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Mi capita spesso di pensare ai grandi personaggi che hanno amato la nostra terra  e devo dire che più volte ho avvertito quasi un sussulto emotivo a entrare all’Harry’s Bar a vedere il tavolo dove Hemmingway sedeva, o a immaginarlo scrivere in quelle seggiole davanti alla locanda Cipriani a Torcello mentre si faceva accarezzare dalla luce della luna o ancora ho sentito le sue intense parole echeggiare tra i casoni di Caorle dove si divertiva nelle cene con gli amici.

Hemingway è un po’ un veneto di adozione.

E se c’è uno scrittore straniero che noi veneti sentiamo vicino, quasi parte della nostra cultura, è proprio Hemingway per il rapporto intenso e cercato che ha avuto con la nostra terra.   La nostra Regione, ma soprattutto il Nordest, conservano tracce indelebili della sua presenza : dalla Grande Guerra alle escursioni degli anni ’50 per rivivere i luoghi che avevano segnato fortemente la sua vita.

Fu il destino a portare lo scrittore americano dalle nostre parti nel corso della Prima Guerra Mondiale, ci arrivò come volontario della Croce Rossa Americana. Fu un incontro violento quello che avvenne tra lo scrittore e il Veneto nel 1918.

Nella battaglia del Solstizio, che dal 15 al 24 giugno 1918 attraversò come una linea di fuoco il Veneto, dall’Altopiano di Asiago al Grappa, dal Grappa fino al Piave; il territorio veneto fu campo di battaglia dalle montagne fino a Jesolo, ai tempi ancora Cava Zuccherina. Fu l’ultima spallata, furiosa e disperata, delle armate dell’Impero austroungarico. Hemingway, in un primo momento, si trovava in trincea sul Pasubio, coraggioso e impavido, si spostò,poi, sul fronte del Piave, a Fossalta.

Qui la notte dell’8 luglio 1918 venne ferito gravemente ad un ginocchio oltre che subire lesioni da schegge di proiettile su tutto il corpo.  Ernest giovanissimo venne ricoverato a Milano, dove incontrò e si innamorò perdutamente dell’infermiera Agnes Von Kurowsky, che sarà la protagonista del capolavoro Addio alle Armi.

In Veneto ci tornò, la prima volta, alla fine Prima Guerra Mondiale, nel 1922, con la prima moglie, Mary Welsh, a Fossalta di Piave, luogo che rimase per sempre nella sua memoria e nella sua carne. A lei mostrò dove aveva rischiato la vita.

Passionale, irrequieto e estremo dalla sua America dedicò molti libri e pagine piene di emozioni al “suo” Veneto.

L’amore per l’Italia e la nostra regione lo spinge a tornarci nel 1948 con la quarta moglie Mary, per ritrovare i luoghi dei vecchi ricordi di guerra.

Da Cortina venne a Venezia dove trascorse diverso tempo. Un mese rimase all’hote Gritti, poi si trasferì, a Novembre, alla Locanda Cipriani a Torcello, consigliatagli come luogo ideale dove poter scrivere.

Amava perdersi per Venezia tra i sapori e i colori del Mercato di Rialto; andare alla Locanda Cipriani a Torcello, al Caffè Florian a piazza San Marco, all’Harry’s Bar dove si sentiva come a  casa e beveva Martini al tavolo che era sempre riservato a lui.  In compagnia dell’amico Carlo Kechler andava a cacciare le anatre lungo i canneti delle barene nella Laguna di Caorle. Terra questa che lui amerà perché incontaminata e popolata di gente di mare. Qui incontrerà la diciannovenne Adriana Ivancich, l’ennesimo amore per Ernest e questa volta fu scandalo per l’età di lei; sarà l’ ispiratrice e protagonista di Di là dal fiume e tra gli alberi.

Tornò molte volte in Veneto in quegli anni.

Ma fu nel 1954 che Ernest arrivò a Venezia in maniera quasi clandestina. Proveniva da Mombasa e viaggiò per tutto il tempo in nave, all’insaputa di tutti dato che, di lui, si era sparsa la notizia della sua morte prematura avvenuta a seguito di un incidente aereo. Al Gritti rimasero senza fiato vedendolo arrivare con ben 84 valigie a suo seguito…

In quell’anno ricevette anche il Nobel per la letteratura, assegnato per  Il  vecchio e il mare, un racconto pieno di sentimento intenso, e sofferente dove il vecchio fino alla fine  dovrà lottare con un pesce enorme, catturato dopo fatiche incredibili. Libro che sottolinea il valore di chi non si vuole arrendere.

“Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai” -Il vecchio e il mare.

E mi sento di ringraziarlo davvero per averci in qualche modo scelti “Sono un ragazzo del basso Piave… sono un vecchio fanatico del Veneto ed è qui che lascerò il mio cuore” – scriveva Hernest Hemingway a un amico.

 

Alberta Bellussi

 

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Non so voi, ma io ricordo mia nonna che ogni volta che c’erano una serie di eventi atmosferici strani, anomali mi ripeteva vari detti veneti che andavano a giustificare il fortunale o la siccità.

E quando verso fine giugno si verificavano dei temporali tremendi era sempre colpa “dea mare di san Piero”, “la madre di san Pietro”; questi fenomeni si manifestano nei giorni vicini alla festività dei santi Pietro e Paolo, il 29 di giugno.

Ma dove nasce questa leggenda?

Questo detto poggia le sue radici su una leggenda italiana ma soprattutto veneta che viene tramandata oralmente di generazione in generazione. Si racconta, infatti, che la madre di San Pietro non fosse per nulla buona e caritatevole nemmeno con le persone di famiglia che le erano vicine; anzi sembra fosse davvero cattiva e che maltrattasse le persone. Quando morì, per la sua condotta di vita, venne spedita velocemente all’Inferno anche se suo figlio cercò in tutti i modi di impedirlo, usando anche la sua autorità.

