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“Radici e Fasioi” è un piatto rurale particolarmente diffuso lungo le sponde del fiume Piave, in Veneto. Questo piatto è sempre accompagnato da fette di polenta abbrustolita e sempre condito con una dadolata di lardo o pancetta saltati in padella…

L’uso del lardo o della pancetta come condimento, era quasi obbligatorio, poiché, a causa delle comuni ristrettezze economiche, non vi era alcuna possibilità di acquistare l’olio né di semi né d’oliva.

Le origini dei Radici e Fasioi si perdono nella notte dei tempi e diventa impossibile darne una datazione certa. Tuttavia, possiamo affermare, che questo piatto era consumato dalle famiglie umili, poiché i fagioli non facevano certamente parte della dieta delle famiglie più facoltose e benestanti. Era, per abitudine, una pietanza da consumare alla sera e per molti era un vero e proprio piatto unico. Si consumava in tutti i periodi dell’anno e spesso accompagnato da un buon bicchiere di Vino Rosso. E’ utile ricordare che i fagioli hanno un valore nutritivo particolarmente elevato, dal punto di vista proteico e quindi non mancavano mai nella dieta quotidiana anche perché sia agricoltori che gente comune non avevano la possibilità di comprare la carne! Negli ultimi tempi questo piatto popolare è stato rispolverato, creando anche una Confraternita che porta avanti la tradizione e ha depositato la ricetta originale a Roma. Viene preparato in alcune trattorie della zona del Piave, sia in provincia di Treviso che di Venezia spesso come antipasto caldo e servito in cocottine di terracotta con i fagioli ben caldi e il Radicchio a temperatura ambiente.

Ingredienti

300 grammi fagioli borlotti, Lamon o Cuneo;

1 costa di sedano, 1 cipolla piccola, 1 carota piccola, Sale e pepe

300 grammi di radicchio di campo;

olio extra vergine di oliva, 1 testa d’aglio, 1 rametto di rosmarino,

I fagioli vanno prima mondati con abbondante acqua tiepida e poi vanno messi a bagno in acqua fredda per una notte intera, prima della preparazione. La mattina seguente, si prepara un fondo d’aglio cipolla e rosmarino ben tritati. Si fa rosolare questo trito di verdure con un pò d’olio, si aggiungono i fagioli e si fanno insaporire. Si coprono d’acqua, si aggiungono foglie di sedano, e si fanno bollire per circa due ore mezza a fuoco moderato, avendo cura di aggiungere acqua ben tiepida per ultimarne la cottura. Un tempo si usava aggiungere della cotenna di maiale per dare sapore e risalto al piatto.

A cottura ultimata bisogna passare metà dei fagioli con un passaverdura o setaccio sino ad ottenere una purea morbida. Il composto di fagioli dovrà avere una parte di fagioli interi e una passata. Si aggiusta di sale e pepe e dado in polvere sempre alla fine.

A parte si prepara il radicchio, lavato per bene e sgocciolato in un colino. In seguito in un piatto da zuppa si unisce il radicchio mondato coperto dalla purea di fagioli ottenuta. Si condiscono con olio di semi o extravergine d’oliva, aceto, sale, pepe e per i piu’ golosi anche lardo a pezzetti saltato in padella. Meglio se i fagioli sono caldi e se ne avete la possibilità serviteli con fette di polenta grigliata. E’ Un modo di mangiare semplice, dai sapori dimenticati che forse stona con alcuni piatti altisonanti, ma ritengo che sia un modo per scoprire i sapori di un mondo che non c’è più.

