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l Lago di Misurina è, sicuramente, uno dei laghi più belli d’Italia.

È un lago naturale che si trova nel Cadore, in provincia di Belluno, a 1.754 metri di altitudine ed è molto grande. Ha un perimetro di 2,6 chilometri ed è profondo circa 5 metri. D’estate è un’importante meta di turismo, ma anche in inverno solitamente il lago si ghiaccia completamente e diventa completamente calpestabile. Questo lago oltre ad essere famoso per le proprietà benefiche della sua acqua che rende l’aria curativa per chi soffre di disturbi respiratori, custodisce la sua origine in una delle più famose leggende delle Dolomiti.

La conoscete?

La leggenda narra la storia di Misurina, figlia unica del re Sorapiss, governatore delle terre comprese tra le Tofane, l’Antelao, le Marmarole e le Tre Cime di Lavaredo.

Misurina era una bambina viziata, molto capricciosa e dispettosa, ma era anche una bambina molto graziosa.

Per il re Sorapiss, rimasto vedovo, era l’unica ragione di vita. Il re giustificava quindi il comportamento della bambina dando la colpa di tutto alla sofferenza che la piccola provava per la mancanza della figura materna.

Al compimento dell’ottavo anno di età, Misurina venne a conoscenza dell’esistenza di una fata che viveva sul Monte Cristallo e che possedeva uno specchio magico, il quale dava il potere di leggere i pensieri di chiunque vi si specchiasse. Misurina supplicò lungamente il padre affinché le procurasse lo specchio, che desiderava a ogni costo, finché Sorapiss cedette e l’accompagnò. La fata resistette a lungo, perché non voleva accontentare quella bimba capricciosa ma, di fronte alle lacrime di Sorapiss, finì per acconsentire, ponendo però una condizione, nella speranza che il re e sua figlia rinunciassero. La fata possedeva un bellissimo giardino ricco di fiori stupendi sul Monte Cristallo, ma l’eccesso di sole li appassiva prematuramente.  Sicché chiese, in cambio dello specchio, che Sorapiss accettasse di essere trasformato in una montagna, che proteggesse con la propria ombra il giardino della fata. Il re acconsentì.

Quando Misurina ricevette lo specchio e venne informata del patto, non si scompose, anzi, si mostrò entusiasta all’idea che suo padre, per renderla felice, diventasse una montagna, sulla quale lei avrebbe potuto correre e giocare. Ma in quello stesso istante, mentre Misurina contemplava lo specchio, Sorapiss cominciò a trasformarsi, gonfiandosi e cambiando colore: i capelli divennero alberi e le rughe crepacci.

Misurina si accorse improvvisamente di trovarsi in alto, sulla montagna che era stata suo padre e, rivolgendo lo sguardo in basso, fu colta da un capogiro e precipitò nel vuoto. Il re Sorapiss, nei suoi ultimi istanti di vita, dovette così assistere impotente alla tragica morte di sua figlia, sicché dai suoi occhi ancora aperti sgorgarono così tante lacrime da formare due ruscelli, i quali si raccolsero a valle formando un immenso lago, che prese il nome di Misurina. Lo specchio, cadendo, si infranse tra le rocce e i frammenti furono trascinati a valle dai ruscelli di lacrime del re, dove ancora oggi danno riflessi multicolori e che rendono ancora oggi il Lago di Misurina un luogo unico al mondo.

Alberta Bellussi

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I boschi del Montello, il Cansiglio, i boschi vicino al Piave e non solo, un po’ in tutto il Veneto vi sono luoghi di misteri e leggende tramandate oralmente, di generazione in generazione, fin dall’origine dei tempi.

Si racconta infatti che tutta la zona sia stata, da sempre abitata, da creature magiche tipiche del folklore veneto come: fate, anguane, draghi, spiritelli vari e anche il Diavolo, o altri piccoli diavoletti scontrosi e antipatici in una sorta di contrapposizione continua tra bene e male

Ma non li avete mai visti?

Può essere perché sono discreti e timidi non amano farsi vedere dai comuni mortali, tanto che, dato che nei boschi sono presenti fenomeni carsici che creano spesso doline e grotte, si nascondono quasi tutto il giorno da occhi indiscreti e curiosi per uscire al tramonto e di notte.

Ma da cosa hanno origine queste leggende magiche e fantastiche?

Probabilmente la fauna della zona, ricca di aquile reali, gufi reali (tipici portafortuna nella storia mondiale), pippistrelli, rapaci vari, scoiattoli, ghiri, volpi, donnole, faine, oltre a tassi, daini, caprioli, cervi e cinghiali ma anche di una flora molto ricca e variopinta.

Proprio a questa flora appartiene la pianta dei “Mamai”, chiamati anche “Lino delle Fate”.

Si presentano con un fusto che arriva anche a 60 centimetri e proprio in questo periodo, estivo, la pianta fiorisce mettendo pennacchi piumosi attorcigliati alla base.

Il pennacchio, bagnato nel latte di calce ed esposto al sole, diventa presto vellutato come la pelle di gatto, o pelliccia morbida che si dice “mamao” appunto in dialetto veneto.

Il nome con il quale sono invece, universalmente conosciute queste piante, è Stipa pennata ma spesso viene chiamata anche “Lino delle fate”.

 Perché?

La leggenda vuole che le fate, alla ricerca di tessuti speciali per i loro splendidi abiti, scendano a valle dalle loro foreste incantate per cogliere i lunghi fiori piumosi di questa particolare pianta, per poi tessere le loro vesti argentate e luccicanti.

