanto sterile e insignificante sarebbe il mio bar senza la loro quotidiana e ingombrante, ma vivace e simpatica presenza.

Bepy tutto emozionato racconta che l’altra sera nel campo davanti a casa sua è atterrata una grandissima astronave aliena.  Siccome lui possiede molte abilità da meccanico, il pilota dell’astronave gli ha suonato il campanello e gli ha chiesto se poteva sostituire loro un bullone. Bepy si è infilato il “tony” per non sporcarsi e ha sostituito il pezzo che faceva 20 metri di circonferenza. Piero lo ascolta, ma non gli da grandi soddisfazioni, gli sembra un’impresa normale; niente di che. Lui racconta di aver girato più volte il globo terracqueo a bordo di navi mercantili.  Piero dice a Bepy “ a mi el me par grando sto bueon par una astronave, ma no dise niet pol esser si”.  E poi chiede ancora: “ ma ei restadi contenti del lavoro?”

E’ stato un duro lavoro, racconta Bepy, però  gli alieni gli hanno dato grandi soddisfazioni e gli hanno anche fatto fare un giro di prova per verificare la solidità del pezzo cambiato.

Piero, che gli secca essere messo in secondo piano, incalza raccontando di quella volta in cui tutta la ciurma della nave era sbronza e lui ha dovuto prendere la guida del timone per far attraccare la nave al porto. La velocità di avvicinamento era troppo elevata e la nave si è fermata dentro la banchina facendo molti danni, ma lui racconta di aver portato tutti a terra sani e salvi come un grande eroe degno di onorificenze pubbliche. Bepy vorrebbe continuare a dire la sua sugli alieni, anche perché gli sembra una cosa degna di grandi attenzioni, ma Piero non lo bada e continua.  Era andato a cena con Kennedy al Collegio di Treviso ma non ricordava bene in occasione di cosa. Non fa neanche a tempo di finire questo racconto che gli viene subito alla  mente quella notte nell’Hotel di Londra dove Freddy Mercury, saputo che c’era il mitico Piero da Maren, andò in camera e gli dedicò Bohemian Raphsody.

Piero parla nove lingue, ma ora dice di non ricordare i vocaboli. Un crescendo di esperienze che gli alieni di Bepy sembrano nulla al confronto.

Mentre Bepy e Piero si confrontano su temi internazionali: alieni, Kennedy, Freddy Mercury ecc. irrompe quasi dentro il bar Tonet con il quad. Sentendo gli argomenti del dialogo dice ai due amici:” voi due siete fuori con le carte”.

“Io la settimana scorsa sono stato rapito da un’aliena che voleva un figlio da me per poter migliorare la qualità della loro razza”.
E Bepy: “ereo per caso martedì?”

E Tonet: “sì proprio”.

Bepy: “Allora era la stessa astronave che ghe ho cambià el bueon mi”.

Tonet: “credo de sì”.

In un angolo c’è Bobo che si rolla una sigaretta alternando tabacchi che a tutti quelli che entrano dice “Ehi fratello rasta” ponendo le dita in segno di vittoria.

Faccio loro tre spriz con l’aperol e mentre li preparo penso alla bellezza della vita  e a quanto queste persone, bollate come diverse da una società che ha bisogno di nascondersi dietro le false certezze della normalità, riescano in realtà ad alleggerire le mie giornate. Sono persone che vanno oltre i limiti che la società impone e ignorano le zavorre che ognuno di noi si mette addosso.

Forse per essere spensierati, in questa società pesante, bisogna essere un po’ diversi. Forse per essere liberi bisogna essere un po’ “folli”.

Alberta Bellussi

 

By

Cosa è successo al mio Veneto?

Qualche anno fa scrissi questa lettera che molti giornali pubblicarono. Ora più che mai sento il desiderio di riproporla.  E’ una lettera che esprime l’amore grande che sento per il Veneto ma che rende tangibile  il senso di smarrimento che provo a vedere come, da qualche anno, stia soffrendo davvero molto.

Mi piacerebbe condividere con voi queste mie riflessioni.

Vivo in provincia di Treviso, in quel Veneto che da sempre è stato motore e traino della storia, della cultura e dell’arte ma soprattutto dell’economica del nostro paese.

