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Dicembre, Gennaio e Febbraio sono i mesi in cui in Veneto c’è la tradizione di macellare el porzel. E’ una tradizione secolare. Ricordo, quando ero piccina, che il giorno in cui  si macellava il maiale stavo a casa da scuola ed era grande festa dalla mattina alla sera; c’era el porzeler che guidava le operazioni di divisione della carne quella per salami, salsicce, coppa, ecc ecc;  partecipavano parenti, amici e tutto il giorno era un via vai di gente. Sopra la “cucina economica” c’era sempre qualche braciola o costina pronta per essere mangiata da qualche ospite o da noi bimbi. A me sembrava buonissimo. Osservavo tutto con occhi curiosi. Qualche adulto burlone ci mandava in giro a chiedere la forma per fare i salami e noi ci cascavamo…e quando si tornava a mani vuote tutti ridevano divertiti di averci burlato. Per questa prova dovevi passare per diventare un pochino meno credulone…

Nella nostra storia contadina il maiale era la principale  fonte di proteine nell’alimentazione povera  di un tempo insieme al pollame. Per assicurare una migliore conservazione delle carni da lavorare, la macellazione del maiale avveniva nel periodo piu’ freddo dell’anno, dicembre, gennaio e febbraio.

Nel mondo trevigiano il maiale è una sorta di rito della cultura contadina che ha la sua festa il 17 gennaio, giorno della celebrazione di S.Antonio Abate, chiamato anche S. Antonio del porzel  perche’ viene raffigurato con un maiale ai suoi piedi.

Tradizione vuole, infatti che Sant’Antonio Abate, patriarca del monachesimo, venga rappresentato nell’iconografia sacra seguito da un maialino, popolarmente interpretato come l’immagine del diavolo ( a cui anticamente si associava il porco, creatura degli inferi) sconfitto dall’eremita. Ma la storia dice che si riferisca anche all’allevamento dei suini, inizialmente adottato dai monaci antoniani per dare sostentamento all’ordine ospedaliero dagli stessi fondato.

La macellazione del maiale era un momento di festa per tutta la famiglia e lo è ancora oggi, nelle famiglie in cui si rispetta ancora questa tradizione tutto viene svolto con lo stesso rituale di un tempo.

Subito dopo l’uccisione veniva ‘assaggiato’ cuocendone le ‘animelle’ (cervello e midollo spinale) e le ‘rifilature’, cioe’ i pezzetti di carne che si ottenevano lungo il taglio di sezionatura della bestia.

Del maiale non si sprecava nulla: le setole erano utilizzate per fabbricare pennelli, gli ossi venivano bolliti per fare brodo e sugo e la cotica entrava nella preparazione di ‘coppa’ e cotechini. Per il resto, le bistecche e le ‘costórelle’ alla brace, gli zampetti in umido (con i fagioli). La pelle, una volta tolto il lardo (unico condimento adoperato per tutto l’anno), serviva per ungere le seghe. Col sangue si faceva il sanguinaccio e con i polmoni una specie di salsicce. Il grasso del sottoventre era utilizzato per la profumata zazieka, mangiata a colazione con la polenta.

Mai fuori moda gli ossi di maiale lessati che vengono preparati ancor oggi da ristoranti, trattorie ed osterie venete chiamati Ossada.

Ricetta dell’Ossada de porzel

Ingredienti:

1 kg. e mezzo di ossi di maiale freschi (ossi spolpati, arista spolpata, costine)

1 cipolla

1 gambo di sedano

2 carote

grani di pepe

alloro

sale

Preparazione:

Lavare tutti gli ossi e prepararli per la cottura, tagliando i pezzi più grandi. Mettere in una pentola capiente con tutte le verdure e il pepe in grani. Portare ad ebollizione e cuocere per almeno un’ ora.

Devono essere serviti caldissimi, spolverizzati con il sale e un filo di olio, con le verdure di cottura.