“La festa dei Mamai si svolge da moltissimo tempo nel paese di Moriago, lungo le rive del Piave,  e potete provare a cercarle: dicono che lascino alle loro spalle un luccichio di polvere magica e un intenso profumo di fiori…

Alberta Bellussi

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Dei boschi della Serenissima ho sempre sentito parlare.

Nella sua lunga e secolare storia la Repubblica di Venezia ha sempre considerato con grande attenzione e lungimiranza i problemi ambientali perché preservare la laguna voleva dire proteggere la città.  Città e ambiente sono stati, sempre, strettamente legati: acque e boschi erano gli elementi fondamentali del rapporto fra natura e uomo, finalizzato ad un intelligente sfruttamento delle risorse, che mirava alla conservazione del patrimonio ambientale sia della laguna che dell’entroterra.

I boschi delle colline e delle zone montane, erano per Venezia, fonte di prezioso legname, materia prima per la costruzione di edifici e di navi, nel famoso Arsenale. Il legname era per l’economia della Repubblica di Venezia una risorsa di primaria importanza; dai tronchi dei roveri, dei faggi, degli abeti si ricavava, infatti, la materia prima per costruire le navi, che permettevano ai mercanti veneziani di arricchire se stessi e la propria Repubblica mediante i commerci con l’Oriente.

Milioni di alberi, inoltre, furono utilizzati dai Veneziani per fondare la città, edificata su fondazioni di palafitte, e per costruire gli argini a difesa dalle onde del mare aperto.

Grande attenzione fu quindi riservata dal governo della Serenissima alla cura dei boschi delle zone dell’entroterra. II Bosco del Cansiglio ne è un esempio che si può ancora vedere ai giorni nostri; nei secoli è stato sottoposto ad uno sfruttamento equilibrato pur consentendo di ricavare il prezioso legname.

Nella foresta del Cansiglio, appunto, si coltivavano i faggi, che servivano per fare soprattutto i remi delle galee.

Nelle vallate del Cadore, del Comelico, dell’Ampezzano e dell’Agordino, le piante abbattute erano soprattutto abete bianco, abete rosso e larice.  Il bosco degli alberi di S. Marco, che si trovava in località Somadida (Auronzo di Cadore) In quel punto la vallata era protetta dai venti dai Cadini di Misurina e dalle Marmarole, sopra il bosco, a sud, vegliava una montagna detta il Corno del doge, per la sua cima molto simile al copricapo del doge. Qui il sole penetrava poco all’interno della vallata e il clima era, per quasi tutto l’anno, molto rigido per cui le piante crescevano molto lentamente alte e diritte. Erano le piante ideali per realizzare le alberature delle galee, delle cocche da carico e dei galeoni da battaglia della Serenissima.

Il bosco dei remi di S. Marco era localizzato nell’attuale altopiano che sovrasta in Alpago il lago di S. Croce.

Il bosco dei roveri del Montello, vasta collina morenica alla destra del Piave, all’inizio della pianura veneta era un’area dove si coltivavano le querce. Divisa in settori, con un guardiano per ogni settore, era fatto divieto assoluto di entrare nel bosco e pene severissime erano comminate a chi trasgrediva. Il Montello era il bosco protetto dei roveri, (querce) queste erano utilizzata per le parti portanti della nave, le ordinate e la chiglia.

I boschi erano quindi di vitale importanza per la città di Venezia sia per l’equilibrio ambientale che economico.

Il fatto che la tutela dei boschi servisse per evitare il dissesto idrogeologico e l’interramento della laguna era ben chiaro, già, nel 1400. Infatti il segretario del Senato veneziano scriveva nel 1476: «Il diboscamento è causa manifestissima dell’interramento di questa nostra laguna, non avendo le piogge e altre inondazioni alcun ritegno né ostacolo, come avevano dai boschi, a confluire nelle lagune». Così veniva giustificata l’esigenza dei primi provvedimenti legislativi a tutela dei boschi.

La tutela della foresta permetteva anche una migliore difesa del territorio e della laguna stessa. Era ben chiaro, fin da quei tempi, lo stretto rapporto che lega il diboscamento, ed il conseguente dissesto idrogeologico delle zone montane, ai guasti causati dalle inondazioni a valle, fino al pericolo dell’interramento della laguna.

Per la Serenissima era quindi importantissimo tutelare i boschi ci sono alcune testimonianze scritte dai magistrati veneziani dopo le periodiche ispezioni alle foreste.

Così si esprimeva Alvise Mocenigo, podestà di Belluno, dopo un’ispezione al Bosco del Cansiglio nel 1608: «Ho veduto i boschi che ha la Serenità vostra in Alpago – Cansiglio e siccome devono esserle carissimi a guisa di prezioso tesoro, poiché essendo copiosissimi di faggi, avendone la debita cura, suppliranno per sempre abbondantissimamente al bisogno che possa avere di remi per galee la più grossa e potente armata che in qualsivoglia tempo si decidesse di mandar fuori».

Da queste testimonianze si evince l’importanza che la tutela dei boschi ebbe per Venezia e si capisce il motivo della legislazione contro l’abbattimento senza criteri di alberi, emanata dal Senato e dal Consiglio dei Dieci per garantire la conservazione di una così importante risorsa naturale. Concludiamo con le parole di uno di questi divieti, emesso dal doge il 20 febbraio 1687: «Si fa pubblicamente intendere a cadauna sorte di persone, così uomo come donna, fanciulli e fanciulle, nessuno escluso, che non si debbono in alcuna maniera scorzar (togliere la corteccia), tagliar o in altro modo danneggiare i roveri tagliati per l’Arsenal nostro».