Vivo nel Veneto dello splendore della Serenissima, di personaggi la cui genialità è conosciuta in tutto il mondo da Palladio a Canova, da Tiepolo a Tintoretto, da Tiziano a Canaletto, da Cima da Conegliano a Palma il Giovane.

Vivo nel Veneto di Venezia del cui splendore e valore non si trovano parole nel vocabolario per definirla; di Verona e della sua splendida Arena; di Vicenza e il Palladio;  di Rovigo e del suo legame con il Po; di Padova città del Santo ;  di Belluno e delle splendide Dolomiti; di Treviso piccola preziosa bomboniera tessuta dall’acqua .

Vivo nel Veneto del mare, dei monti, delle piccole e grandi città d’arte, dei borghi, dei paesi con i campanili, delle colline, dei laghi, dei fiumi e delle splendide campagne.

Vivo nel Veneto del fiume Piave  dove i nostri avi hanno conosciuto  la miseria, la distruzione della guerra e la dolorosa invasione del nemico.

Vivo nel Veneto primo in Italia per la raccolta differenziata, per le energie rinnovabili, per l’innovazione.

Vivo nel Veneto del volontariato, delle Pro Loco, delle sagre e del piacere dello stare insieme.

Vivo nel Veneto delle grandi aziende vitivinicole e gastronomiche, dei prodotti agricoli, dell’asparago, del radicchio, delle ciliegie, del formaggio e molto molto ancora.

Vivo nel Veneto degli orti, delle galline sul cortile, del maiale e della mucca in stalla.

Vivo nel Veneto delle case ordinate, dei giardini curati, dei fiori sui davanzali.

Vivo nel Veneto dei mille dialetti, delle tradizioni secolari.

Vino nel Veneto delle osterie a gestione familiare.

Vivo nel Veneto dei grandi ospedali e delle eccellenze mediche.

Vivo nel Veneto dei grandi campioni dello sport.

Vivo nel Veneto delle grandi fabbriche manifatturiere, delle grandi eccellenze dell’artigianato e delle grandi industrie.

Vivo nel Veneto delle piccole imprese, delle aziende a conduzione familiare, del padre che lavora con il figlio e con i nipoti.

Vivo in un Veneto di gente che meno di 70 anni fa era nella miseria, che con dignità coraggio e rispetto si è rimboccata le maniche e si è data da fare .

Vivo nel Veneto della gente che si alzava all’alba e andava a letto a notte inoltrata con l’orgoglio di lavorare per un progetto, per un investimento sul quale  aveva creduto ma soprattutto per quel futuro certo da lasciare ai figli.

Vivo nel Veneto del miracolo economico.

Vivo nel Veneto di brava gente, gente onesta, gente con i calli nelle mani e le rughe in viso.

Ora vivo in un Veneto di gente che si uccide perché ha visto fallire i sogni di una vita ai quali ha dato tempo, energia, amore e passione.

Ora vivo in un Veneto di imprenditori con gli occhi lucidi e con il magone in gola per tirare avanti ogni mese l’attività soffocato da leggi, carte, norme, mancanza di liquidità, banche senza nessuna prospettiva di uscire dall’angoscia.

Ora vivo in un Veneto di gente triste.

Ora vivo in un Veneto di fabbriche che chiudono e capannoni vuoti.

Ora vivo in un Veneto di gente matura abituata da sempre ad avere un lavoro che con una dignità senza eguali va a pulire le strade del Comune come lavoratore in mobilità.

Ora vivo in un Veneto di gente che con grande fatica va a chiedere aiuto e sussidi alle istituzioni.

Ora vivo in un Veneto pieno di vendesi e affittasi e di cerco lavoro.

Ora vivo in un Veneto comprato dagli stranieri e dalle multinazionali.

Ora vivo in un Veneto di gente senza entusiasmo che non si mette più in gioco ma che spesso si lamenta e basta.

Non è questo il Veneto che voglio lasciare a mio figlio; i giovani hanno diritto a vivere una vita che permetta loro di avere dei sogni, delle prospettive e delle aspettative.

Non possiamo noi essere complici di aver ucciso il futuro dei nostri figli, di aver reso quella regione meravigliosa che è il Veneto un luogo di gente con gli occhi lucidi e con l’angoscia dell’incertezza di ciò che accadrà domani.