Alberta Bellussi

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Fin da prima del mille le navi veneziane solcavano il Mediterraneo verso l’Egitto. La stessa leggenda della traslazione delle reliquie dell’evangelista Marco da Alessandria d’Egitto ad opera di Bono da Malamocco e Rustico da Torcello testimoniano l’esistenza di un consolidato itinerario marittimo che collegava Venezia ad Alessandria. Le relazioni diplomatiche e commerciali continuarono per secoli, a testimonianza ci sono dei documenti, datati 1200, che testimoniano gli accordi di pace stretti tra i due stati. I traffici con l’Egitto erano di capitale importanza per Venezia come detto espressamente da Innocenzo III quando, nel 1198, permise di continuare il commercio nonostante fossero in corso i preparativi per la crociata. Olio, vino, miele, frutta, ambra, stoffe, pellicce, vetri e manufatti in legno erano alcuni dei prodotti che i Veneziani, portarono in Egitto, insieme ai famosi ducati che in certi momenti avevano più potere dell’oro. Mentre i Veneziani erano soliti comprare zucchero e datteri, spezie, tessuti.

Ma chi erano i Mamelucchi?

I Mamelucchi erano degli schiavi al servizio dei diversi califfi, impiegati nell’amministrazione e nell’esercito. Essi formavano una vera e propria casta che doveva rispettare un iter ben preciso per poter passare dallo stato di schiavi a quello di cittadini liberi. Per circa due secoli, XIII- XVI sec., i Mamelucchi guidarono l’Egitto e si succedettero a numerosi sovrani. Anche se spesso, si creavano lotte interne e sanguinose ribellioni per la conquista del potere, i Mamelucchi garantirono un periodo di prosperità all’Egitto, favorendo il commercio sul Mediterraneo e con Venezia.

( A proposito di Egitto una piccola curiosità che riguarda le origini della mia famiglia molti secoli sono trascorsi (XVI sec) da quando, come narra una leggenda, una ricca signora venuta da Alessandria d’Egitto, carica d’oro, con cammelli,  largo seguito e con i figli si fermò a Tezze di Vazzola e con la sua progenie diede inizio alla stirpe dei Bellussi).

I MAMMALUCCHI DI CARNEVALE:

I mammalucchi sono, invece, delle frittelle inventate nel 1970, e che in poco tempo sono diventate molto famose a Venezia, in particolar modo durante il periodo del Carnevale.  Questi dolcetti fritti (con crema, uvetta e scorza d’arancia) sono una vera specialità, seppur la storia dietro alla loro nascita sia un po’ meno “romanzata” di quello che si crede. Parola del creatore dei mammalucchi, Sergio Lotto, il quale recentemente ha dichiarato come le sue frittelle non siano nate per errore, tutt’altro. Il pasticcere ha puntualizzato come i suoi mammalucchi siano nati negli anni 70 nella pasticceria Bonifacio, poi la ricetta è stata lasciata anche ai “concorrenti” della Targa. Entrambi continuano a farli. Niente errori insomma, nemmeno l’esclamazione “Che mammalucco che sono stato”, epiteto che Lotto si sarebbe affibbiato per la svista. Il resto è storia: corresse ad occhio le dosi e invece di cuocerlo al forno, come inizialmente previsto, ci aggiunse della crema e finì per friggerlo. Inutile chiedere la ricetta dei mammaluchi non viene diffusa: si sa che gli ingredienti sono farina, zucchero, uova, burro, uva passa e cubetti di arancio e che ad arricchire l’impasto c’è una morbida crema aromatizzata all’arancia.

Il risultato è una preparazione che richiama più alla tradizione araba dei dolci di strada che a quella delle tonde frittelle: la forma infatti è a cilindro, cui la frittura conferisce una doratura perfetta e una croccantezza che non arriva all’interno ma si limita a rendere fragrante la superficie.