Alberta Bellussi

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Ho sentito, in questi giorni, parlare del “gelato veneto della rinascita”: lo sbatudin … subito mi si sono aperti un sacco di cassetti della memoria: emozioni, ricordi, sapori e profumi di un tempo.

Ricordi d’infanzia, ricordi di bambina, di quando la nonna mi vedeva un po’ giù e pallida, anche se da biondina quale sono sempre stata tanto colorata non sono mai stata, e mi diceva:

Bertina sentate che te fae un sbatudin e te te tira su subito”.

Mi piaceva un sacco questa coccola per la mia salute. Mi sedevo e attendevo che lei compisse tutto quel rito di fare questo ricostituente naturale che era abituale per chi viveva nella campagna veneta.

Bastava poco, un uovo fresco raccolto dalle galline che giravano per i cortili delle case rurali, dello zucchero e olio di gomito per farlo bello cremoso.

Le braccia della nonna erano come un minipimer umano sotto la sua vigorosa girata veniva cremoso lo sbatudin, la maionese, gli albumi montati a neve …aveva un che di magico.

Io ero seduta, emozionata e impaziente che la guardavo romper l’uovo, quello più grande che aveva, poi buttava un po’ alla volta lo zucchero e iniziava a mescolare energicamente.

 Il suo sbatudin era così cremoso, profumato e colorato, ma di un colore così intenso, così giallo, che mi sembrava di vederci dentro il sole e stavo meglio solo alla vista.

A volte mi buttava anche un goccino di caffè, che aveva nella moka sopra la stufa, di nascosto dalla mamma oppure i grandi lo prendevano con il Marsala. Quando ci buttavo il caffè lo intingevo con un paio di savoiardi  e me lo metteva sempre in una tazzina da the.

E poi ha continuato a farmelo quando avevo gli esami all’Università; era diventato una sorta di gesto d’amore che era divenuto scaramantico per la buona riuscita dell’esame e quando tornavo con un bel voto tutta fiera mi diceva: “ ecco veditu el me sbatudin”.

 

Ricetta

Difficoltà: Bassissima

Tempo di preparazione: 3 minuti

Ingredienti per lo sbatudin:

– 1 uovo medio freschissimo e biologico;

– 1 cucchiaio di zucchero

– caffè q.b.

Preparazione:

Rompete l’uovo, separare il tuorlo, mettetelo in un bicchiere, aggiungete lo zucchero e con una forchetta sbattetelo energicamente fino a far diventare l’uovo bello cremoso.

Aggiungete un goccio di caffè e gustatevi il vostro uovo sbattuto prima della colazione e per tirarvi su quando ne avete bisogno.

Alberta Bellussi

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Leggevo l’altro giorno un articolo di un sondaggio fatto su un campione di 500 italiani sulle regole base della buona educazione il cui esito è stato disastroso.

Non mi sono stupita   perché sembra che buon senso, buona educazione e buone maniere stiano sempre più diventando   “azioni in via di estinzione” nella vita quotidiana. Una parola dal sapore antico comprende tutte queste norme ed è il termine galateo; è un codice che stabilisce le aspettative del comportamento sociale, la norma convenzionale.

Il galateo, questo grande sconosciuto!

Se pensiamo che al giorno d’oggi dare la precedenza ad una signora più anziana o chiedere permesso prima di entrare in una stanza siano formalità evitabili ci sbagliamo di grosso. D’accordo, bisogna ammettere che i tempi sono cambiati e pretendere che un uomo ci apra lo sportello dell’auto per farci sedere o che si congeda con il baciamano è probabilmente una questione fuori luogo però quando ciò  accade, raramente, stupisce piacevolmente.

Il galateo e le regole del “bon ton”, non passeranno mai di moda, anzi, in questo mondo frenetico, il sapersi comportare, sia in privato che pubblico è un grandissimo valore aggiunto per la persona.

 Il galateo è stato scritto proprio in Veneto.

Nel Galateo di Monsignor Della Casa, pubblicato postumo nel 1558. Redatto nell’abbazia di Sant’Eustachio a Nervesa sul Montello, tra il 1552 e il 1555, il Galateo (il cui titolo completo è Trattato di Messer Giovanni Della Casa, il quale sotto la persona d’un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de’ modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo overo de’ costumi).  E’ un breve trattato in forma di dialogo, in cui si immagina un “vecchio” (dietro il quale è celata la figura dello stesso autore) che impartisce insegnamenti ad un ipotetico giovane diviso in trenta capitoli ripartiti quasi sicuramente dall’editore che detta le regole consone alla conversazione, all’abbigliamento e ai costumi di un gentiluomo. Scopo dell’autore era quello di insegnare al gentiluomo il buon comportamento da tenersi nella vita quotidiana.

Tutta questa serie di norme, che andavano dal corteggiamento alla composizione della tavola, dalla corretta scrittura delle lettere all’organizzazione del matrimonio, dalla comunicazione al contegno, erano dettami importanti per condividere bene il proprio spazio con gli altri.

L’Abbazia di Sant’Eustacchio è un luogo molto bello che merita davvero una visita.

Era un importante monastero benedettino, sopresso nell’ 800 e oggi recentemente restaurato. Essa sorge a Nervesa della Battaglia, in un luogo strategico per la sua posizione sopraelevata e la vicinanza del Piave, che qui offriva numerose possibilità di guado.