Spesso sono ancora una volta gli anziani che proprio perché hanno conosciuto le difficoltà raccolgono tutte le forze che hanno e diventano i difensori dei sogni dei nipoti.

Ma sono sogni possibili?

Proviamoci con coraggio a difendere quello che ci appartiene.

Il Veneto ha carattere, dignità, tradizione, cultura, storia, passione, amore.

È il nostro momento per esprimere l’amore per la nostra terra, per confermare la nostra autenticità e appartenenza, per proteggere il Veneto e provare ad  aprire le porte alle nuove generazioni verso il futuro.

E’ l’ora di accantonare le parole e passare ai fatti.

Alberta Bellussi

By

LA BANDIERA VENETA: la sua storia

In questo periodo la bandiera Veneta è argomento molto attuale perché ha quella forma e quei colori?

La Bandiera Veneta viene chiamata anche  “Gonfalone di San Marco” e  rappresenta la storia di un Popolo, quello Veneto.

La bandiera Veneta è una bandiera particolare  è simbolo di un’identità molto forte e di un’appartenenza che le viene data dalla storia. La bandiera è nata quasi 15 secoli fa e raffigura il simbolo del santo patrono protettore della città e della Repubblica Serenissima di Venezia (San Marco).

Le code, o frange, rappresentano i 6 Sestieri di Venezia. La bandiera Veneta originale, essendo per definizione unica al mondo, deve necessariamente essere dotata di 6 frange, sempre ben distinte e indipendenti. Esse hanno la funzione di preservare integra la parte centrale che in tal modo non viene danneggiata dal vento. Questa era la prassi di tutta la marina militare e mercantile della Serenissima Repubblica di Venezia (697-1797), la più ricca e potente del mondo.

La Serenissima Repubblica di Venezia , però, non aveva mai codificato con una legge i propri vessilli, lasciando  che fosse  l’uso a definirne le caratteristiche, a seconda delle circostanze.

La tradizione racconta che la prima bandiera avesse proprio il Leone di San Marco su fondo blu,  il colore del mare, anche senza code od altri ornamenti , aggiunti successivamente .

Fu poi sostituita dalla bandiera col fondo rosso, nelle varie varianti, con libro aperto, chiuso o con spada,  qualcuno dice il colore del sangue, certamente usata in tempo di guerra. Altri semplicemente affermano che il colore fu cambiato per renderla meglio visibile in mare.

La bandiera Veneta non è, in realtà,  una bandiera politica.

Il vessillo Veneto ha varie versioni, in quello più diffusa, il Leone di San Marco che  regge aperto un libro recante la scritta in lingua latina “Pax tibi Marce Evangelista Meus”.

Meno diffusa è la bandiera dove il leone impugna  la spada: presente solo sulle navi e  rappresenta la bandiera della marina militare in tempo di guerra, mentre quella con il libro chiuso indicava situazioni conflittuali fra la Repubblica ed il luogo dove è osservabile.

Il leone alato con il libro aperto è un simbolo ricorrente ed è ancora oggi murato sulle porte delle città che facevano parte della Repubblica, ma anche su palazzi pubblici e privati. La bandiera di San Marco era affissa in ogni capoluogo della Serenissima Repubblica di Venezia, d’ordine del Doge, che provvedeva a far spedire ad ogni città supplicante, gratuitamente ed a cura dell’arsenale, un apposito palo, che veniva periodicamente sostituito quando deteriorato.

Singolare la storia della Comunita’ di Perasto (oggi Montenegro) fu l’ultima città ad arrendersi ai francesi e l’ultima ad ammainare la bandiera Veneta. Durante il Medioevo Perasto  entrò a far parte  della Repubblica di Venezia, cui appartenne a periodi intermittenti e poi ininterrottamente dal 1420 al 1797.  Fu nel  ‘700 che  la cittadina visse il suo momento di maggior splendore, giungendo ad avere quattro cantieri navali, una flotta di circa cento navi, nove torri difensive, la fortezza di Santa Croce (1570), i sedici palazzi barocchi e le diciannove chiese. La devozione della cittadina alla Repubblica di Venezia non venne meno neppure alla caduta di quest’ultima.  Quando il 12 maggio 1797 il Doge, Ludovico Manin, depose le insegne di San Marco, i perastini decisero  di rimanere veneziani e si ressero in autogoverno fino all’arrivo delle truppe austriache.