Ti xe un mamauco :  si intende una persona stupidotta, sciocca, anche se allo stesso modo a essere definito così è l’impasto un po’ “strambo”, Sergio Lotto l’ha descritto così,  alla base delle frittelle (farina, zucchero, farina burro uvetta e scorza d’arancia).  Non c’è una spiegazione semantica, che rimanda ai soldati delle milizie turche egiziane,  ma fonica; “mammalucco” è una parola il cui suono, nella nostra lingua, già da sé dipinge lo sciocco. La terminazione in “ucco” è propria di diversi spregiativi derisori. I linguisti, in questi casi, parlano di “simbolismo fonetico”: una parola disegna il suo significato col suo suono. Questo fatto ci invita a differenziare il modo di scrivere questa parola a seconda del senso: il mamelucco indicherà più facilmente il nome della milizia, il mammalucco, quello dello sciocco.

Alberta Bellussi

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Venezia è unica e uno degli aspetti che sempre osservo e che mi affascina è come, già tanti secoli fa, fosse riuscita a far convivere “Credo religiosi” totalmente diversi in uno spazio così piccolo. Venezia già da secoli esempio di tolleranza e di rispetto dell’altro. La vita religiosa ha avuto importanza pari a quella politica ed economica. Partendo dalle origini, passando dalle splendide epoche del ‘500 e del ‘700, fino ad arrivare ai nostri giorni, doge, patriarca e commercianti hanno costituito la base per lo sviluppo della città e della sua laguna, rendendola “unica”.

La ricchezza della supremazia religiosa a Venezia ha lasciato tracce dovunque e non soltanto grazie alla civiltà cattolica, che conta 137 chiese, ma anche a quella ebraica, greca e  armena, che hanno contribuito in maniera determinante alla crescita culturale ed artistica della città.

Il ghetto di Venezia, è importantissimo riferimento per gli ebrei e storicamente fu il primo.  il Museo Ebraico è ricco di importanti manifatture orafe e tessili databili tra il XVI e XIX secolo, e le Sinagoghe, gioielli risalenti al 1500 difficilmente riconoscibili dall’esterno. Per comprendere pienamente l’anima del quartiere è possibile dormire alla Locanda del Ghetto, mangiare al Kosher Club Le Balthazar, gustare o comprare specialità ebraiche alla caffetteria del Museo, al panificio Volpe o a quello dei Fratelli Albonico.

Nell’Isola di San Lazzaro, poco lontano dal bacino di San Marco, vivono i padri mekhitaristi armeni, dal XVI secolo, qui ci sono i tesori di uno dei primi centri della loro cultura: il monastero, i giardini, la biblioteca ricca di preziosi manoscritti, la pinacoteca e il museo.

A Venezia è presente anche una numerosa comunità di greci-ortodossi vive e si muove intorno alla Chiesa di San Giorgio, che costituisce da secoli il centro religioso e nazionale dell’ellenismo della città lagunare. La sua costruzione risale al 1564 e vanta nomi di architetti famosi, quali Sante Lombardo, Giannantonio Chiona e Bernard Ongarin, al quale si deve la costruzione del campanile inclinato. Eccezionali sotto il profilo artistico sono anche i mosaici all’interno della chiesa, opere di rinomati artisti post-bizantini. Il quartiere dei greci è arricchito dal palazzo del Collegio Flangini, dal 1951 sede dell’Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini, che per secoli ha inviato i suoi chierici ed insegnanti in numerose regioni dell’oriente.

La comunità Valdese di Venezia si costituisce nel Natale 1867 e un anno dopo si inaugura la sede del settecentesco Palazzo Cavagnis, che oggi accoglie anche un attivo centro culturale e una foresteria. Intense e frequenti le occasioni di collaborazione con la Chiesa Luterana, ma nel corso del tempo è con la Chiesa Metodista che si condividono attività, programmi e cura pastorale, fino a quando nel 1977 le due comunità stipulano una convenzione che permette di mantenere le proprie specificità pur essendo inseriti in un’unica organizzazione locale.

Alla comunità evangelica sono dedicate due chiese. In Campo Santi Apostoli si trova la Chiesa Evangelica Luterana, che oggi ospita lezioni di canto gospel, la cui comunità è la prima presente in Italia, già ai tempi della Riforma. Oggi si contano circa 7000 membri, in buona parte di origine tedesca.