Fu fondata prima dell’anno 1062 da Rambaldo III di Collalto e dalla madre Gisla per limitare il potere dei vescovi di Treviso, che avevano tolto loro il controllo della marca trevigiana, con un’istituzione che dipendesse direttamente dal pontefice, il quale dal canto suo non vedeva di buon occhio l’espansione dei vescovi trevigiani, sostenitori dell’imperatore. Nonostante il numero esiguo di monaci presenti, il capitolo poteva contare su vasti possedimenti e sulla protezione dei Collalto. Nel 1231, papa Gregorio IX riconosceva a Sant’Eustachio il controllo di trentacinque tra pievi e cappelle poste in tutto il territorio trevigiano sino a Mestre; diventando di fatto sempre più autonoma.

Durante il XIV secolo i vescovi di Treviso approfittarono delle varie crisi susseguitesi dovute allo scima d’occidente, alla peste e alle invasioni degli Ungari, per estendere la loro influenza su questo capitolo. Nel 1521 Papa Leone X, visto il lento ed inesorabile decadimento del capitolo, dovuto anche anche al malcostume dei suoi frati, soppresse l’Abbazia trasformandola in prepositura commendatizia sottoposta indirettamente al controllo dei Collalto (18 prepositi su 21 erano dei Collalto). Rimanevano anche i vari privilegi e possedimenti e, di conseguenza, i contrasti con il vescovo. Tra il XVI e il XVII secolo questo luogo divenne un importante polo culturale in grado di attrarre personaggi illustri, tra i quali va menzionato sicuramente Monsignor Della Casa, che qui compose il noto Galateo.

Tra il 1744 e il 1819, il complesso fu guidato dal preposito Vinciguerra VII di Collalto, uomo colto e capace che lo trasformò in un’importante azienda agricola retta da esperti e studiosi. Fu grazie a lui che la prepositura sopravvisse alle soppressioni napoleoniche di inizio Ottocento, che invece colpirono la vicina certosa di San Girolamo. In seguito, tuttavia, le autorità ecclesiastiche giudicarono inutile e obsoleta questa istituzione e, nel 1865, essa venne definitivamente soppressa. Dopo la Rotta di Caporetto, l’edificio si ritrovò in prossimità del fronte del Piave e subì pesanti danneggiamenti.

Ora riportato agli antichi splendori grazie al restauro di Giusti.

Alberta Bellussi

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La Pasqua è la festa cristiana per eccellenza.

A Venezia anche la Pasqua è stata influenzata dalle città con le quali la Serenissima si rapportava. Pensiamo infatti come la città di Venezia, più di tutte, per il suo glorioso passato e grazie al commercio abbia potuto confrontarsi con culture e religioni di tutto il mondo, rivedendo il proprio modo di intendere le tradizioni religiose. Basti pensare quanti credo religiosi sono presenti nella città, da uno dei più importanti Ghetti Ebraici del mondo, a San Lazzaro degli Armeni con la chiesa ortodossa, ai copti, alle tantissime chiese cristiane ecc.

Per esempio l’utilizzo dell’uovo è stato preso dalla cultura orientale con la quale Venezia era a contatto quotidiano. L’uovo, da sempre, è considerato il simbolo della vita e della rigenerazione e rispecchia quindi il messaggio pasquale della vittoria della vita sulla morte…

Il giorno della Pasqua si festeggiava con l lauti banchetti e con la preparazione della dolce “fugassa” (focaccia), molto simile all’attuale colomba pasquale; si festeggiava la resurrezione di Cristo, la Sua rinascita e si poneva fine al periodo del digiuno e delle privazioni quaresimali.

A Venezia c’era però anche una festa nella festa; il doge con tutto il suo seguito, effettuava una di quelle “andate”, come si chiamavano i cortei dogali che si svolgevano in determinate ricorrenze, per recarsi, a piedi lungo la Riva, alla chiesa di San Zaccaria e all’annesso monastero, dove veniva accolto, sul portone, dalla badessa congiuntamente alle altre monache.

Il doge veniva quindi accompagnato all’altare maggiore dove, insieme a tutta la Signoria, ascoltava la messa officiata dal Patriarca. Subito dopo si svolgeva un sontuoso banchetto nel refettorio del convento, preparato dalle monache in suo onore. Non solo, in questa occasione, il doge veniva anche omaggiato con un corno dogale, la corona del doge, confezionato dalle stesse monache. La leggenda e la cronaca fanno risalire il primo omaggio del tradizionale corno al doge, alla badessa Agostina Morosini, che offrì il primo al doge Pietro Tradonico (836-864).

Non solo il doge godeva delle bontà gastronomiche pasquali.

Proverbi culinari pasquali

Fugassa e uova entrarono a far parte del cultura culinaria pasquale veneta a tal punto che ne derivarono alcuni proverbi:

“No xè Pasqua sensa fugassa”

 “Xè Pasqua, xè Pasqua che caro che gò, se magna ea fugassa, se beve i cocò”

A Pasqua, trista xè la polastra che no la fa el vovo

 

RICETTA: La fugassa veneta

per uno stampo di carta per focaccia da 750 grammi

Ingredienti

250 g di farina 00

250 g di farina manitoba

70 ml di latte tiepido

4 uova intere medie a temperatura ambiente

12 g di lievito di birra fresco* (aumentate la quantità ( a 20 g) se dovete ridurre i tempi e farla in giornata senza riposo notturno)

150 g di zucchero

100 g di burro temperatura ambiente

1 presa di sale

5 cucchiai di aroma spumadoro oppure buccia di arancia e limone grattugiata

Per glassare:

latte

burro

2 cucchiai di zucchero zucchero in granella

oppure

1 albume

2 cucchiai di zucchero zucchero in granella

mandorle

Istruzioni

Per il lievitino:

In un recipiente di vetro sciogliete il lievito di birra nel latte tiepido, con 20 grammi di zucchero e 100 grammi delle farina che avrete mischiato. Formate la pastella coprite con della pellicola e lasciate riposare, fino al raddoppio (circa 1 ora).