Alberta Bellussi

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Il mercoledì delle ceneri, che è anche il primo giorno di Quaresima, la tradizione veneta vuole che si mangi la renga e come tutte le buoni tradizioni anche questa viene portata avanti e tenuta viva.

Infatti con la cena della renga si saluta il Carnevale e si va verso la Pasqua.

Ma cos’è la renga?

L’aringa è un pesce lungo circa 30 cm, che vive in banchi enormi nelle acque fredde dell’Atlantico settentrionale e dell’Oceano Artico. E’ l’esemplare femmina, mentre il maschio, lo scopeton, e’ meno pregiato e ricercato. L’aringa partita dai Mari del Nord, passando da Venezia,  arrivò nell’entroterra  prendendo il nome in  dialetto “renga”. Questo pesce semplice  si è subito rivelata adatta alle esigenze delle tavole contadine venete , soprattutto in tempo di Quaresima: era un cibo povero ma nutriente e facile da conservare anche senza gli odierni mezzi di refrigerazione.

Questo pesce ebbe enorme importanza economica nelle aree dell’Europa settentrionale, nel Medioevo e fino a tutto il ‘500, perché la sua cattura rappresentava una fonte di cibo proteico quando allevamento, agricoltura e commercio erano insufficienti a nutrire le popolazioni.

La conservazione era fatta sotto sale o essiccata. La sua sistemazione nel  sale doveva avvenire entro poche ore dalla cattura praticamente in mare.  Questa pratica portò lo svilupparsi di un impressionante commercio di sale   tra le citta’ della Lega Anseatica e l’Europa centromeridionale che saliva verso nord e della “renga” in barili che scendeva verso sud e  che aveva come principale tramite mediterraneo la città di Venezia.

La renga di Parona, cittadina in Provincia di Verona è molto famosa esiste ancora la bottega della Renga.

La storia raccontata dai nostri avi dice che fino alla fine dell’800, quando il fiume Adige era ancora navigabile, la piccola località di Parona era un importante scalo fluviale dove risiedevano attività commerciali e una dozzina di osterie. Essendo la navigazione in città vietata nei fine settimana, i marinai-commercianti conduttori di imbarcazioni e chiatte di legname che discendevano l’Adige, attraccavano e sostavano nel porticciolo di Parona. Ristorandosi quindi nelle locande spesso il pagamento alle “parona” delle medesime avveniva offrendo in cambio mercé dal loro carico, tra qui i barili di arringhe affumicate sotto sale. Fu così che le parone impararono a cucinare la renga e quindi a riproporre in tavola questo pesce proveniente dai lontani mari del nord Europa unito ai sapori tipici della cucina veneta come la polenta.

L’ imperativo dei giorni di Quaresima era mangiare di magro e la lista delle cose da portare in tavola non dava grandi possibilità di scelta:  pesce fresco o salato, affumicato e marinato.

Vero ‘companasego’ della povera gente, emblema della povertà del  periodo, era l’umilissima aringa; arida e secca, ma forte di sapore e di odore, stuzzicante, stringata, economica; una sola  bastava per tutta la famiglia e nelle occasioni speciali si usava arricchirla con  la polenta  un solo pezzettino, infatti,  bastava ad insaporirne una grande quantità.

L’usanza di un tempo   nelle zone povere del Veneto e del Friuli era quella di  sbattere  un’aringa affumicata sopra delle fette di pane per profumare il pane.  Addirittura, si racconta, che  nelle case più povere la tenevano appesa penzoloni ai legni del soffitto o ai bordi del fogolar, ad altezza d’uomo, per sfregarla sopra il pane per l’appunto.

L’usanza di mangiare questo pesce era così forte e sentita che i giorni di Quaresima venivano chiamati anche “i giorni della renga”.

Alberta Bellussi

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Il Veneto è una regione dove la tradizione culinaria cammina a pari passo con gli eventi del calendario: ogni festa ha la sua pietanza o dolce che la caratterizza così anche il Carnevale.