Ricavata nel corpo di un antico palazzo patrizio, ristrutturato e riadattato per l’uso, la chiesa anglicana Saint George’s si trova in campo San Vio ed è frequentata da una comunità piccola ma molto attiva. E’ utilizzata spesso per matrimoni di coppie soprattutto inglesi, che possono fare riferimento anche al vicino consolato, ai piedi del Ponte dell’Accademia. All’esterno della chiesa, a ridosso delle porte bronzee, vi sono alcune statue che commemorano i soldati inglesi caduti a Venezia durante la seconda guerra mondiale.

Un crocevia di popoli e fedi che hanno contribuito ad arricchire il patrimonio artistico e culturale di Venezia facendone una città unica al mondo.

Alberta Bellussi

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La parola Venezia in arabo si dice al-Bunduqiya.

Venezia è l’unica città europea ad avere un nome arabo e questo semplice ma importantissimo aspetto sottolinea quanto la Serenissima sia stata per lunghi secoli la principale cerniera di raccordo fra l’Europa e l’Oriente, fra la Cristianità e il vasto mondo musulmano affacciato sul Mediterraneo. Dal Mille alla fine dello Stato veneziano (1797) l’evoluzione del rapporto fra Venezia e il mondo arabo e turco è viaggiato sul binario dei commerci della Serenissima, dei pellegrinaggi e delle crociate, degli scontri ma anche delle alleanze, delle peripezie degli schiavi e dei convertiti. Rapporti tra mondi lontani tessuti da una gerarchia di personaggi molto importanti che permisero per secoli il consolidarsi e il relazionarsi; erano gli ambasciatori con i loro cerimoniali, i dragomanni e i consoli, i mercanti con i loro fondachi, i marinai e gli schiavi, i pirati e le spie.  Un viavai di persone e merci che disegnava, un secolo dopo l’altro, un quadro vivido di contiguità, di familiarità, di relazioni tra mondi diversi ma non necessariamente ostili.

Sul perché gli arabi chiamano la Serenissima con il nome di “al-Bunduqiyah” (البندقيية) ci sono diverse teorie:

1) “al-bunduq” significa fucile e la Repubblica era famosa per le esportazioni dell’arma da fuoco ma è la spiegazione meno seguita.

2) “al-bunduq” significa nocciola/nocciolo e Venezia nell’antichità era chiamata Olivolo per la forma di oliva di una delle sue isole maggiori (oliva/nocciolo)

3) la parola “al-bunduqiyah” sarebbe l’arabizzazione della parola latina “veneticus”, in arabo non esiste la lettera “V” ed è plausibile che fosse stata traslitterata con la “B” al posto della V. Quindi: Veneticus/Benediticus/Bunduqiyah, la spiegazione più seguita e plausibile.

Venezia per la sua grande potenza commerciale divenne il centro europeo più sviluppato per le relazioni con l’Oriente e per questo necessitava di un nome arabo.

Alberta Bellussi

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Quando camminiamo   per la campagna nelle gelide giornate d’inverno accade che veniamo travolti da folate di un profumo intenso quasi dal sapore antico. Non c’è ombre di dubbio è proprio lui il fiore di Calicanto. Se ne avete uno in giardino la sua fragranza inebria la sua area circostante.

La piante è proveniente dalla Cina ed è stato importato in Europa nella seconda metà del XVIII secolo; è un arbusto molto particolare, dai rami spogli sottili ed intricati che quando fioriscono, in inverno, si coprono di piccoli e profumatissimi fiori dalla struttura cerosa mentre negli altri mesi dell’anno è ricoperta di foglie.

Generalmente i fiori che sbocciano sono di colore bianco o giallo e ricoprono tutta la pianta dall’alto al basso, con l’interno rosso purpureo.