Primo impasto:

Nel recipiente della planetaria, unire 200 grammi di farina, 2 uova e 80 grammi di zucchero. Aggiungete il lievitino e cominciate a lavorare il tutto con il gancio fino a che l’impasto inizia ad incordare.

Unite 50 grammi di burro morbido a piccoli pezzetti e continua a lavorare per circa 30 minuti, finché l’impasto sarà molto morbido e liscio.

Formate una palla con l’impasto e mettete a riposare coperto, al caldo, finché non sarà raddoppiato (circa 1 ora 1 ora e 1/2).

Secondo impasto:

Sempre nella planetaria, aggiungete la restante farina (200g ), 50 grammi di zucchero e le 2 uova, il sale e gli aromi.

Aggiungete l’impasto lievitato e cominciate a lavorare un’altra volta con il gancio finché sarà bello liscio, e unite gli altri 50 grammi di burro morbido a pezzetti.

Continuate a lavorare finché l’impasto sarà bello liscio, molto morbido ed elastico ma non appiccicoso. Ci vorrà un po’ più di tempo, anche 45 minuti. L’impasto sarà pronto quando si staccherà in un unico blocco.

Quindi rimettetelo a riposare, coperto con la pellicola, finché sarà raddoppiato. Io anche tutta la notte a temperatura ambiente (circa 20°C).

finale:

Sgonfiare l’impasto, formate una palla e mettetela nell’apposito stampo e lasciate ancora a lievitare in un posto caldo, coperto, circa 2 ore. L’impasto dovrà arrivare al bordo dello stampo. Lasciate l’impsto scoperto per 10-15 minuti in modo che si formi una leggera pellicola e con una lametta praticare un taglio a croce.

Spennellate il dolce con la “glassa”: per la versione più semplice, che io preferisco, spennellate con un po’ di latte e mettete qualche pezzetto di burro poi cospargete con lo zucchero in granella o semolato. Per la versione più ricca montate a neve l’albume con lo zucchero, spennellate la superficie del dolce e cospargete di zucchero in granella e mandorle.

Mettete in forno caldo statico a 170°C su una placca, a griglia possibilmente, e appena la focaccia si colorerà sopra coprite con un foglio di carta alluminio e portate a cottura finale. Ci vorranno circa 45-50 minuti, fate la prova stecchino e fatela raffreddare su una gratella.

Una volta raffreddata potete conservarla per qualche giorno dentro ad un sacchetto di plastica per alimenti.

Alberta Bellussi

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Qualche tempo fa ho letto un libro sull’influenza del Palladio nel paesaggio americano e mi piaceva condividere con voi alcuni punti che mi hanno resa orgogliosa di questo.

Molti storici e intellettuali ritengono che un uso sapiente dell’architettura sia uno degli elementi che hanno contribuito a creare l’identità di un Paese come l’America.

La Casa Bianca, sede della Presidenza degli Stati Uniti e uno dei simboli del Paese, e  il Campidoglio, edificio sormontato da una cupola centrale sono entrambe di forme palladiane.

Fu il terzo presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione d’Indipendenza. Thomas Jefferson (1743-1826), colui che scrisse materialmente la Dichiarazione d’Indipendenza e fu il terzo presidente degli USA.

Fu lui, senza ombra di dubbio, l’americano che più di ogni altro contribuì a dare un volto alla nuova nazione attraverso l’arte, l’architettura e il disegno del territorio. Fu un visionario ma anche un pragmatico, un uomo d’azione e insieme un intellettuale che conosceva il latino e il greco e che era convinto che il Nuovo Mondo si potesse costruire solo attraverso la razionalità, la bellezza del paesaggio e l’armonia del vivere, ispirati all’ ideale palladiano

Avete presente quelle vedute aeree delle campagne o delle città degli Stati Uniti tutte suddivise in quadrati regolari?

È stato Jefferson a fare in modo che fosse così, impostando una griglia riferita ai meridiani e paralleli, ispirandosi agli antichi Romani.

Ricordate la Casa Bianca, con il portico su colonne come una villa palladiana?

Jefferson avrebbe voluto addirittura una copia ingrandita della Rotonda di Vicenza, e comunque la casa del Presidente dei nuovi Stati Uniti, nati da una guerra sanguinosa contro una monarchia, doveva ispirarsi all’architettura repubblicana, com’era la Repubblica di Venezia.

Nel 1784, la Repubblica di Venezia era stata il primo Governo a riconoscere l’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Nel 1786 Jefferson arrivò a Venezia con una delegazione composta anche da Thomas Moore e Benjamin Franklin, per prendere visione delle leggi della Serenissima ed adottarle, dopo opportune modifiche, per la Costituzione degli Stati Uniti. Costituzione che è tuttora in vigore in quel Paese.