Quanti di noi in questo periodo non hanno affossato il naso dentro lo zucchero a velo di una morbida frittella ripiena di crema o zabaione?

Beh io si con grande soddisfazione.

Ma quale è la storia di questo dolce carnascialesco?

La “fritoea o fritola” in italiano frittella è la regina dei dolci veneziani che vive il suo momento magico a Carnevale.   E’ considerata, da sempre,  il dolce nazionale della Repubblica Serenissima.

La si trova e si mangia  non solo a Venezia, ma in tutto il territorio veneto-friulano, fin quasi alle porte di Milano.

In particolare le fritole veneziane vantano una storia che risale alla seconda metà del ‘300 e la loro ricetta è una delle più antiche conservate in un documento di gastronomia, oggi custodito a Roma presso la Biblioteca Casanatense.

La versione rinascimentale delle fritole fu inserita negli appunti di cucina di Bartolomeo Scappi contenuti in una miscellanea di documenti al Museo Correr a Venezia.

Nell’antichità  le fritole  venivano  fatte solo dai fritoleri che ,nel ‘600, per sottolineare la loro importanza e ufficialità  si costituirono in corporazione. La corporazione era formata da settanta componenti all’origine e  ognuno aveva la  propria area dove poteva esercitare in esclusiva l’attività commerciale,  con la garanzia che a loro sarebbe potuti succedere solo i figli. In questo modo  tramandavano   l’arte e l’attività in famiglia di padre in figlio.

Nel Settecento la fritola fu proclamata “Dolce Nazionale dello Stato Veneto” ma non è chiaro se, nel solo periodo carnevalesco, visto che la frittura veniva fatta in grasso di maiale, o durante tutto l’anno con la versione fritta nell’olio.

Questa attività ebbe fine solo negli ultimi anni dell’800.

Nell’arte veneta troviamo  diversi quadri e immagini del ‘600/700 che raffigurano “la venditrice e il venditore di fritole”;  i cibi fritti, venduti agli angoli delle strade erano diffusissimi in diverse parti d’Italia – e d’Europa – già nel ‘300 , tanto da essere entrati nella raffigurazione al pari degli altri mestieri. Le frittelle venivano infilate in uno spiedo per poter essere mangiate ancora calde, senza ungersi le dita.

Sono molti anche i passi letterari nei quali si parla di questo gustoso dolce.

Secondo quanto riportato in un libro antico, «alle fritole s’accompagnava la malvasia, vino origi­nario di Malvasia, città dell’Epiro, l’antica Epidauro”.

Nel 1800 il nobiluomo veneziano Pietro Gasparo Moro  descrive così i fritoleri: «Hanno sempre sul davanti un pannolino che s’assomiglia al grembial delle donne, che sembra venuto allora fuor dal bucato. Tengono in mano un vasetto bucherellato con cui gettano del continuo zucchero sulla mercie, ma con tal atteggiamento che par vogliano dire: e chi sente l’odore e il sapore di questa cosa che noi inzuccheriamo?».

Mentre lo storico Giovanni Marangoni scriveva: «Cuocitori e venditori a un tempo, impastavano la farina sopra ampi tavolati per poi friggerle con olio, grasso di maiale o burro, entro grandi padelle sostenute da tripodi. A cottura ultimata le frittelle venivano esposte su piatti variamente e riccamente decorati, di stagno o di peltro. Su altri piatti, a dimostrazione della bontà del prodotto venivano esibiti gli ingredienti usati: pinoli, uvette, cedrini».

Della frittella parla anche Goldoni nella sua Commedia il Campiello scritta nel 1756.

Ma fritola  veneziana contagiò anche la cucina ebraica, che a Venezia ha uno dei ghetti più antichi, che ne fece una propria versione; ancora oggi viene preparata per la festa del Purim.