Giuseppe Viscovich, capitano di Perasto, il 23 agosto del 1797 ammainava la bandiera di San Marco pronunciando la celebre orazione «ti co nu, nu co ti», con la bandiera tra le mani bagnato dal pianto di tutto il Popolo. I vessilli veneti rimasero così issati sulla città fino al giorno in cui vennero seppelliti con una cerimonia solenne, sotto l’altare maggiore della Chiesa di San Nicolò (Sveti Nikola).  Perasto era stata fedele alla Repubblica di Venezia per 377 anni.

La bandiera Veneta è di tutti ed è una bandiera di pace e rettitudine ma soprattutto di identità cultura e appartenenza.

Alberta Bellussi

By

Chipilo:  il Veneto  in Messico

Sfogliavo il giornale,  il giorno dopo il terribile terremoto che ha colpito il Messico e provavo sofferenza a vedere quelle immagini e a leggere di quel disastro. In Messico ci andai molti anni fa perché argomento della  mia tesi di laurea  e fu  subito amore per quella terra, per quella cultura, per quella gente.

Tra i vari trafiletti del giornale mi ha colpito  la storia del paese di Chipilo, in Messico  e devo dire mi sono emozionata. Davvero non lo sapevo che in Messico un paesino parla veneto. Il terremoto non ha perdonato nemmeno questo luogo e spero trovino la forza di rialzarsi… ma volevo parlare di loro… di quei Veneti che nel mondo ci sono andati, si sono alzati le maniche e dati da fare nei paesi lontani che hanno dato loro ospitalità.

La storia di Chipilo, a me curiosa del mondo, è apparsa subito una storia affascinante quasi incredibile. Sospesa tra leggenda e realtà.

Chipilo è un piccolo paese di cinquemila  abitanti in Messico. L’America Latina fu meta di molti emigranti trevigiani a fine ottocento. Alla fine dell’Ottocento, per esempio, il Messico concedeva agli immigrati ampi territori da colonizzare. Si andava in Mèrica che era  la terra promessa. Lo Stato Messicano dava a chi s’impegnava a coltivare i  terreni, tra i più impervi e inospitali, attrezzi agricoli e bestiame.

Era circa il 1880 quando ci fu una grande inondazione del Piave; nel  paese di Segusino, in provincia di Treviso, l’alluvione aveva reso i campi incolti e portato molta carestia.  In quegli anni di miseria e povertà una  cinquantina di  famiglie da Segusino  decisero di emigrare in Messico. Nello  stato di Puebla fondarono la colonia di Chipilo.

I primi coloni trevigiani  erano allevatori e si diedero all’industria casearia. Hanno introdotto il formaggio e la “panna Chipilo” che è una marca conosciuta in tutto il paese e usata per i tacos, le enchiladas e i burritos della cucina messicana.

La cosa affascinante è che oggi, dopo 130 anni dal primo insediamento, nella comunità di Chipilo a causa di un particolare fenomeno d’isolamento dal resto del paese, ancora vi sono tradizioni venete e si parla dialetto veneto. Perduta nel centro del Messico e incastrata nella terra azteca, questa Comunità non parla  né castigliano né nàhuatl, lingua atzeca; parla, invece,  il dialetto del nord-est dell’Italia, cioè il veneto ma non quello che parliamo noi bensì quello dei nostri avi. E’ la stessa  lingua che si erano portati in “valigia” quando erano partiti dall’Italia a cercar fortuna. Mentre il nostro dialetto si   è evoluto, la lingua di Chipilo è rimasta attaccata alle vecchie radici. Infatti quando i suoi abitanti si congedano non dicono arrivederci ma dicono ‘se vedon’.

I chipileños non sono veneti solo nella lingua. Molti di loro sono biondi e con gli occhi chiari in una terra ibrida, tutti mangiano polenta e giocano a bocce. C’è un una collinetta nel loro paesaggio che  chiamano  Monte Grappa, in onore ai caduti italiani nella prima guerra mondiale.