A Venezia, nella Repubblica Serenissima, venne Jefferson a prendere i fondamenti per quello che anche ora tutti ritengono un ordinamento modello. E conoscere e poi copiare la  ”civiltà della villa”, nata nelle nostre terre, per importare il buon vivere, l’ armonia con la natura, nel Paese che usciva da lotte sanguinose. Dettagli che non molti conoscono e che non sono riportati nei testi scolastici.

Andrea di Pietro della Gondola, figlio di un umile ”tajapiera” padovano, per noi veneti non avrebbe bisogno di presentazioni, è sinonimo di Architettura, non solo per noi veneti, la sua grandezza infatti era arrivata Oltreoceano. Una tale grandezza che nel 2010 il 111º Congresso degli Stati Uniti d’America ha dichiarato Andrea Palladio «Padre dell’architettura americana».

Questo anche in considerazione del fatto che «i monumenti architettonici americani ispirati sia direttamente sia indirettamente dagli scritti, dalle illustrazioni e dai progetti di Palladio formano una grande e inestimabile parte dell’eredità culturale della Nazione» e che «I Quattro Libri dell’Architettura» furono la fonte a cui molti dei grandi edifici classici americani dei secoli XIX e XX trassero ispirazione.

Il discepolo di Palladio Vincenzo Scamozzi, nella sua terra natale, portò a termine numerose opere del maestro, tra cui il celebre Teatro Olimpico a Vicenza. Il Neopalladianesimo riscosse un notevole successo fino al XIX secolo. L’architettura del Palladio dal Veneto ebbe rapida diffusione in tutta Europa. Andrea Palladio stesso venne riconosciuto come il precursore del Neoclassico, il suo stile influenzò le opere di architetti inglesi come Inigo Jones (1573-1652) il primo a importare il neoclassicismo Oltremanica, e Christopher Wren (1632-1723 ). Tra le opere di Wren non si può non ricordare la celeberrima cattedrale di Saint Paul a Londra.

Alberta Bellussi

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Caro Veneto,

quando sei ferito ho bisogno di scriverti e di esprimerti la mia gratitudine, di dimostrarti il mio amore.

Sono passati pochi mesi da quando cercavo di sostenerti con il tuo cuore pulsante ferito: Venezia, le spiagge, le isole e i paesini colpiti da quelle tremende mareggiate che ti hanno inginocchiato. Pensavo bastasse quella sofferenza e invece no sei di nuovo messo davanti ad una prova dura e difficile. Nella tua storia, caro Veneto, ne hai vissute di battaglie, di difficoltà e di momenti difficili e ne sei sempre uscito con dignità, con umiltà e fiero. Ora sei di nuovo in difficoltà ma soprattutto sei nella bocca di tutto il mondo per un’emergenza sanitaria inaspettata…tu che accogli tutti con le tue molteplici meraviglie di cui sei disseminato ora i tuoi amati veneti sono quasi evitati come fossero untori… non ti preoccupare noi veneti non ci abbattiamo e non ti abbandoniamo e anche questa volta con la dignità, la tenacia, la caparbia, l’umiltà e la solidarietà che ci appartiene torneremo a fiorire come un tempo.

In fondo pensare di vivere in Veneto mi ha sempre dato un enorme senso di protezione e mi ha sempre fatto sentire al sicuro anche ora che sei fragile e un po’ ammalato.

Ho sempre pensato al Veneto come a un Paese forte, maschio, pieno di storia e bellezza che sa proteggere i suoi figli, che si prende cura di loro con amore e passione e lo penso ancora.

Qualche mese fa ti ho visto ferito nel tuo cuore perché Venezia è il cuore pulsante di questa Regione; è storia, bellezza, arte, sogno, poesia …. è la meravigliosa eredità che ci ha lasciato 15 secoli di Repubblica Serenissima che ogni veneto porta nel DNA dal mare ai monti… appartiene a tutti noi.

Ti ho visto fragile e vulnerabile   piegato alla potenza della natura che non perdona e alla superficialità dell’uomo che capisce il valore delle cose solo quando le sta perdendo.

Ora ti vedo fragile colpito da un virus quasi sconosciuto che viene da lontano da quella Cina che con il Veneto ha legami secolari di scambi e commerci. Virus che colpisce persone, paesi in quarantena ma che la sanità più eccellente al mondo trova il modo di dare risposte e cure. Virus che ha fermato tutto; ha resettato la frenesia, ha inginocchiato in un secondo l’economia, ha rallentato il Veneto e il mondo intero.

In questi anni sei stato messo duramente alla prova in quelle eccellenze che ti rendono unico e con le quali hai affascinato e continui ad affascinare tutto il mondo: Venezia, le isole, le spiagge, le città, i paesi, i borghi, il Piave, i fiumi, i laghi, le Dolomiti…e ora sono colpiti anche i tuoi abitanti, la tua economia.

Però sono certa che ci rialzeremo presto e anche se non sarà facile, questa volta, torneremo ad essere il VENETO BELLISSIMO.

Perché tu sei tanto.

Sei di più.

Vivo in provincia di Treviso, in quel Veneto che da sempre è stato motore e traino della storia, della cultura e dell’arte ma soprattutto dell’economica del nostro paese.

Vivo nel Veneto dello splendore della Serenissima, di personaggi la cui genialità è conosciuta in tutto il mondo da Palladio a Canova, da Tiepolo a Tintoretto, da Tiziano a Canaletto, da Cima da Conegliano a Palma il Giovane.