La frittella originale rimane comunque quella veneziana, in tutto il Veneto si sono diffuse ricette locali, dove la si trova in tantissime varianti.

La ricetta originale della fritola veneziana

Ingredienti

Farina bianca 00

Uvetta sultanina

Zucchero

Uova

Latte

lievito di birra

zucchero vanigliato

sale

olio di semi per la frittura

aromi (buccia di limone o arancio).

Preparazione

Mescolare in una terrina la farina con latte, uova e zucchero, facendone un impasto abbastanza tenero,  aggiungere un pizzico di sale, un po’ di lievito di birra , uva sultanina bagnata ed infarinata cercando che tutto si amalgami.

Lasciare lievitare il composto, coperto con un tovagliolo, in un luogo tiepido, per alcune ore.

Lavorare di nuovo il composto, aggiungendo, se occorre, un po’ d’acqua per avere un impasto fluido.

Versare a cucchiaiate l’impasto in una padella con molto olio bollente, e quando si rapprende, voltarlo con una schiumarola fino a che prende un color marrone chiaro.

Quando sono pronte, levarle con una schiumarola, posare su una carta assorbente, servendole coperte da un velo di zucchero vanigliato.

Alberta Bellussi

 

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Ti sei mai chiesto da dove viene il detto veneto     “Vecio come el cuc?”

Ci sono varie spiegazioni come spesso accade a questi detti  trasmessi nella tradizione orale ma, in questo caso, riconducono tutti all’idea di vivere tanti anni, di eternità e vetustà.

La prima versione fa derivare il nome cuc  da Abacuc, ottavo  dei profeti minori della Bibbia vissuto prima del 606 a.C.

Lamentandosi  con Dio per l’ingiustizia del mondo e l’oppressione dei deboli, Abacuc  gridò: “Fino a quando durerà questa tirannia?”.

E Dio rispose: “Abbi fede e pazienza: giustizia certo verrà e non tarderà”. E Abacuc ebbe tanta fede e tanta pazienza, per tanti anni e divenuto vecchissimo, rimbambì del tutto.

La seconda spiegazione  si riferisce al cuc, nome veneto del cuculo, che le leggende raccontano viva moltissimo e che sia in grado di predire la durata della vita altrui. Infatti si racconta che i bambini chiedesse al canto del cuculo : Quanti anni me datu de vita?

Per avere la risposta si contava il numero di cu-cu che corrispondevano al numero di anni da vivere.

Il cuc,  usato  nell’accezione di uccello parassita che ruba il nido agli altri uccelli, lo troviamo in un altro detto veneto che definisce, appunto cuc l’uomo che va a vivere a casa della moglie.

Si dice quel  le cuc.

La terza possibilità  rimanda al “cuco”, un fischietto che fu uno dei primi

giocattoli sonori dell’antichità.

Ognuno di noi ne preferirà una a me piace la versione del cuculo.

Maria santa te se vecio come el cuc

Alberta Bellussi

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Il PANEVIN … rito veneto

Molti ricordi mi legano alle bellissime feste attorno al panevin, ai canti, ai momenti gioviali e perché no, anche all’attesa impaziente  della divinazione che dopo l’accensione usciva da quel falò per l’anno nuovo.

Momenti autentici e genuini di un Veneto legato alle tradizioni e alla terra.

Una sorta di rito tra il pagano e il cristiano che in me ha sempre suscitato molto fascino.

 

La tradizione del Panevin fonda, infatti,  le sue radici nel lontano periodo celtico (circa V sec. A.C.) presso l’antico popolo dei Veneti.

Questo falò serviva per evocare il ritorno del sole sulla terra, cioè l’allungarsi delle giornate che inizia dal solstizio d’inverno. Il fuoco serviva per celebrare questo giorno che con il calendario Giuliano coincideva con il 25 dicembre.