Chipilo appare una realtà particolare  quasi una riserva di veneti in terra messicana;  un rapporto non sempre facilissimo quello tra i veneti e gli indios  perché i veneti locali accusano gli indios d’essere troppo pigri. E’ nel DNA dei Veneti quello di essere operosi e lavoratori e tutti loro affermano di aver insegnato agli indios come si lavora.

Qui i cognomi sono ancora veneti Calzature “Bortolotti”, latteria “Stefanoni”, alimentari “Minutti”: i nomi sono sempre quelli delle 50 famiglie venute qui nel 1882 con qualche straccio e molte speranze.

L’interesse per l’Italia si è un po’ spento anche se  nel 1982, nel centenario dell’emigrazione, i due paesi, quello di origine: Segusino e quello di arrivo: Chipilo, si sono gemellati. E’ allora che è cominciata a emergere questa anomalia linguistica, di messicani che parlano dialetto veneto e hanno mantenuto le secolari tradizioni del loro paese di origine. Il comune di Segusino ha recentemente organizzato anche dei centri estivi per bambini di Chipilo, sponsorizzati da Trevigiani nel mondo. La scrittrice Francesca Cazzaniga che ha sposato un messicano, ha deciso  di scrivere la storia di quella gente, che a fine Ottocento abbandonò tutto per l’avventura e che ora si ritrova in Messico a parlare e a sognare in veneto.

E’ un piccolo racconto, quasi romanzesco, di uno spaccato di quel  popolo veneto che ovunque è andato nel mondo ha lasciato la sua impronta positiva.

Alberta Bellussi

 

By

“Mona” !  Avete mai pensato da dove deriva?

In questo mio viaggio attraverso quelle piccole cose venete che segnano l’appartenenza alla nostra terra, scoprire da dove arriva la parola “mona” era una mia curiosità.

“Mona” è uno dei termini che ci appartiene; possiamo dire che  è  di proprietà di tutti i Veneti; non ha nemmeno inflessioni o varianti in tutta la Regione,  lo si usa nella stessa forma ovunque ma ha molti significati dipende dall’uso e  dal contesto.

E’ una parola che continua ad essere molto usata e può avere  significato offensivo oppure semplicemente un intercalare.

Letteralmente indica l’organo genitale femminile.  In passato l’etimologia della parola “mona” era, sempre, stata collegata al termine latino “mea domina”, che significa mia signora, mia padrona, oppure Madonna, la seconda, accreditata dalla prestigiosa firma di Manlio Cortelazzo, faceva risalire il termine al greco “bunion”, e poi “muni” cioè monte, collinetta, da cui “monte di Venere”.

La parola, secondo altri storici, potrebbe essere di origine celtica, popolo che abitava la Regione, dove “mònes”  indicava la scimmia.

Ma la versione più accreditata, anche da un recente studio di Onghia (ricercatore della Normale di Pisa),  fa derivare questo termine  dall’arabo “maimun”, che vuole dire “scimmia” o “gatta”, simbolo del peccato o della lussuria, quindi utilizzato per riferirsi anche all’organo sessuale femminile.  Era stato d’altronde lo stesso Marco Polo a raccontare del “gatto mammone” che in realtà era una scimmia che assomigliava a un felino. Scimmia in quanto animale peloso, come l’”oggetto” in questione, ma anche simbolo del peccato di lussuria, nell’iconografia cristiana. Il termine “maimòne” si ritrova anche nei più antichi dizionari di italiano ad indicare infatti un particolare genere di scimmia, appartenente alla famiglia dei cercopitechi.

Un’ipotesi questa che allineerebbe l’uso dialettale veneziano al francese (“moniche/ mouniche”), al castigliano (“maimón”), al catalano (“maimó”) e alle voci di gergo statunitensi “monkey” e “monkey box”. Ma la metafora animale per indicare l’organo sessuale femminile è largamente diffusa, in Italia e fuori: basti pensare a “passera”, “farfalla”, o al francese e all’inglese, con “chatte”, “cat” e “pussy”.

Ma ancora più curiose sono le molte espressioni e frasi fatte che usano questo termine.

“Te si mona” viene spesso usato con l’accezione di uomo che fa lo stupido come una scimmia;.

Mandar tuto in mona” è traducibile con un mandare tutto a rotoli.