Sappiamo che proprio Pietro era il capo della prima comunità cristiana di Roma. Il Vangelo di Matteo riporta: – 18- E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. 19- A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

Egli fu martirizzato crocifisso a testa in giù, perché predicava la fratellanza universale, l’amore tra le persone, la conversione al bene e anche la conciliazione tra i popoli; le sue azioni e le sue parole erano considerate scandalose rispetto a ciò che diffondeva il potere romano che adorava l’imperatore come una divinità e quindi non potevano esistere altre divinità all’infuri di lui.

Era il momento in cui il cristianesimo stava mettendo le radici ma non era facile; Pietro fu il primo Papa e in Paradiso era il responsabile degli ingressi di tale luogo, infatti viene sempre raffigurato con due grosse chiavi in mano e da sempre si dice che quando moriamo sarà San Piero ad aprirci o meno le porte.

Tornando “alla mare de San Piero” lui decise di prendere questo incarico che gli permetteva di  stare sulla porta del Paradiso perché da lì poteva vedere anche l’inferno dove era finita sua mamma.

Un giorno chiese di poterla vedere ma gli fu negata. Continuò a insistere finché dopo tante lusinghe presso il Padre Eterno gli venne concessa. Poteva vederla una volta all’anno nei giorni della sua festa, il 29 di giugno, che guarda caso si trova proprio nel periodo astrale del solstizio d’estate.

Gli angeli del cielo costruirono una scala di corda e la calarono fino a farla giungere vicino alla porta degli inferi, dove si trovava la donna. Accadde che le persone che erano negli inferi si accorsero della scala preparata per farla uscire e moltissimi si attaccarono scatenando un grandissimo caos perché tutti volevano uscire.  La scala, dal peso, si ruppe togliendole definitivamente ogni possibilità per poter accedere al Paradiso. San Pietro dal Paradiso non smise mai di intercedere per poter rivedere la mamma e ma ogni volta che si aprivano le porte dell’Inferno si scatenava il finimondo perché tutti sospettavano che la donna volesse scappare.  Proprio a questi episodi si riferiscono certi fenomeni atmosferici fatti di lampi e tuoni e grande fragore che capitano proprio nel periodo che comprende la festa dei santi Pietro e Paolo, il 29 giugno.

Stiamo a osservare quest’anno se la “mare de San Piero” aprirà le porte dell’Inferno e scatenerà il disastro anche quest’anno o no?  Semmai c’è sempre la candela della “Zerioa” accesa che, nella tradizione veneta, scaccia i temporali estivi e le catastrofi ma magari ne parleremo in futuro.

Alberta Bellussi

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Tutti conoscono “La Leggenda del Piave” e non solo i veneti …. quel Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio”…. lo abbiamo cantato tutti almeno una volta nella vita con impeto e orgoglio.

È senz’altro la canzone patriottica più nota ed amata del vasto repertorio esistente sulle canzoni di guerra.

Sono quattro strofe in cui l’autore del brano, Giovanni Ermete Gaeta, compositore e poeta dialettale napoletano noto con lo pseudonimo di E.A.Mario, ripercorre alcuni momenti della Grande Guerra.

È una canzone scritta così bene che ogni volta che la cantiamo ci sembra di rivivere quei momenti storici. Una storia vissuta in modo tenace e cruento nello scenario del greto del nostro amato fiume Piave.

Concedetemi di aprire una piccola  parentesi su quel fiume che tanto amo e che vivo in lungo e in largo con la mia bicicletta; è un fiume che ha un legame indissolubile con chi ci è nato vicino, quasi da determinarne delle caratteristiche caratteriali e antropologiche; quella razza Piave di cui molti di noi ne sentono l’appartenenza. Il Piave è il quinto fiume d’Italia per lunghezza fra quelli sfocianti in mare. I suoi principali affluenti alpini di destra raccolgono le acque delle principali valli glaciali: l’ Ansiei raccoglie le acque della valle Auronzana e sfocia nel Piave a Cima Gogna; il Boite passa lungo la valle Ampezzana e sbocca a Perarolo ; il Maè fluisce lungo la valle Zoldana ed esce a Longarone, infine il Cordevole scorre lungo la valle Agordina e sfocia nel Piave presso Sedico.

Il Piave nasce a circa 2000 metri di altitudine dalle pendici del monte Peralba, nelle alpi Carniche e sfocia a Cortellazzo nel comune di Jesolo, presso la laguna del Mort. Il bacino idrografico del Piave, presenta un’estensione di circa 4013 kmq di cui circa 3900 kmq in territorio Veneto ed è, a livello regionale, il bacino più esteso. Un’ampia zona del bacino è compresa nel territorio della Provincia di Treviso, dove il fiume scorre per un tratto di circa 60 km, da Segusino a Zenson di Piave. Il fiume Piave ha un bacino prevalentemente montano, che si considera idrograficamente chiuso a Nervesa della Battaglia e sfocia in Adriatico presso Porto Cortellazzo dopo un percorso di circa 222 km. In quasi tutta questa zona, l’alveo fluviale si distende su un ampio letto ghiaioso che in alcuni punti raggiunge i 4 km di larghezza e si disperde in una serie di rami secondari che lambiscono isole di deiezione ed erosione dette “grave”.

Il Piave nasce al femminile, la Piave, per il valore di fertilità che hanno sempre avuto le sue acque e la generosità dei frutti che questa fertilità portava. A determinare il mutamento al maschile è stata proprio la Leggenda del Piave. Quel “il Piave mormorò…” cantato dai soldati, mascolinizzò il fiume.

E dopo questa piccola ma doverosa parentesi geofisica ritorniamo alla composizione di Gaeta.  “La Leggenda del Piave” cominciò a circolare fin da subito; Raffaele Gattordo, un cantante amico di Gaeta che si esibiva con il nome d’arte di Enrico Demma, mentre si trovava al fronte in un reparto di bersaglieri, cominciò subito a cantare questo brano.