Nel Medioevo, con l’evangelizzazione delle campagne venete, il Panevin assunse una connotazione cristiana e fu  spostato al giorno dell’Epifania per ricordare i Re Magi che portarono i doni a Gesù Bambino. Secondo la leggenda i falò della campagna veneta furono loro utili per trovare la via di Betlemme essendosi persi.

Al  ritorno, racconta sempre la leggenda, non vedendo nessuna luce nella campagna, si persero nuovamente nella pianura Padana andando a morire nel Milanese. Nella notte del 5 gennaio nel Medioevo, come anche oggi, l’occasione del falò forniva al popolo un momento di unione e ritrovo con tutta la comunità cittadina davanti a pinza e brulè aspettando con ansia la divinazione per l’anno nuovo che il fuoco dava.

 

Una delle principali tradizioni legate al Panevin, infatti,  è quella di osservare in che direzione va il fumo; in base a questa, i contadini trevigiani predicevano se il raccolto dell’annata sarebbe stato buono o cattivo.  Questo momento è detto dei “pronosteghi” e quelle che appartengono alla mia tradizione sono le seguenti anche se esistono molte altre versioni.

“se le fuische le va a matina, ciol su el saco e va a farina” (cioè se la direzione presa dal fumo e dalle faville è il nord o l’est, prendi il sacco e vai ad elemosinare)

“se le fiusche  le va a sera,  polenta pien caliera” (se la direzione è ovest o sud, il raccolto sarà buono…quindi la pentola sarà piena di polenta)

Lo scorso anno le fuische andavano a a mattina e quest’anno ci sarà un bella sorpresa che dite.

Alberta Bellussi

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Caro Babbo Natale,

sono tantissimi  anni che ti mando la mia lettera. Credo che accada da quando ho imparato a tenere in mano un pastello. Nelle mie letterine di bimba sognatrice  ti raccontavo, emozionata,  i miei sogni, le mie senzazioni, le mie passioni come se volessi, anche io, regalare a te i miei preziosi segreti in cambio dei tuoi doni. Mi ricordo l’emozione che provavo nello stendere la mia missiva, che proteggevo con la mano, quasi per nasconderla da occhi indiscreti perché solo a te e al mio diario, chiuso dal lucchetto, io volevo raccontare i miei segreti.

Sono sempre stata una bambina molto allegra e dotata di una grandissima fantasia… Quanti Natali sono salita con te sulla slitta e Oh Oh Oh via per la notte stellata a portare un sorriso ai bimbi del mondo. Le renne le conoscevo tutte per nome…e anche la cometa che segnava la grotta.

Ma la cosa bella è che ho sempre continuato e   continuo a scriverti, anche ora che sono  “grande”, perché io ci credo davvero e non mi è neanche mai sfiorata l’idea di mettere in dubbio che Babbo Natale esiste.  La sera di Natale, quasi quasi,  sento nell’aria la melodia degli scampanellii che accompagna il tuo veloce viaggiare per il globo terracqueo ad esaudire le richieste di piccini e grandi di tutto il mondo.

E come si fa a non credere a un uomo così buono e rassicurante? Infatti io ci credo.

Le mie lettere si fanno ogni anno più impegnative perché i “doni” che ti chiedo non sono oggetti ma valori, sentimenti e cose belle per il mondo e per le persone a cui voglio bene.

E’ un momento storico nel  quale faticano, spesso, le parole  ad uscire per dire qualcosa perché i fatti quotidiani sono così eccessivi e estremi che la sola voce che riesce a uscire è il silenzio.

Natale e Fine Anno sono periodi di bilanci dell’anno trascorso e un po’ il punto della vita fino a questo momento. Mi viene un nodo alla gola e la tristezza mi prende per tutte quelle cose che vorrei, che mi mancano, che … che…che…  poi un colpo di spugna pulisce la mia malinconia e sorrido. Sono una persona fortunata per mille piccoli motivi e non solo, anche per qualcuno  più grande. In questi giorni particolari dove tutto è esagerato mi metto a pensare, a riflettere, a ripensare ai consigli, ai dialoghi, ai momenti no a quelli si… boh mi piace  mettermi in difficoltà,  mettermi alla prova per vedere a che punto del cammino della vita sono … strada da fare ce n’è sempre tanta e motivi per migliorare ancora di più.