“Va in mona” equivale al nostro va’ a quel paese o qualcosa di più volgare. Questo ha anche un’altra espressione “Va in mona dea Daria” questa signora povera sentirà ogni giorno fischiare le orecchie.

Na monada” è un’espressione che significa scemenza, cosa di poco conto, stupidaggine. “Monade” sono i gesti leziosi compiuti dall’animale e nel dialetto diventano appunto le stupidaggini.

‘Ndar in mona”, infine, si usa per quelle cose o quelle persone che si sono rincitrullite.

Alberta Bellussi

By

Ma chi è il  SIGNOR DA VIDOR?

Nella Sinistra Piave, e forse non solo, si usa un’espressione di stupore o di sorpresa che è “ Ih signor da Vidor” come per dire “Mamma mia”, “Maria Vergine”.

L’altro giorno l’ho sentita pronunciare da una signora e ho pensato chissà mai da dove deriva.

Ho chiesto a uno storico di cultura locale  e ho fatto qualche ricerca ed eccoci svelato il mistero.

Esiste anche un’antica  filastrocca che parla di questo Signor da Vidor che recita:

Oh Signor da Vidor ciol  su la barca e vegnéme a cior;

 

Ma chi è sto Signor da Vidor?

L’area  adiacente all’Abbazia di Santa Bona di Vidor in epoca medievale era diventata  un porto fluviale nel quale c’era il  servizio di traghetto delle persone e merci da una sponda all’altra del Piave.

Il signor da Vidor era il barcaiolo  che a Vidor, con la barca, portava le persone dalla sinistra Piave alla destra; e se non c’era il signor da Vidor rimanevi lì,  non potevi traghettare perché l’acqua del fiume era alta e con molta corrente.

Il servizio di traghetto, in quest’area,  funzionò fino al 1871 quando venne inaugurato il primo ponte di legno sul Piave.

Per molti anni in questo luogo si era conservata l’antica casa  dei barcaiolo  o traghettatori addetti al passo barca, che fu distrutta poi durante la guerra del 1915-18. Nella roccia è ancora visibile un anello di ferro detto in dialetto “la sciona”” per l’attracco delle imbarcazioni.

Lungo il corso del Piave c’erano altri  punti di traghettamento perché  all’epoca questo corso d’acqua aveva una portata molto elevata e impetuosa che rendeva quasi impossibile guadarlo a piedi.

Le rivalità tra i numerosi passi barca del Piave sono, appunto,  menzionate nel detto:

Oh Signor da Vidor ciol  su la barca e vegnéme a cior;

che quel da Zian l’é’n poro can;

quel da Bigolin l’é massa picinin;

quel da Col nol me vol e de quel da Onigo no me fido!

 

Traduzione  (o Signore da Vidor, prendete la barca e venitemi a prendere;

che quello di Ciano è un poveraccio;

quello da Bigolino è troppo piccolino;

quello di Covolo non mi vuole e di quello di Onigo non mi fido!).

Alberta Bellussi

By

 

Figà, e tutte le altre varie inflessioni locali figàl  ecc, è la parola veneta per indicare il fegato e il fegato alla veneziana è uno di quei piatti che rappresenta il Veneto e  ci appartiene culturalmente.

Quale veneto non si è mangiato, di gusto, un buon piatto di fegato alla veneziana?  Forse quasi nessuno.

Se guardiamo la storia culinaria troviamo testimonianze  dell’uso del fegato nel De re Coquinaria di Apicio, il cui nome in realtà, appartiene a ben tre personaggi vissuti nel corso dei secoli dall’epoca repubblicana, a quella augustea a quella di Traiano. Tutti e tre avevano fama di intenditori dei piaceri della tavola. Fu nel 230 d.C. che un cuoco di nome Celio raccolse una serie di ricette attribuendole ad Apicio nel De re Coquinaria, importante testimonianza della cucina nell’antica Roma.

Nell’abitudine romana però il fegato era cucinato con i fichi che ne smorzavano il sapore forte e deciso, da qui il nome “iecur ficatum” (fegato coi fichi) poi divenuto solo ficatum e trasformato in fegato.

I veneziani ebbero una grande intuizione culinaria,  sostituirono i fichi con le segoe  (le cipolle), più diffuse in laguna; la funzione era la stessa ossia quella di “addolcire” il gusto del fegato sanguigno, quasi ferroso, per creare un piatto piacevole.