Era un canzone che entusiasmava dal primo ascolto per i suoi versi patriottici e ricercati, per la soddisfazione per la grande battaglia vinta, per  la musica orecchiabile a tono di marcia. In poco tempo questa canzone divenne molto popolare fra le truppe italiane. Accadde infatti che il generale Armando Diaz inviò all’autore un telegramma di congratulazioni che diceva: “La vostra Leggenda del Piave al fronte è più di un generale”.

Il brano fu popolarissimo anche dopo la fine del conflitto.  Venne eseguito il 4 novembre 1921 all’inaugurazione del monumento al milite ignoto, al Vittoriano di Roma. Dal  1943 e il 1946, La canzone del Piave fu adottata come inno nazionale, per essere poi sostituita dal “Canto degli Italiani” di Goffredo Mameli.

Nel novembre 1917, dopo lo sfondamento austriaco a Caporetto la linea del fronte si era attestata sul fiume Piave. Nel giugno 1918 l’Austria provò a sferrare il colpo definitivo: l’offensiva iniziò il 15 giugno, ma l’esercito italiano riuscì a fermarla e il 22 giugno la ‘battaglia del Solstizio’ (come la chiamò il poeta Gabriele D’Annunzio) terminò con la vittoria italiana. In quei giorni Gaeta era al lavoro in un ufficio postale. Furono parole che gli uscirono dal cuore, come raccontò lui stesso, tre strofe che scrisse di getto sui moduli di servizio interno che oggi si trovano  nel Museo storico della comunicazione di Roma.

Nella prima strofa si fa riferimento all’inizio della guerra quando, il 24 maggio 1915, i soldati marciarono verso il fronte, a difesa della frontiera. Nella seconda parte del brano, si racconta della disfatta di Caporetto. In seguito alla quale il nemico riuscì a Calare fino al Piave, provocando un’ondata di profughi e sfollati provenienti dalle zone man mano attraversate. Nella terza strofa, drammatica, si racconta del simbolico “No” del Piave che grazie alla sua improvvisa e copiosa piena costituì davvero un ostacolo insormontabile per l’esercito austriaco e dei fanti italiani al proseguire dell’avanzata.

La quarta ed ultima parte del celebre inno, che fu aggiunta alle prime tre il 9 novembre 1918, dopo la fine della guerra, si riferisce alla battaglia del Solstizio, con il nemico respinto fino a Trento e Trieste e la vittoria italiana. A celebrare la quale l’autore immagina siano risorti i patrioti uccisi dagli austriaci: Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro e Cesare Battisti.

Alberta Bellussi

 

II Piave mormorava calmo a placido al passaggio

dei primi fanti, il ventiquattro maggio:

l’esercito marciava per raggiunger la frontiera

e far contro il nemico una barriera.

Muti passaron quella notte i fanti:

tacere bisognava, e andare avanti!

S’udiva, intanto, dalle amate sponde,

sommesso e lieve, il tripudiar dell’onde.

Era un presagio dolce e lusinghiero.

Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero!”

 

Ma in una notte trista si parlò di tradimento,

e il Piave udiva l’ira a lo sgomento.

Ah, quanta gente ha vista venir giù, lasciare il tetto

per l’onta consumata a Caporetto.

Profughi ovunque dai lontani monti

venivano a gremir tutti i suoi ponti.

S’udiva, allor, dalle violate sponde

sommesso e triste il mormorio dell’onde:

come un singhiozzo, in quell’autunno nero

il Piave mormorò: “Ritorna lo straniero!”

 

E ritornò il nemico per l’orgoglio e per la fame,

volea sfogare tutte le sue brame.

Vedeva il piano aprico, di lassù, voleva ancora

sfamarsi e tripudiare come allora.

“No!” disse il Piave, “No!” dissero i fanti.

“Mai più il nemico faccia un passo avanti”

Si vide il Piave rigonfiar le sponde,

e come i fanti combattevan le onde.

Rosso del sangue del nemico altero,

il Piave comandò: “Indietro, va’, straniero!”

 

Indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento.

E la Vittoria sciolse le ali al vento!

Fu sacro il patto antico: tra le schiere furon visti

risorgere Oberdan, Sauro a Battisti.

Infranse, alfin, l’italico valore

le forche e l’armi dell’Impiccatore.

Sicure l’Alpi… Libere le sponde…

E tacque il Piave: si placaron le onde

sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,

la Pace non trovò né oppressi, né stranieri!

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Più mi inoltro nelle ricerche per il mio blog www.ilcuorevento.it più resto piacevolmente colpita di quante sono le invenzioni importati, nel mondo, nelle quali scorre sangue veneto nelle vene.

Io utilizzo il PC ogni giorno da tantissimi anni ma non sapevo che molto di questa macchina è stata inventata da un veneto davvero di fama mondiale. Non è un articolo semplice e nemmeno corto ma la grandezza del personaggio e delle sue scoperte meritava che io gli dedicassi tutto lo spazio di cui necessitava senza tagli per alleggerire il lettore. Vorrà dire che lo leggerete in due volte se vi stancate ma merita davvero.

 Federico Faggin, questo il suo nome, ha creato il primo microchip o microprocessore che ha rivoluzionato la vita di tutti noi; scoperta la sua che darà il nome anche alla mitica “Silicon Valley”, la rivoluzione del silicio che cambiò il mondo.

Federico Faggin è nato nel 1941 a Vicenza. Il papà era uno dei massimi studiosi e professori, dell’epoca, in materia di storia della filosofia ma lui aveva altri interessi già da piccino.

Era un ragazzino di 11 anni e aveva già le idee chiare, un gradissimo ingegno, visione per il futuro, e una passione enorme per l’aero-modellistica. Nonostante il papà non fosse molto felice della sua passione lui si costruì un modellino di aereo che magicamente si alzò in volo senza problemi.

Federico disse che quel suo successo segnò un momento di svolta per la sua intera vita. A 13 anni aveva imparato come si costruisce un prodotto: iniziando con l’ideazione, seguendo con la progettazione e il design, per completarsi infine nella realizzazione.