I pensieri si mettono in fila come le carte di una mano  a Scala e aspettano di essere svelati.

E Caro Babbo Natale mi accade come la prima volta che andai a Lourdes che al bagno battesimale nel Gave, imbarazzata, infreddolita, spostavo il mio sguardo sempre più inumidito e emozionato a destra e a sinistra e  non riuscivo a chiedere nulla per me, volevo solo ringraziare; anche se ero andata lì arrabbiata e piena di dolore per la perdita di una persona a me cara, non sono riuscita a dire nient’altro che Grazie.

Anche ora, Caro Babbo Natale,  che ti scrivo penso a quei miei 2/3 piccoli desideri  che  timidamente provo a mettere nella lista prima delle altre cose importanti che le carte del mazzo spingono per far uscire.

Li ho posti, quasi furtivamente,  nei primi tre posti e poi al quarto  lascio la mano a una carta molto pesante che è quella di questa società … società che a volte mi trova emotivamente impreparata a vivere il suo cinismo.

Ho pensato di scriverti perché, in questo mondo popolato di tante cose tristi e negative, il Natale è  e rimane una festa magica.

Sì!

La gioia che esprime va oltre i drammi della vita. Anche la povertà, la miseria più estrema, a Natale, sembrano vivere l’illusione di un attimo di dignità.

Sembra che il mondo improvvisamente si accorga che tutte le persone hanno il diritto, anche se solo per un giorno,  di essere felici.

In questi giorni di sentimenti estremi che hanno il bisogno di essere espressi c’è una sorta di tregua delle cose brutte. Da sempre ci dicono a Natale bisogna essere tutti più buoni forse proprio perché è giusto che ci sia per tutti un time-out dalle difficoltà, dalle amarezze, dalle tristezze.

Il Natale è quella bacchetta magica che, per qualche giorno, scuote le coscienze, riaccende i cuori, rimette in gioco la speranza, è il momento della bontà. E’ anche una sorta di bilancio personale dell’anno trascorso che diventa  l’occasione di dire grazie a chi vuoi bene con un piccolo pensiero o gesto.

In questo mese dove le piazze, le vie, le case, i balconi, i cespugli, gli alberi si vestono di luci con l’abito migliore di tutto l’anno, tutto ci  porta a riflettere sui valori, sui sentimenti.

Forse davanti a certi fatti di cronaca ci sorge spesso la domanda ma valori e sentimenti esistono ancora in questa società distratta, veloce ?

Io spero e credo che  siano ancora la benzina che muove le azioni e le scelte della società e non solo parole usate per darsi un tono, per essere a la page.

Eppure se apriamo  un giornale, se ascoltiamo  il TG non sempre sembra che siano i valori buoni a trionfare in questa società.

Anche  questo non sarà un Natale facile credo  e avrai davvero tanto tanto da fare.

Sarà, di nuovo un Natale, di gente che non sorride, di persone arrabbiate, di povertà diffusa, di truffe,  di una politica che si è dimenticata della gente. Un mondo di gente in corsa che vuole possedere e quando non ha più tempo capisce come le cose belle sono piccole, fragili alla vista insignificanti ma con un potere immenso.

Vorrei chiedervi tante tante cose per questo mondo: ritrovare l’armonia di vivere, l’equilibrio perduto, il rispetto di persone e ambiente, il tempo di dare e di amare, lasciare il tempo a chi è caduto per qualche motivo di rialzarsi senza bollarlo, sarebbe bello che  i valori sociali e la solidarietà tornassero ad essere valori, sarebbe  bello potersi abbracciare con il calore dei sentimenti, sarebbe bello vivere di verità e dell’amore che ci rende migliori.