Il suo nome Calicanto o Calicantus deriva dal greco Chimonanthus, che significa “fiore d’inverno” e secondo le tradizioni è una pianta che risveglia lo spirito ed il corpo; un’eccezione visto che la maggior parte della natura riposa nei mesi più freddi: era di buon auspicio sfregarsi e profumarsi polsi e caviglie al fine di rinforzare e rinvigorire corpo e spirito.

Un’antica leggenda racconta che, in una fredda giornata d’inverno, un pettirosso, stanco e infreddolito, vagava cercando riparo in un ramo per potersi riposare e proteggere dal freddo. Accadde, però, che tutti gli alberi che incontrava durante il volo si rifiutavano di dargli ospitalità finché stremato giunse nei pressi di un calicanto il quale, alla vista del piccolo uccellino, decise di dargli riparo e con le sue ultime foglie ingiallite provò a scaldarlo. Il Signore, che aveva visto il bel gesto, volle ricompensare la pianta di calicanto, facendo cadere sull’albero una pioggia di stelle brillanti e profumate. Fu così che da quel momento il calicanto è fiorito solo in inverno.

Alberta Bellussi

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Una storia affascinante la loro che ho conosciuto vedendo un’intervista su una tv straniera; sono gli ultimi testimoni di un mondo che non esiste più ma che sono anche la dimostrazione concreta di una Repubblica Serenissima dal passato imponente.

Gli italo-levantini sono discendenti di antiche famiglie di mercanti, banchieri, notai, diplomatici e commercianti insediatisi nel Mediterraneo orientale dai tempi delle crociate e delle Repubbliche marinare italiane. Sono i membri di un’antica comunità d’origine italiana radicata da secoli in Medio Oriente, in particolare nell’attuale Turchia, specialmente a Istanbul (l’antica Costantinopoli) e Smirne, centri economici importanti dell’Impero ottomano.

Vennero definiti “levantini”, ovvero “italiani del levante”, nei decenni intorno alla prima e alla seconda guerra mondiale.

Genovesi e veneziani tantissimi e in piccola parte amalfitani e pisani, giunti al tempo delle crociate e delle repubbliche marinare appunto, che vivevano al fianco dei greci, armeni, francesi, maltesi, olandesi e britannici. Erano tutti uniti da un comune denominatore: provenire da occidente e vivere in una città del Mediterraneo orientale, come Costantinopoli e poi Istanbul, Salonicco, Alessandria d’Egitto, Candia, Giaffa.

Questa piccola comunità di discendenti, per la maggior parte dai coloni genovesi e veneziani si trasferirono a vivere nei fondachi orientali delle repubbliche marinare, principalmente per commercio e controllo del traffico marittimo tra l’Italia e l’Asia, una sorta di diplomatici del passato.

Le loro principali caratteristiche sono quelle di avere mantenuto la fede cattolica pur vivendo in un paese prevalentemente musulmano, di continuare a parlare l’italiano tra loro (pur esprimendosi in turco, greco o francese nei rapporti sociali) e di non essersi minimamente mescolati, con matrimoni, con le locali popolazioni turche di religione musulmana. Alcuni italo-levantini sono di religione ebraica.

Un ruolo importante svolto dai levantini è il dragomanno, ossia l’allora traduttore che generalmente erano nato a Istanbul da genitore italiano. Il suo ruolo  era quella figura di  interprete e guida, che nei secoli passati e fino ai primi del Novecento rendeva possibili i rapporti politici, commerciali e culturali degli Stati europei con l’Impero ottomano.

Oggi Smirne – città cosmopolita e più aperta di tutta la Turchia – conta forse 300 levantini doc. sui circa 1.100 italiani registrati. Si chiamano Sbisà, de Portu, Aliotti, Aliberti o Baltazzi e, malgrado il crollo dell’Impero ottomano e la nascita della Turchia moderna, hanno scelto di vivere ancora li.