Questa grande passione lo porterà a scegliere studi tecnici alle superiori; amava i transistor e i computer. A 19 anni con il diploma di perito industriale, iniziò subito a lavorare presso la Olivetti di Borgolombardo. Da solo, aveva contribuito, per quasi il 60%, alla progettazione e alla costruzione di un piccolo computer digitale a transistor.

Faggin decise di approfondire i suoi studi in fisica presso l’Università di Padova, dove conseguì la laurea 110 e lode in anticipo con i tempi di studio.

Cominciò a lavorare per la SGS-Fairchild (oggi STMicro) ad Agrate Brianza, dove si dedicò a sviluppare la prima tecnologia di processo per la fabbricazione di circuiti integrati commerciali MOS. La SGS-Fairchild inviò questo ragazzo prodigioso a fare un’esperienza di lavoro presso la sua consociata leader nel settore a Palo Alto in California.

Faggin a Palo Alto visse quella “straordinaria energia della ricerca scientifico-tecnologica” che scorre in questa parte di Estremo Occidente.

Nel 1970 passò alla Intel e con le sue intuizioni iniziò un cambiamento che rivoluzionerà il mondo. E’ infatti nel 1971 che ha inizio la ‘seconda rivoluzione industriale’.

La seconda rivoluzione industriale ha il suo ‘motore’ che muove tutto e prende forma nella straordinaria invenzione del microprocessore o MPU (MicroProcessing Unit), ad opera di tre ingegneri della Intel di Santa Clara, Federico Faggin e gli americani Marcian Edward Hoff Jr. e Stanley Mazer. Riuscirono a concentrare su una piastrina di 4 millimetri per 3 un ‘supercircuito integrato’ (che venne soprannominato ‘miracle chip’) contenente ben 2.250 transistor che costituivano tutti i componenti di una unità di elaborazione: ‘cervello’, memoria d’entrata e di uscita. La spinta alla realizzazione del primo microprocessore al mondo fu la richiesta della società giapponese Busicom di sviluppare la parte elettronica di una calcolatrice da tavolo.

Il compito di tradurre questa intuizione in una macchina funzionante fu di Faggin. La realizzazione elettronica dello schema eseguita da Faggin portò alla realizzazione del primo microprocessore: l’Intel 4004.

Per lo sviluppo del microprocessore 4004, la Intel – fondata nel 1968 da un gruppo di entusiasti giovani ricercatori e di docenti con a capo Robert Noyce e Gordon Moore – spese solo 150 mila dollari. Oggi la Intel è il maggiore produttore al mondo e ciò conferma che l’innovazione non è solo il prodotto di ingenti investimenti, ma il risultato di applicazione e creatività di ricercatori ben preparati.

Nel 1972 Faggin realizzò il microprocessore 8008, il primo chip da 8 bit di uso universale. L’8008, con la prima memoria statica, è in grado di conservare i dati sino a quando non viene interrotta l’alimentazione elettrica. Su questo chip gli ingegneri Nat Wadsworth e Robert Findley realizzarono il primo microcomputer, che fu prodotto in serie in scatola di montaggio dalla Scelbi e venduto per corrispondenza a 440 dollari. Anche la Digital realizzò nel 1974 con lo stesso microprocessore un microcomputer su un’unica scheda, ma a livello industriale non intuì il formidabile avvenire dei piccoli calcolatori, per continuare a dedicarsi ai minicalcolatori aziendali.

Nel ’74 Faggin lasciò la Intel e si mise in proprio fondando, a Cupertino, la Zilog, dove mise a punto lo Z-80, uno dei chip più popolari mai realizzati. Anche il nome Zilog fu inventato dallo stesso Faggin: la lettera zeta, ultima dell’alfabeto, stava ad indicare l’ultimo grido del campo dei microcircuiti, la ‘i’ per integrated, e ‘log’ per logico.

La rivoluzione al silicio è definitivamente partita per cambiare esponenzialmente la vita in tutto il mondo nell’ultimo quarantennio. Il passaggio, infatti, per trasformare un calcolatore, che all’epoca prendeva un’intera stanza (vedi l’IBM) in un personal computer, e più recentemente in uno smart-phone, passa per la superficie di un microprocessore grande come un’impronta digitale. E il merito creativo è di Federico Faggin che per primo al mondo riesce a concentrare tutto il gigantesco disegno del circuito in un meraviglioso microchip da “sembrare infine un quadro astratto, e volerlo siglare con le mie iniziali, F.F.”, come ricorda con orgoglio il suo designer e inventore.

Nel 1986 Faggin fonda la Synaptics, dove metterà a punto la prima “pelle del computer”, vale a dire il touch-pad. Per un decennio è il fornitore ufficiale di Apple. Quasi contemporaneamente realizza la tecnologia del touch-screen. Aveva proposto la sua invenzione a varie aziende tra le quali anche Motorola e Nokia, che all’epoca detenevano più della metà del mercato dei cellulari al mondo e qualche anno dopo spariranno nel nulla, ma entrambe non intuiscono l’importanza di questa nuova tecnologia e il suo grande potere.  Faggin incontra Steve Jobs, che intuisce subito i potenziali del touch-screen, e chiede vanamente l’esclusiva. La Synaptics rifiuta avendo lei in mano tutti brevetti della tecnologia e quanto necessario per affrontare un mercato potenzialmente ancora tutto da esplorare. Così Jobs si costruisce all’interno di Apple la tecnologia per il touch-screen, aprendo il mercato alla Synaptics che diventa così il fornitore delle ditte che competono con Apple.

 

Dal 2003 al 2008 Faggin presiede e dirige la Foveon Inc.  spin-off di Synaptics dedicato alla tecnologia di sensori di immagini (Foveon X3 technology), che successivamente verrà acquisita dalla giapponese Sigma.

In parallelo all’attività di Synaptics e Foveon nasce in Faggin una nuova sfida, quella di creare delle macchine capaci. Vuole realizzare delle macchine coscienti.” Inizia così lo studio della consapevolezza prima su sè stesso, perché come dice lui “non si dà consapevolezza se non a partire da se stessi, sperimentando la natura delle percezioni e dei sentimenti.”