Di Venezia del cui splendore e valore non si trovano parole nel vocabolario per definirla una città che ha forgiato il Veneto dal mare ai monti con lo splendore delle Ville, dei boschi del Cadore, dei palazzi, di una sacco di altre cose per cui mi ci vorrebbero pagine e pagine per definirla. Città generosa che regala a chi la sfiora, anche solo una volta nella vita, con lo sguardo emozioni che rimangono tatuaggi indelebili nel cuore e nell’anima. Il leone fiero e ruggente che ti simboleggia è ferito, umiliato nella sua potente fragilità;

di Verona e della sua splendida Arena; di Vicenza e il Palladio; di Rovigo e del suo legame con il Po; di Padova città del Santo; di Belluno e delle splendide Dolomiti; di Treviso piccola preziosa bomboniera tessuta dall’acqua.

Vivo nel Veneto di quei litorali ospitali e allegri.

Vivo nel Veneto delle Dolomiti che in ogni momento della giornata sono così belle da togliere il respiro…

Vivo nel Veneto delle piccole e grandi città d’arte, dei borghi, dei paesi con i campanili, delle colline, dei laghi, dei fiumi e delle splendide campagne.

Vivo nel Veneto del fiume Piave, dove i nostri avi hanno conosciuto la miseria, la distruzione della guerra e la dolorosa invasione del nemico.

Vivo nel Veneto primo in Italia per la raccolta differenziata, per le energie rinnovabili, per l’innovazione.

Vivo nel Veneto del volontariato, delle Pro Loco, delle sagre e del piacere dello stare insieme.

Vivo nel Veneto delle grandi aziende vitivinicole e gastronomiche, dei prodotti agricoli, dell’asparago, del radicchio, delle ciliegie, del formaggio e molto molto ancora.

Vivo nel Veneto degli orti, delle galline sul cortile, del maiale e della mucca in stalla.

Vivo nel Veneto delle case ordinate, dei giardini curati, dei fiori sui davanzali.

Vivo nel Veneto dei mille dialetti, delle tradizioni secolari.

Vino nel Veneto delle osterie a gestione familiare.

Vivo nel Veneto dei grandi ospedali e delle eccellenze mediche.

Vivo nel Veneto dei grandi campioni dello sport.

Vivo nel Veneto delle grandi fabbriche manifatturiere, delle grandi eccellenze dell’artigianato e delle grandi industrie.

Vivo nel Veneto delle piccole imprese, delle aziende a conduzione familiare, del padre che lavora con il figlio e con i nipoti.

Vivo in un Veneto di gente che meno di 70 anni fa era nella miseria, che con dignità coraggio e rispetto si è rimboccata le maniche e si è data da fare.

Vivo nel Veneto della gente che si alzava all’alba e andava a letto a notte inoltrata con l’orgoglio di lavorare per un progetto, per un investimento sul quale aveva creduto ma soprattutto per quel futuro certo da lasciare ai figli.

Vivo nel Veneto del miracolo economico prima e della crisi poi.

Vivo nel Veneto di brava gente, gente onesta, gente con i calli nelle mani e le rughe in viso.

PER QUESTI MOTIVI SONO SICURA CHE IL VENETO E I VENETI TORNERANNO IN PIEDI CON LA DIGNITA’ DI SEMPRE.

Un Veneto di gente che si asciuga le lacrime dello smarrimento e trova subito una soluzione; un Veneto di gente coraggiosa che non si lamenta; un Veneto di gente che si alza le maniche e si dà da fare; un Veneto di persone con grande cuore che aiutano il prossimo; un Veneto che con coraggio difende quello che ci appartiene, un Veneto che ha carattere, dignità, tradizione, cultura, storia, passione, amore.

 

Ora la scommessa è di noi Veneti;  è il momento di esprimere l’amore per la nostra terra, di  confermare la nostra appartenenza, di aiutare quel Veneto ferito nel cuore, a rialzarsi e a riavere un futuro sereno a dare messaggio positivo al mondo… Vorrà dire che andremo in vacanza nelle nostre spiagge, nei nostri monti e nei nostri laghi; faremo la spesa nei negozietti di quartiere o nelle fattorie a km 0;  andremo a mangiare nelle osterie e nelle locande locali… ritorneremo a dare valore alle nostre origini e tradizioni.

Con amore immenso per questo Veneto e per tutto ciò che ci hai generosamente dato e che ha forgiato dal mare ai monti il nostro carattere…. Con la certezza che il leone ferito torni a ruggire della sua meravigliosa bellezza e splendore.

Alberta Bellussi

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In questi giorni di emergenza viene molto usata una parola “Quarantena”.

La parola quarantena prende origine dall’isolamento di 40 giorni di navi e persone prima di entrare nella laguna della Repubblica Serenissima in relazione a quelle in arrivo a Venezia dai possedimenti dalmati (in particolare Ragusa, oggi Dubrovnik). Lo conferma il fatto che quarantena è parola veneziana, in italiano si diceva quarantina. Questo fu messo in atto come misura di prevenzione contro la malattia che imperversava in quel periodo: la peste nera. Tra il 1347 e il 1359 la Peste nera sterminò circa il 30% della popolazione dell’Europa e dell’Asia.

Sono stati i veneziani i più veloci a reagire e a istituire ancora nel primo anno di epidemia (1347) una magistratura con compiti sanitari, nominando tre tutori della salute pubblica divenuti,poi, provveditori alla Sanità, e a ricoverare dal 1403 i passeggeri provenienti da luoghi infetti nell’isola di Santa Maria di Nazareth, detta Nazarethum, nome presto modificato in Lazzaretto.