Alberta Bellussi

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Il 23 giugno è infatti una notte magica, durante la quale tradizionalmente si prepara l’acqua di San Giovanni per raccogliere la rugiada degli Dei. La leggenda vuole che l’acqua di San Giovanni possieda virtù curative protettrici e che porti salute, fortuna e amore.

La magia della notte di San Giovanni

Il 23 giugno, la notte che precede la nascita di San Giovanni Battista, è da sempre considerata una notte magica, durante la quale si celebrano riti propiziatori e purificatori. La magia è legata al solstizio d’estate, che segna l’inizio della nuova bella stagione. Il solstizio d’estate cade nel giorno più lungo dell’anno e in questo periodo la natura giunge al massimo splendore. Nonostante la forte rinascita, bisogna prestare attenzione agli eventi sfortunati come siccità, forti temporali o malattie delle piante, che rovinerebbero i raccolti.

Per scongiurare le avversità, si fanno falò propiziatori che rappresentano il sole e si prepara l’acqua di San Giovanni per raccogliere la rugiada, che simboleggia la luna. L’acqua di San Giovanni porterebbe fortuna e prosperità grazie all’incredibile potenza dei fiori e sarebbe in grado di proteggere i raccolti, allontanando le calamità.

Come si prepara l’acqua di San Giovanni

L’acqua di San Giovanni si prepara per sfruttare la forza e la potenza di piante e fiori intrisi della rugiada degli Dei. Si crede infatti che durante la notte di San Giovanni cada la rugiada degli Dei, capace di influenzare piante e fiori donando loro una particolare forza: il solstizio d’estate sarebbe la porta attraverso cui gli Dei fanno passare i nuovi nati, proprio sotto forma di rugiada.

La leggenda vuole che questa acqua magica porti fortuna, amore e salute, che sia capace di allontanare malattie e calamità e di proteggere i raccolti.

Per preparare l’acqua di San Giovanni bisogna raccogliere una misticanza di erbe e fiori spontanei. Nella scelta dei fiori e delle erbe non esiste una vera e propria regola. Generalmente ci si lascia ispirare dal proprio istinto scegliendo tra le specie che si hanno a disposizione.

Generalmente in questo periodo si raccolgono i fiori di iperico, lavanda, artemisia e malva e fiori e foglie di menta, rosmarino e salvia. Si possono trovare e raccogliere anche i fiordalisi, i papaveri, le rose o la camomilla, in base alle fioriture presenti nel proprio territorio.

Si raccomanda di rispettare la natura durante la raccolta delle erbe, di non raccogliere quantità eccessive di esemplari e di non estirpare le piante alla radice.

Dopo il tramonto, le erbe raccolte vanno messe in acqua e si lasciano all’esterno per tutta la notte, così che possano assorbire la rugiada del mattino. Le erbe raccoglieranno la rugiada e da essa acquisiranno proprietà magiche.

La mattina del 24 giugno, l’acqua di San Giovanni si utilizza per lavare mani e viso, in una sorta di rituale propiziatorio e di purificazione che porterà amore, fortuna e salute.

Alberta Bellussi

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In questo suo nuovo libro, l’autrice ritorna a quel bellissimo mondo che gravita attorno a Venezia, in una regione, il Veneto, tutta da scoprire e da vivere.

A marzo 2022 è nata la nuova creatura letteraria dell’autrice Alberta Bellussi dal titolo “La biodina in gondoleta”. Un libro pensato con lo stesso leitmotiv di “Mi son veneta” (2018), una sorta di secondo volume di una collana dedicata al Venetocuriosità, leggende, storie, ricette, cultura; un capitolo importante è dedicato alle canzoni della tradizione veneta che, un tempo, tutti conoscevano e cantavano nei momenti conviviali e che hanno spesso una spiegazione storica che le accompagna.