Faggin crea nel 2011 la Fondazione Federico e Elvia Faggin. L’organizzazione non-profit, che porta anche il nome della moglie Elvia — fine divulgatrice scientifica oltre che colonna e compagna di mezzo secolo di vita tra ricerca e sperimentazione in Silicon Valley — attualmente finanzia studi sulla natura della coscienza in tre principali università californiane: UC Irvine, UC Santa Cruz dove ha creato una cattedra dedicata alla Fisica dell’Informazione, e l’Institute for Quantum Studies della Chapman University in Orange County.

Faggin ha ricevuto premi e riconoscimenti, oltre a numerose lauree honoris causa, in tutto il mondo, includendo nel 2009 la National Medal of Technology and Innovation, il più alto riconoscimento negli Stati Uniti d’America, consegnatogli dal presidente, Barack Obama

Per le sue invenzioni tecnologiche è l’unico italiano ad essere annoverato come “fellow” della “walk of fame” presso il Computer History Museum di Mountain View.

Alberta Bellussi

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Ieri, ero a pranzo dai miei,   ho trovato una terrina di bovoeti o bogoi, dipende un po’ dalla parte del Veneto che ci troviamo a vivere il loro nome, e ho postato una foto su Facebook. Ho trovato grande entusiasmo da parte dei veneti per questo piatto che appartiene alla tradizione veneziana per eccellenza, invece gli amici dalle altre parti d’Italia non lo conoscono.

Allora ho pensato che i bovoeti meritassero di avere un articolo che parlasse di loro.

Nei bar veneziani ma anche dell’intero Veneto tra i cicchetti che accompagnano l’aperitivo nel bancone, c’è spesso una terrina di bovoetti, tra i crostini con la soppressa, la coppa, la polenta e la porchetta.

I Bovoeti sono delle lumachine che vivono solitamente a terra (non in acqua) o si trovano nelle sterpaglie vicino al mare, ai fossi o nei luoghi umidi; al mattino presto o dopo una pioggia le vedrete attaccate ai rami, Queste piccole lumachine sono i quelli che noi chiamiamo “bovoeti”.  Si raccolgono da aprile ad ottobre in prossimità dei litorali.

I Bovoeti sono una tradizione tipicamente veneziana, non possono assolutamente mancare il giorno del Redentore, che si festeggia a Venezia il terzo sabato di luglio, con fuochi d’artificio in laguna e festeggiamenti fino all’alba.

Si possono trovare nelle pescherie confezionate in retini da 1 kg circa e sono sufficienti per 5-6 persone.

 

Ricetta

Ingredienti per 5-6 persone

– 1 kg di bovoeti;

– abbondante aglio tritato;

– abbondante prezzemolo tritato;

– Sale e pepe: q.b.;

– Olio extra-vergine di oliva.

 

Preparazione

  • Prima di cucinarli bisogna metterli a “spurgare” in una terrina, per almeno un paio d’ore, in acqua e poco sale, coprendoli con un coperchio per non farli scappare. Lavateli poi molto bene sotto l’acqua corrente e metteteli in una pentola con l’acqua fredda.
  • Mettete la pentola sul fuoco; il fuoco deve essere bassissimo perché i bovoletti sentendo il calore escono dal guscio. Quando sono usciti quasi tutti, aggiungere il sale e alzare il fuoco; togliete dunque la pentola e scolate i bovoeti.
  • Fateli raffreddare e conditeli con abbondante aglio tritato, prezzemolo tritato, sale, pepe e olio extra-vergine di oliva (e.v.o.); lasciateli nel condimento per 2-3 ore girando spesso.

 

Attenzione però, i bovoeti creano dipendenza sono un pò come i bagigi uno tira l’altro. Si prende un guscetto in mano e con lo stuzzicadente si mangia la saporita lumachina.

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In Veneto aprile è periodo di asparagi bianchi.

Sparasi e ovi. Risotto con gli asparagi. Frittata. Asparagi in tutti i modi dal primo al dolce. 

Ma cosa sono? Da dove arrivano?

Può sembrare strano ma l’asparago appartiene alla famiglia delle liliacee la stessa dei gigli e dei mughetti. Di questo ortaggio o fiore, forse è meglio chiamarlo, si mangiano i ” turioni “, i germogli, di sapore delicato, che si formano dai rizomi sotterranei. Il rizoma viene sotterrato e ha decorso generalmente orizzontale; da questo partono poi i vari germogli di asparago.

L’asparago, (asparagus officinalis) è originario dell’Asia occidentale, della Mesopotamia, ma lo si trovava anche nell’Europa meridionale dove cresceva come pianta spontanea. Furono poi gli Egizi che lo diffusero in tutto il bacino del Mediterraneo.

Marco Porzio Catone (234-149 a.C.) ne parla nella sua opera “De agricoltura”, descrivendone le tecniche di coltivazione e di impianto. Plinio e Giulio Cesare li citano in alcune loro opere forse erano asparagi selvatici favoriti dal clima piuttosto mite del territorio.

Quando i romani conquistano la Spagna vi diffusero anche la coltivazione dell’asparago che qui trovò il suo habitat ideale; la penisola iberica è ancora oggi una delle zone più produttive a livello mondiale.

Durante il Medio Evo furono quasi del tutto trascurati.  Solo nel 1400 vennero coltivati in Germania, Olanda e Polonia e nel 1700 in Francia.

Sotto Luigi XIV, la sua produzione appare nella zona di Argenteuil, vicino Parigi, dove trova la sua massima diffusione e vengono selezionate pregiate varietà, tra cui l’ottima “Precoce d’Argenteuil”, introdotta poi al seguito dell’esercito napoleonico, prima in Piemonte e in seguito in Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia Romagna e Toscana.