Venezia fu la prima ad emanare provvedimenti per arginare la diffusione della peste, nei primi anni della Peste Nera nel 1347 , seguì poi Reggio Emilia nel 1374. Nel 1467 Genova seguì l’esempio di Venezia.   Nel 1476 il vecchio ospedale per lebbrosi di Marsiglia fu convertito in un ospedale per gli appestati: il grande lazzaretto di questa città, forse il più completo nel suo genere, è stato edificato nel 1526 sull’isola di Pomgue. Le pratiche in tutti i lazzaretti del Mediterraneo non erano differenti dalle procedure inglesi nei commerci con il sudovest asiatico e con il Nordafrica.

Altre malattie si prestarono alla pratica della quarantena prima e dopo la devastazione della peste:

coloro afflitti da lebbra sono stati storicamente isolati dalla società;

i tentativi atti a contenere l’invasione della sifilide nell’Europa del Nord nel 1490 circa;

l’avvento della febbre gialla in Spagna all’inizio del XIX secolo;

l’arrivo del colera asiatico nel 1831.

Perché 40 giorni?

La scelta dei 40 giorni come lunghezza del periodo di isolamento necessario per evitare il contagio ha delle spiegazioni molto spesso simboliche e legate alla credenza popolare. Ce ne sono varie; potrebbe essere stato ricavato dalle teorie di Ippocrate sulle malattie acute. Per il medico greco, infatti, i 40 giorni rappresentavano un punto di svolta della malattia verso la guarigione. Un’altra teoria è che il numero fosse collegato alle teorie pitagoriche e al significato particolare del numero 4. Certamente il numero 40 ha un valore simbolico e magico fin dall’antichità: corrisponde ai giorni trascorsi da Gesù nel deserto, diventati poi la Quaresima, e durano 40 giorni anche il diluvio universale raccontato nella Genesi e l’Avvento.

Secondo altri studiosi, i primi a identificare un ruolo particolare di questo periodo di tempo sarebbero stati gli astronomi babilonesi che associarono i 40 giorni in cui la costellazione delle Pleiadi non è visibile, tra aprile e maggio, con le piene e le inondazioni primaverili, spesso catastrofiche, ma vitali per l’agricoltura.

Da quel momento il termine di 40 giorni sarebbe passato a indicare un periodo di difficoltà da dover superare per ritrovare la salute.Oggi quarantena ha assunto il valore generico di isolamento precauzionale ed è di durata variabili.

Alberta Bellussi

 

 

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Da dove deriva il nome Carnevale?

Il nome Carnevale deriva dal latino “carnem levare” (togliere la carne), riferito in origine al banchetto che precedeva il mercoledì delle ceneri, giorno a partire dal quale non era consentito mangiare carne.

Il Carnevale di Venezia è uno dei più antichi e famosi del mondo, con i balli in costume, gli spettacoli, le maschere che si aggirano tra calli e canali in un’atmosfera unica. Nella Serenissima durante il periodo di Carnevale era concessa ogni forma di inganno e finzione, tanto che chiunque poteva mascherarsi ed essere ammesso niente meno che alla presenza del Doge; ricchi e poveri, persone benestanti e indigenti, proprietari di vascelli e semplici marinai, cristiani, ebrei, uomini e donne.

A Venezia, nei secoli passati, l’usanza di indossare una maschera, risultando quindi irriconoscibili, andava oltre il periodo di Carnevale. Per questo motivo il governo dovette intervenire a più riprese per rivedere la legislazione in merito.

La maschera veneziana ha, davvero, origini antichissime; il primo documento che parla dell’uso dei travestimenti a Venezia è datato 1094 poi a partire dal 1271 a divenne il centro di scuole e botteghe di mastri artigiani (chiamati mascareri) che elaborarono tecniche sempre più sofisticate.

 

Maschere veneziane più famose

La maschera veneziana più celebre è la Baùta, uno dei travestimenti più comuni nel Carnevale antico, soprattutto a partire dal XVIII secolo. Ancora oggi è una delle figure più richieste, perché può essere indossata sia dagli uomini che dalle donne: è costituita da una particolare maschera bianca, completata dal tabarro, un lungo mantello scuro tradizionale. La baùta veniva utilizzata non solo a Carnevale, ma anche a teatro, alle feste, negli incontri galanti e ogni volta che desiderasse il totale anonimato durante il corteggiamento.

Altra maschera diffusa all’epoca era la Moretta, indossata dalle donne, che consisteva in una maschera tonda nera che si reggeva grazie a un bottone interno trattenuto dalle labbra. Per questo motivo veniva anche detta servetta muta, perché non consentiva né di parlare né di mangiare o bere. Altri costumi tipici per le donne sono la Gnaga, costituito da semplici abiti e una maschera da gatta, e la Colombina, considerata la controparte femminile della bauta. Questa maschera in particolare è molto richiesta perché non copre l’intero viso ma solo la zona degli occhi e può essere retta da un nastro attorno alla testa o da un bastoncino da tenere in mano.

Il Carnevale venne fermato dopo la caduta della Repubblica di Venezia (1797), e l’assoggettamento della città agli Austriaci e ai Francesi, anche se la tradizione venne conservata sulle isole di Murano e Burano. Solo alla fine degli anni ’70, su iniziativa di alcune associazioni e privati cittadini, fu deciso di reintrodurre i festeggiamenti. Il Carnevale tornò ad essere celebrato ufficialmente nel 1979.

Alberta Bellussi