I boschi del Montello, il Cansiglio, i boschi vicino al Piave e non solo, in tutto il Veneto vi sono luoghi di misteri e leggende tramandate oralmente, di generazione in generazione, fin dall’origine dei tempi. Si racconta, infatti, che tutta la zona sia stata abitata da creature magiche come fate, anguane, draghi, spiritelli vari e anche il Diavolo o piccoli diavoletti scontrosi e antipatici, in una sorta di contrapposizione continua tra bene e male e poi la storia della capricciosa Misurina o la sirena che fece nascere il merletto di Burano e molto molto di più.

Il libro è edito da Alba Edizioni di Meduna, una casa editrice attenta a portare alle stampe piccole pubblicazioni che parlano del territorio e che fermano emozioni, momenti, cultura e tradizione in pagine di carta. Lo si può acquistare in tutte le librerie o edicole del territorio.

Per gli stessi tipi, nel 2018 usciva Mi son veneta, nato dalla passione dell’autrice di cercare, conoscere e raccogliere i piccoli aspetti, le curiosità culturali che mille anni di una Repubblica così importante come quella Serenissima hanno lasciato in eredità in tutti gli aspetti della vita quotidiana di un cittadino che vive in questa regione. «“Mi son veneta” è stato scritto come uno scrigno pieno di piccole perle di echi di un fastoso passato che portiamo nel DNA – spiega l’autrice – un DNA di apertura verso il mondo, tolleranza, intelligenza che sarebbe bello ricordare di avere e che ha avuto molto apprezzamento da parte dei lettori».

Nel 2020 è uscito Maria e le storie di una volta. Racconti di una ruralità passata”. Sono racconti di una ruralità veneta fatta di gesti, di tradizioni, di rituali che sono parte della nostra storia. La bimba Maria, insieme alla sua nonna, ci ha portato per mano dentro questi quadri di vita che hanno la poesia, la delicatezza e la spontaneità del mondo contadino. Campi, frutti, attrezzi, cibi, ricette, giochi che hanno il sapore autentico della genuinità, che profumano di buono.

“La biodina in gondoleta” va a continuare la serie. A fare da filo conduttore l’«amore per la conoscenza e per Venezia che non smette mai».

Sono letture semplici, genuini e schiettie ma piene di passione, «quella passione che esprime il mio amore per Venezia, la sua maestosità, grandezza e la sua secolare apertura verso il mondo» afferma l’autrice. Il suo è «un piccolissimo contributo affinché questa importante eredità del passato sia viva e conosciuta e soprattutto perché non vada mai perduta». I libri di questa collana ben si prestano ad essere sfogliati, per evocare ricordi o approfondire la conoscenza di cose di cui finora non si sapeva l’origine o il perché, ma anche ad essere letti con figli o nipoti, proprio per tramandare e tenere in vita radici profonde

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Ci sono varie spiegazioni ma tutte molto simili. Venezia a partire dal Medioevo era dotata di una particolare autonomia politica e iniziò a godere di una grande prosperità, frutto delle sue attività marittime. La città venne quindi classificata come una Repubblica Marinara, insieme ad Amalfi, Genova e Pisa. La forte autonomia di Venezia era ben organizzata attorno a diverse istituzioni, guidate dal Doge, che era il massimo esponente politico della città. Le sue funzioni erano però limitate alla gestione delle guerre e della flotta mercantile, mentre il resto delle funzioni rimaneva in mano del Maggior Consiglio, il principale organo politico della città. E’ proprio attorno alla figura del Doge che il nomignolo La Serenissima pare essersi diffuso per designare la città. Pare infatti che il Doge venisse definito dagli abitanti della città come serenissimo e che questa definizione si sia poi allargata per definire l’intera città.