Due sono le versioni che spiegano la presenza dell’asparago bianco nel nostro territorio. La prima racconta che sia stata una scoperta del tutto casuale dovuta ad una violenta grandinata che si abbatté nella zona di Bassano, intorno al ‘500. Questa avrebbe distrutto la parte esterna dell’ortaggio costringendo così il contadino a cogliere la parte che stava sotto terra, cioè la parte bianca. Si accorse, con stupore, che oltre ad essere commestibile era anche saporita e di gusto gradevole e da allora si cominciò a cogliere l’Asparago prima che spuntasse da terra.

C’è un’altra leggenda: si narra infatti che S. Antonio da Padova di ritorno dalle missioni africane avesse portato con sè alcune sementi di asparago e che le avesse proposte per ammansire il feroce Ezzelino da Romano; infatti mentre se ne ritornava nella città patavina, avrebbe seminato tra le siepi del bassanese le sementi dell’asparago che presto spuntarono.

La presenza dell’asparago si trova anche spese nella nota spese per i banchetti della Repubblica Serenissima (XV e XVI sec.) si trovano notizie certe sull’esistenza dell’ortaggio. In documenti datati 1534 per esempio, ci si riferisce a spese fatte per il magnifico messer Hettor Loredan, “Official alle Rason Vecchie… per sparasi mazi 130, lire 3 et soldi 10”. Persino duran- te il Concilio di Trento (1545-1563) alcuni padri conciliari, passando per Bassano con il loro seguito, ebbero modo di gustare tra i vari prodotti locali, anche i “sparasi”; così tra discussioni teologiche e “magnade de sparasi” i padri conciliari promossero, forse, il primo lancio turistico dell’asparago, mettendone in risalto soprattutto le virtù dietetiche.

In Veneto l’asparago bianco è coltivato a Cimadolmo, Badoere, Verona e Bassano e hanno la denominazione  IGP o DOP.

Alberta Bellussi

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Quale donna non si emoziona al regalo di un bocciolo di rosa rosso passione da parte del proprio amato?

Lo sapevi che questa romantica tradizione nasce a Venezia?

Ci sono due versioni una tragica e una più allegra ma entrambe sottolineano l’importanza dell’Amore.

Il 25 aprile giorno della festa del patrono di Venezia, l’evangelista Marco, i Veneziani rivivono un’antica tradizione. E’ usanza, infatti, regalare alla propria donna un bocciolo di rosa rossa in dialetto per l’appunto bòcolo. Le origini di questa usanza sono antichissime.

 

La tradizione poggia le sue radici sulla leggenda del Boccolo di San Marco dove si racconta dell’amore di due giovani, così forte e intenso da essere tramandato nella tradizione veneziana proprio con un fiore, il bòcolo.

La storia dice che, nella seconda metà del IX secolo, la figlia del Doge Orso I Partecipazio, Maria detta Vulcana perché aveva i capelli di un rosso fiammeggiante, amava ricambiata un giovane di umili origini, un certo Tancredi.

Il Doge di Venezia non avrebbe ovviamente approvato la loro unione, così la fanciulla consigliò all’amato di arruolarsi nelle truppe dell’imperatore Carlo Magno a combattere contro i mori di Spagna  per ottenere la gloria necessaria per aspirare alla sua mano. Il giovane si distinse valorosamente in guerra ma fu ferito mortalmente in un roseto.

Prima di morire però affidò all’amico Orlando un bocciolo tinto col il rosso del suo sangue perché lo consegnasse alla sua amata come estremo pegno d’amore. Il 25 aprile, il giorno dopo aver ricevuto da Orlando il messaggio d’amore dell’innamorato, Maria fu trovata morta nel suo letto con il bocciolo sul petto.

Ancora oggi si racconta che il fantasma di Maria, nel giorno di San Marco, il 25 aprile, si aggiri per Venezia, pallida presenza senza colore, se non per quel fiore rosso stretto al petto provata dalla morte del suo grande amore.

La tradizione della festa del Bocolo: storia di un amore a lieto fine

La Festa del Boccolo di Venezia ha però anche una versione meno tragica.  Questa parla di un amore a prima vista tra due giovani appartenenti a due rami nemici della stessa famiglia, i cui orti furono per lungo tempo divisi da un roseto senza fiori.

Questa pianta iniziò a rifiorire proprio il 25 aprile, di fronte allo sbocciare del nuovo amore. Quel roseto proveniva dal luogo di sepoltura di San Marco Evangelista e fu donato, molti anni prima, ad un marinaio della Giudecca di nome Basilio, antenato dei due giovani, quale premio per la sua partecipazione al trafugamento delle spoglie del Santo.  Proprio da questo roseto l’innamorato staccò un bocciolo che donò alla fanciulla, ripristinando così la pace tra le due famiglie.

Non so quale sia la versione che vi piace di più ma sempre di amore e passione si tratta e il simbolo è quel bocciolo di rosa rossa che viene regalato, ancor oggi, alla propria amata in segno d’Amore.

Alberta Bellussi

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La chiocciola, @, è un carattere apparso, insistentemente, nella nostra vita negli ultimi 20 anni. E’ simpatico nel nome, quasi amichevole e fumettistico nella sua rappresentazione grafica.

Ognuno di noi ha un indirizzo mail e quindi ha la sua chiocciolina personale. Non c’è tastiera del Pc che non abbia questo simbolo ma appare dalla combinazione con l’Alt-Gr. Anche sui social network la chiocciola è diventata utile, per i tag, ovvero per far sapere ad una persona che stiamo parlando di lei, per un uso molto comune di questo simbolo.

La usa un numero smisurato di persone ma credo che pochi sappiano che, in realtà,  la chiocciola, detta anche “a commerciale”, ha origini molto, molto più lontane di quello che possiamo immaginare.

La sua storia poggia le basi nella Venezia del pieno medioevo, nel VI secolo d.C., quando l’Impero Romano d’occidente già era caduto ma quello d’oriente ancora era ben saldo. In questo quadro economico Venezia si confermava come una vera e propria capitale dei commerci.  La città veneta aveva un ruolo così importante e predominante che si permetteva il lusso di crearsi unità di misura inventate per rendere più equi possibili gli atti di compravendita.