Fegato alla Veneziana

La tradizione vorrebbe il fegato di maiale, ma oggi si utilizza più comunemente il quello di vitello o di vitellone, dal gusto meno deciso.

Sulle cipolle però non si transige: va utilizzata solo quella bianca di Chioggia.

E’ questa la cipolla tipica della   laguna e nelle zone limitrofe (le zone interessate alla produzione sono le province di Venezia e Rovigo, e il comune di Ariano Polesine).

 

La ricetta

Ingredienti (per 4 persone):

600 g di fegato di maiale (o di vitello o vitellone se lo si preferisce)

2 grosse cipolle bianche di Chioggia

50 g circa di burro

4 cucchiai di olio extravergine d’oliva

un cucchiaio di aceto (facoltativo)

Un mazzetto di prezzemolo (facoltativo).

Sale e pepe q.b.

 

Fare soffriggere la cipolla tagliata a fette nel burro misto a olio; aggiungere, quando si sarà imbiondita, un po’ di aceto (se lo si usa) o 2 cucchiai di acqua e lasciare stufare 15-20 minuti a fuoco dolce.

Aggiungere quindi il fegato tagliato a listarelle (e il prezzemolo se lo si usa) e fare cuocere velocemente (non più di 5 minuti) a fuoco alto, salare e pepare.

Il piatto va consumato caldo. Se riscaldato, il fegato si indurisce. Questa pietanza viene anche accompagnata da polenta morbida o con fette di polenta tostate.

Di seguito un’altra ricetta  veneziana antica che utilizza il  fegato.

Figà garbo e dolse  (fegato agro dolce)

Magnifica ricetta veneziana, per preparare il fegato,  completamente dimentica.

Tagliare il fegato a fette non troppo sottili e passarle nell’uovo e con molta cura nel pane grattato.

Volendo una panatura alta e morbida ripetere due volte l’operazione.

Friggere le fette di fegato in un misto di olio e burro finché la panatura si colora di biondo carico.

Far asciugare l’olio  su carta assorbente e disporre le fette su un piatto da portata e salarle, bagnarle con il succo di un limone nel quale sia stato sciolto un cucchiaino di zucchero.

Spolverare di pepe e servire il piatto caldissimo.

Decorare con gambi di prezzemolo fresco.

(recuperata da Claudio Rorato)

By

…QUEL DEL FORMAIO

L’altra sera parlando tra amici e con il casaro del banco del formaggio del mercato di Tezze disquisivamo sull’origine del detto “ Te trovarà quel del formaio” ; detto che in Veneto si manifesta nelle centinaia di  inflessioni dialettali locali.

Avevo promesso che avrei cercato il perché di questa formula sempre in uso e mai passata di moda nel nostro vivere comune. Lo si usa quando una persona è prepotente e arrogante, e magari fa delle furbate verso gli altri allora gli si augura che “prima o poi trovi quello del formaggio”, per  abbassargli la cresta e quietare l’arroganza.

Ma cosa centra l’uomo del formaggio con la giustizia sociale?

Ho provato a cercare e chiedere agli anziani. Alla fine del mio ricercare tre sono le spiegazioni che ne escono che hanno un filo conduttore  comune la forza fisica come soluzione all’arroganza.

La storia è dibattuta da anni e si trova lo stesso modo di dire anche in altri  dialetti dell’area triveneta, in Trentino, in Friuli, nel Triestino e perfino in Istria, ma rimane la questione:

cosa c’entra l’uomo del formaggio?

1- “Rivarà quel del formajo” secondo la tradizione veneziana deriva da “formaiea”.

Un tempo, per conciare le pelli, si usavano cortecce di rovere. Dopo averle usate si lasciavano asciugare al sole. Una volta asciugate venivano pestate e usate come combustibile per riscaldare le case. Erano le  “Formagee dea Giudeca” perché i conciapelli vivevano proprio in questa isola. E’ arrivato quello del formaggio significherebbe, quindi, colui che batte le cortecce cioè quello  che ti pesta a dovere.