Un’altra ipotesi considera   il clima che si poteva respirare nella città lagunare durante i suoi anni d’oro: un commercio sviluppatissimo che raggiungeva l’Est del mondo, abilità nautiche uniche, un’organizzazione perfetta e ovviamente un’economia estremamente rigogliosa, capace dunque di donare una tanto agognata prosperità ai suoi abitanti. In questo contesto pare che in città si sviluppò un particolare sentimento di tolleranza, soprattutto nei confronti degli stranieri che giungevano a Venezia per motivi legati alla sua economia venissero accolti con particolare calore. In città regnava dunque un clima di pace e tranquillità così sentito, che riuscì a rimanere indipendente e “serena” sino al XVIII secolo, nonostante l’invasione turca in atto; questo fece in modo ch  l’appellativo “La Serenissima” riuscì a giungere sino ai giorni nostri. Un’ultima versione lega la nascita di questo appellativo al titolo posseduto dai reggenti di Bisanzio, che venivano appunto definiti Serenissimi. Venezia infatti dipese dai reggenti formalmente sino al 1453, anno durante il quale Bisanzio è definitivamente caduta, lasciando però il nomignolo in eredità alla città. Venezia anche ora è Serenissima e rende serenissimo l’animo.

 

Alberta Bellussi

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Nel Medioevo le reliquie dei santi furono protagoniste di un momento davvero importante e straordinario per quanto riguarda il culto tanto che sono presenti in numerose chiese italiane e europee; attorno a queste reliquie si raccontano storie e avvenimenti spesso chiamati miracoli.
Era il 1261 quando nacque la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, nella forma di una confraternita che era la più importante istituzione laica della città.
In questa Scuola è conservata la reliquia della Santa Croce che è la testimonianza più significativa presente a Venezia, dopo il corpo di San Marco. Attorno a essa e ai suoi numerosi miracoli si sono concentrare una serie di narrazioni: le più belle e importanti sono quelle raffigurate da alcuni fra i più grandi artisti della scuola pittorica veneziana – Carpaccio, Bellini, Mansueti, Bastiani – tutti ammirabili, fortunatamente, alle Gallerie dell’Accademia. Quella della Scuola di San Giovanni è l’unica reliquia che ha prodotto miracoli in città, tanto che sono raccolti negli scritti e rappresentati nei quadri. Due cicli pittorici furono commissionati nel 1420 a Jacopo Bellini, ma ebbero vita assai breve; andarono infatti rovinati e nell’ultimo decennio del secolo Gentile Bellini, figlio di Jacopo, ed i suoi collaboratori diedero inizio ai “Miracoli della Reliquia della Croce” destinati a sostituire i precedenti.
Il “legno della Croce” fu sottratto furtivamente a Gerusalemme da alcuni monaci ciprioti, al tempo delle Crociate, passato di mano in mano, fino ad essere affidato al Patriarca di Costantinopoli che prima di morire lo diede al suo Cancelliere Filippo de Mezieres, che nel 1369, si trovava a Venezia e donò la reliquia ad Andrea Vendramin, Guardiano Grande della Confraternita. La Serenissima fece un atto pubblico di donazione durante una celebrazione solenne venne dichiarato che si trattava proprio del legno della Croce di Gesù.
I due frammenti della Croce vennero racchiusi in un meraviglioso reliquiario in cristallo di rocca e argento dorato, del 1371, capolavoro dell’oreficeria gotica veneziana tutt’ora gelosamente conservato nell’Oratorio della Scuola Granda di San Giovanni Evangelista.
La confraternita, grazie alla reliquia della croce, divenne famosissima e con il crescere dell’importanza dovette dotarsi di una sede consona. L’edificio che la ospitava e tutt’ora la ospita, divenne ben presto uno dei più belli e ricchi della città con opere d’arte dal valore immenso, tutte aventi per oggetto la famosa reliquia.
Ogni 14 settembre, la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista celebra con solennità la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Durante i festeggiamenti, come da tradizione secolare, la Reliquia viene portata in una solenne processione dalla Basilica dei Frari alla Scuola Grande Giovanni Evangelista, con partecipazione delle Scuole Grandi e delle Confraternite di Venezia in veste propria.
Alberta Bellussi