In questo contesto venne inventata la chiocciola. Il simbolo trae origine dal simbolo à, con l’accento che è stato man mano allungato fino ad essere portato come lo conosciamo oggi nella @, soprattutto per una questione di distinzione grafica tra i simboli.

In realtà graficamente simboleggiava l’anfora, che nei tempi antichi era utilizzata come unità di misura di peso o di capacità a seconda se c’erano all’interno dei solidi o dei liquidi. Le anfore erano considerate un’unità di misura universale, e la chiocciola in questa connotazione fu utilizzata per moltissimi anni, nei commerci.

Nei tempi moderni il simbolo non perse la sua valenza commerciale.  In uno dei primi modelli di macchina per scrivere la chiocciola venne utilizzata   con il significato di “al prezzo di”, quindi ad esempio “2 chili @ 30 dollari”, per risparmiare inchiostro.

Quando nacquero i primi computer che riprendevano la struttura della tastiera proprio dalla macchina il simbolo fu traslato anche sulla tastiera dei dispositivi più moderni.

La vera entrata trionfale da star nella nostra vita la @ chiocciola la fece nel 1971 quando fu inventata la posta elettronica.  L’ingegnere statunitense Raymond Samuel “Ray” Tomlinson di Arpanet responsabile della sua creazione pensò di utilizzare la chiocciola con il significato di “A”, preposizione, per indicare il server a cui il messaggio doveva arrivare. Per esempio, pippo @ server1 significava che il messaggio doveva arrivare a Pippo che si serviva del server1 per leggere la posta. Oggi utilizziamo lo stesso principio infatti ciò che sta dopo la chiocciola è proprio il server, colui che memorizza in uno spazio proprietario i nostri messaggi di posta elettronica, per cui il suo utilizzo, negli ultimi anni, non è mai cambiato.

E’ romantico pensare che questo simbolo @ che lo associamo al massimo della modernità, in quanto ci permette di avere corrispondenza in tutto il mondo in tempo reale, rappresenti da secoli l’anfora antica unità di misura concreta e tangibile.

Il fascino della storia sta proprio in queste piccole curiosità che ritroviamo poi nella nostra quotidianità spesso ignari della loro provenienza.

Alberta Bellussi

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 Mmmh che buoni gli  arachidi croccanti e salati per accompagnare un aperitivo con gli amici …ne mangeremo a manciate perché sono sfiziosi, invitanti. Uno tira l’altro e non ti accorgi che ne hai già mangiati una ciotola intera. In bocca rimane il lieve sapore salato e il dolce dell’arachide che ingolosisce il palato riescono ad esprimersi al meglio  accompagnati da un ottimo Spriz o Gingerino.

Ma tu lo sai che l’inventore di questo croccante stuzzichino è Amedeo Obici originario di Oderzo?

Sì! The Peanuts King è l’opitergino che divenne famoso in tutto il mondo con i bagigi tostati e salati.

Amedeo Voltejo Obici nacque  a Oderzo, in Contrada del Cristo 7, nel 1878, figlio di Pietro e Luigia Carolina Sartor, appartenenti a un ramo decaduto degli Obizzi, antica e nobile famiglia opitergina. Da una situazione quasi catastrofica in Italia infatti la famiglia era poverissima pochi anni più tardi diventerà uno dei maggiori imprenditori degli USA.

Nel 1885 muore il padre e Amedeo deve mollare la scuola per mantenere la famiglia.  Diventa apprendista idraulico, arrotondando i pochi dollari che gli arrivano dall’America dallo zio Vittorio Sartor.

Nel 1889 lo zio gli propone di partire per gli Usa e quindi da solo Amedeo prende il treno per Le Havre, poi la nave per New York e infine il treno per Scranton, in Pennsylvania, dove vive lo zio.

Il ragazzo arriva di notte, ma lo zio non si è presentato ad accoglierlo, avendo sbagliato a capire l’orario. Amedeo, che non sa una parola di inglese, piange sconsolato e un poliziotto gli si avvicina per consolarlo, offrendogli delle noccioline americane che pochi anni dopo saranno la sua fortuna.

Nei sei anni successivi Amedeo fa un po’ tutti i mestieri e impara a parlare l’inglese e coi risparmi che riesce a raccogliere decide di aprire una sua piccola attività.

Amedeo si mette a vendere bagigi; ma la sua idea geniale è quella di venderle sbucciate, tostate e leggermente salate in sacchetti a 5 centesimi.

Si mette in società con un altro emigrante trevigiano, Mario Peruzzi, e capisce subito che per avere successo deve puntare alla qualità ma soprattutto al marketing. La prima campagna promozionale è quella di   regalare un sacchetto di noccioline a tutti  coloro che riescono a comporre la parola “Obici” (il suo cognome) con le lettere incluse in ogni pacco.

Il successo arriva prestissimo!

Fonda una società per azioni che nel 1906 diventerà la Planters Nut and Chocolate Company e si trasferisce a Suffolk, in Virginia, dove gli arachidi le coltivazioni di arachidi rendono al massimo.

Ha poi l’idea di indire un concorso di idee tra gli studenti per creare il logo della ditta; da questo momento Mr. Peanut è un’arachide con occhi, arti, bombetta e bastone che verrà riprodotto in tutte le salse su cartelloni pubblicitari e gadget da vincere con la raccolta punti.

Il personaggio “Mr Peanut”, logo e mascotte della Planters, fu creato nel 1916 da un tredicenne italiano, figlio di immigrati in Virginia, tale Antonio Gentile, che per l’occasione vinse con il proprio disegno la somma di cinque dollari.  In questo periodo alle noccioline tostate si affianca la nascita di nuovi prodotti come le noccioline al cioccolato, le barrette o l’olio di noccioline, quest’ultimo in versioni speciali destinate ad americani, emigranti italiani ed ebrei con rispetto delle loro regole alimentari.