2-  “La seconda ipotesi nasce in territorio trentino, pare da un fatto di una cronaca giudiziaria locale narrato da Giovanni de Tisi di Giustino, notaio di Rendina, per quanto riguardava  una controversia tra le comunità di Pelagio e Rendina per il possesso della malga del monte Spinole. I fatti avrebbero avuto luogo  nel 1380 in una remota e poco abitata zona del Trentino, in una società  che basava tutta la sua economia esclusivamente sull’ agricoltura e  la pastorizia,  sotto il dominio  del  principe – vescovo di Trento tramite nobili locali. Ed è uno di questi il cardine della storia, il nobile Giovanni de Tisi accusa di omicidio un malgaro che aveva ucciso “l’uomo del formaggio”. Era uso, in quel tempo, che l’affitto di una malga fosse pagato in natura. Nel caso in questione si era pattuito come affitto della malga un “uomo del formaggio” ovvero una quantità di prodotto caseario pari all’altezza di un uomo.  Quell’anno, particolarmente povero di latte, i padroni mandarono a riscuotere l’affitto un uomo di statura imponente.  Il povero malgaro incominciò  ad accatastare le forme di formaggio accanto al gigante, ma  arrivato alle spalle,  aveva terminato il formaggio, così  tolse dal ceppo un’ascia e semplicemente  tagliò la testa del riscossore del tributo e raggiunse la giusta quantità da dare”. ( cit. Carlo Scattolini)

Questa spiegazione non risponde appieno al significato della  frase, ma vediamo ora una terza ipotesi

3- I malgari ovvero i produttori di formaggi, erano gente abituata alla solitudine dei monti, forti, temprati da un lavoro duro e dall’ ambiente di montagna impervio e rigido.  Erano uomini taciturni, burberi, pratici, contemplativi e poco avvezzi alle furberie della gente di città.  Accadeva, quelle rarissime volte, che scendevano a valle per vendere o barattare i loro prodotti  che se qualcuno provava a imbrogliarli o a prendersi gioco di loro si facevano giustizia da soli in modo brutale e violento. Loro erano fisicamente molto forti e ne avevano spesso la meglio a suon di pugni e sberle.

Queste sono le spiegazioni che sono riuscita a trovare di questo detto sempre molto usato ci riportano tutte a una giustizia fatta utilizzando qualche sberla o pugno… come andava di moda un tempo per farsi rispettare.

E io auguro a tutti gli arroganti di trovare prima o poi quel del formajo, magari, che insegni loro l’educazione a parole ma che l’arroganza venga spenta definitivamente sul nascere.

Alberta Bellussi

By

La parola SCHEI… dove ha origine?

Ma lo sai che origine ha la parola SCHEI… che tutti i veneti usano quando parlano di denaro?

L’origine della parola schei poggia le sue radici nella storia vicina.

Per giungere all’origine etimologica del termine veneto indicante il denaro dobbiamo guardare alla prima metà dell’Ottocento, all’epoca del Regno Lombardo-Veneto (1815-1866). In quel periodo il  Veneto si trovava sotto la dominazione austro-ungarica. La parola schei deriva,   infatti, dall’abbreviazione di Scheidemünze, ossia i centesimi della moneta dell’Impero Austro-Ungarico.  I veneti avevano accorciato nel linguaggio ora questa lunga parola per loro impronunciabile; quindi schei e, di riflesso, scheo al singolare.

Schei è una parola che appartiene al nostro linguaggio e fa parte della nostra quotidianità. Il termine è utilizzato tutt’oggi anche per indicare qualcosa di piccole dimensioni (“ceo fa un scheo”) o di breve lunghezza (“sposteo de vinti schei”).

C’è poi un’altra parola che in Veneto si usa per indicare il denaro ed è la parola “franco” andata però in disuso con l’entrata in vigore dell’euro. Secondo alcuni sarebbe un retaggio dell’epoca napoleonica. Altri sostengono che sia   un’altra moneta austriaca, che riportava l’abbreviazione ‘Franc.’, indicante il nome dell’allora imperatore Francesco Giuseppe.

Proverbi

Chi no ghe fa cont de un scheo no val un scheo.

Schéi e amicìsia òrbise a giustìsia

I schei fà balare i sorzi.

I schei no i ga ganbe ma i core.

I schei porta l’oca al paron.

I schei vien de passo e i va al galopo.

Alberta Bellussi