Negli anni trenta la Planters arriva a seimila dipendenti.  Amedeo Obici, the Peanuts King, è un omino grassottello che non ama la celebrità, che aiuta la Chiesa e i bisognosi e che paga di nascosto le spese mediche ai suoi operai. Fa istituire la cattedra di italiano al college di Williamsburg e regala a Suffolk un ospedale che dedica alla memoria della moglie, deceduta nel 1938.

L’anno prima a Oderzo a sue spese avevano costruito un nuovo padiglione dell’ospedale in memoria di sua madre era sempre rimasto legato a Oderzo. Nel 1947 The Peanuts King, questo il suo soprannome, se ne va, lasciando un’azienda con settanta negozi presenti anche in Canada e una fondazione gestirà a fini caritatevoli parte del suo patrimonio.

A partire dal 2000, dopo essere stato quasi dimenticato dai suoi conterranei, la sua fama cresce anche nella sua terra d’origine, con il gemellaggio tra Oderzo e Suffolk. Nel 2004 gli è stato intitolato l’Istituto Statale di Istruzione Superiore “A. V. Obici” in Oderzo. L’inaugurazione si è tenuta il 24 maggio 2004 con la posa del monumento raffigurante Mr. Peanut posto nel giardino della scuola. (Fonte Wikipedia).

E’ così grande la sua fama che anche i Simpson nella puntata  num. 337, intitolata “tutto è lecito in guerra e cucina” è dedicata a Mr Peanuts.

Evviva i bagigi! Evviva i Veneti nel mondo e la loro intraprendenza!

Alberta Bellussi

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L’8 marzo è la Festa della Donna festa istituita negli USA a inizio secolo ma a me piaceva oggi parlare di una donna veneta, la cui figura mi ha sempre affascinata da quando ne sono venuta a conoscenza ed è la prima laureata al mondo:  Elena Lucrezia Cornaro Piscopia. L’idea che una donna nel lontano seicento  amasse la cultura e lo studio e avesse lottato per questo mi piace e lo ritengo esempio di grande emancipazione femminile.

Elena ha  ottenuto, infatti,  la laurea in filosofia all’Università di Padova nel 1678. La cosa strana è che l’Italia vanta la prima donna laureata al mondo e forse non lo sa nemmeno.

Non c’è un’aula universitaria intitolata, né un francobollo celebrativo, da poco un istituto scolastico superiore di Jesolo si chiama con il suo nome.

Elena vanta un credito enorme  con il nostro Paese, ed sarebbe ora di darle il giusto merito. Laurearsi e essere donna di cultura nel ‘600 non deve essere stata cosa semplice per lei ma era determinata e votata allo studio.

Figlia naturale del nobile Giovanni Battista Cornaro, procuratore di San Marco, e della popolana Zanetta Boni, nacque a Venezia nel 1646, quinta di sette figli. Venne iscritta all’albo d’oro dei nobili a 18 anni, quando il padre sborsò 100.000 ducati per elevare a patrizi lei e i suoi fratelli. Si appassionò presto agli studi, in cui venne seguita dal padre, deciso a servirsi delle doti di Elena per riscattare il lustro della famiglia Cornaro; a questo scopo la affidò al teologo Giovanni Battista Fabris, al latinista Giovanni Valier, al grecista Alvise Gradenigo, al professore di teologia Felice Rotondi e al rabbino Shemel Aboaf, da cui Elena apprese l’ebraico. Studiò anche lo spagnolo, il francese, l’arabo, l’aramaico, e arrivò a possedere una profonda cultura musicale. Accanto alla passione per lo studio, Elena coltivava un’autentica vocazione religiosa, che la spinse a diventare, diciannovenne, oblata benedettina.  Questa scelta scontentò i genitori, intenzionati a farla sposare, ma evitò loro la delusione di una reclusione monastica e permise alla giovane di vivere seguendo la regola benedettina. Nel 1677 fece domanda per addottorarsi in teologia, ma il cancelliere dello Studio padovano, il cardinale Gregorio Barbarigo, oppose un fermo rifiuto alla sua richiesta. A una donna, infatti, non era concesso ricevere il titolo di dottore in teologia. Inizia, così, una lunga polemica tra lo Studio di Padova, che aveva acconsentito alla laurea, e il cardinale Barbarigo. A 32 anni, il 25 giungo del 1678,  Elena ottiene, finalmente, la sua laurea: gliela concedono, però, in filosofia e non dunque in teologia, come inizialmente desiderato.

La donna, che aveva condotto i suoi studi interamente a Venezia, si trasferì a Padova solo dopo la laurea, andando ad abitare a Palazzo Cornaro, vicino al Santo. La sua costituzione, già debole, era stata messa alla prova dallo studio e dalle macerazioni ascetiche; si ammalava di frequente e anche per lunghi periodi, fino a morire nel luglio del 1684. Venne sepolta nella chiesa di Santa Giustina a Padova.

La sua cultura era così elevata che era considerata dai familiari un fenomeno da esibire, donna erudita in grado di affrontare dissertazioni filosofiche e capace di dialogare in latino. A  quell’epoca stupiva gli intellettuali che tutto ciò accadesse in un corpo di donna. Lei non usava la cultura né come affermazione della dignità femminile, né  per  competere con gli uomini in campo intellettuale. Elena Lucrezia Cornero si prese la sua rivincita, era divenuta una celebrità, tutti la cercavano perché volevano parlare con lei. Anche Luigi XVI manda i suoi informatori a verificare le doti eccezionali della donna. Qualcuno racconta che ci fossero, quel giorno, 30mila persone che partecipavano all’evento.

Elena muore giovane a soli 38 anni e di lei rimane pochissimo.

Nel 1773 Caterina Dolfin donò all’Ateneo padovano la statua raffigurante Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, che ora è posta ai piedi dello scalone Cornaro, nel Cortile Antico di Palazzo Bo e solo nel 1969, nell’occasione del tricentenario, si muove finalmente l’Università di Padova, che avvia delle ricerche su Elena e  conferma la verità della storia.

W le donne  tenaci e determinate. W le donne libere e la cultura è un grande mezzo di libertà.