Lo so, Babbo Natale ti chiedo davvero tanto, troppo che forse nemmeno una bacchetta magica delle più potenti uscite dalla scuola di Hogwarts potrebbe regalarmi.

Io ci provo, non si sa mai, magari accade quella magia che ti ho chiesto e questo mondo, che si è perso e che sta  vivendo momenti non facili si ritrova.

Il Natale risveglia il desiderio di serenità. Ci fa apprezzare la bellezza di quel bambino nato al freddo in una mangiatoia, di  quella meravigliosa mamma che dal primo vagito l’ha amato con un amore immenso e forse ritrovare il filo del nostro cammino.

 

Lo so, Babbo Natale, te la starai  ridendo a crepapelle, insieme a molti di voi che state leggendo la mia lettera perché è la lettera di una folle idealista che crede che i valori e i sentimenti abbiano un grande potere e che li vive al massimo, ancora meglio che crede nelle persone che hanno il coraggio di mettersi in gioco, di cambiare e di lottare se ne vale la pena ma sopratutto credo con convinzione che l’amore vince su tutto.

Che dici si può fare caro Babbo Natale?

 

Alberta Bellussi

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Il 13 dicembre è Santa Lucia.

Tante davvero le cose che rimandano a questa Santa, proverò in questo mio disquisire a cercare di dare una spiegazione a quelle più note e legate al nostro territorio.

In questa giornata ci torna alla mente il detto popolare: “Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia”.  Questo detto risale al periodo fino al 1582, quando il solstizio d’inverno cadeva proprio il 13 dicembre; ma in quello stesso anno Papa Gregorio XIII riformò il calendario, che risaliva all’epoca di Giulio Cesare perché non era più corrispondente con la realtà dei fatti presentava troppe imprecisioni.  Fu, quindi,  adottato un calendario, dove i  calcoli della scienza, collocano il giorno più breve in corrispondenza del solstizio d’inverno, che cade tra il 21 e il 22 dicembre.

In alcune regioni del Nord Italia, come il Trentino, il Friuli Venezia Giulia, la Lombardia, l’Emilia e il Veneto esiste una tradizione legata alla Santa, il 13 dicembre, giorno della sua morte. I bambini le scrivono una letterina, dicendo che sono stati buoni e si sono comportati bene per tutto l’anno, e chiedendo in regalo dei doni. Preparano del cibo e delle carote sui davanzali delle finestre, per attirare la Santa e il suo asinello e poi vanno a letto.

In Svezia e in Danimarca è abitudine che la mattina del 13 dicembre la figlia primogenita si vesta con una tunica bianca e una sciarpa rossa in vita e, con il capo coronato da un intreccio di rami verde e sette candeline, porti caffè, latte e dolci ai famigliari ancora a letto, accompagnata dalle sorelle più piccolo vestite con tunica e cintura bianche.

Ma chi è questa santa italiana così generosa e quale la sua storia? Scopriamola insieme…

La prima leggenda

C’era una volta una piccola e bella fanciulla siciliana di nome Lucia, figlia di un ricco nobile di Siracusa. La bimba sin da subito si sentì profondamente legata al Cristianesimo, tanto da voler dedicare la sua vita al Signore. I genitori non concordavano con questa sua decisione e vollero sposarla con un giovane pagano, ma lei si rifiutò. Da quel momento iniziò una vera e propria persecuzione per farle cambiare idea, ma Lucia non volle saperne, così per punizione le vennero strappati gli occhi e infine fu uccisa, oggi infatti è considerata la protettrice della vista.

Una volta defunta, Lucia salì in cielo e conquistò con i suoi modi affabili tutti i santi, compreso lo scontroso S. Pietro.  Lucia era molto triste. San Piero chiese la ragione di tanta malinconia e lei rispose che avrebbe tanto voluto rivedere la sua amata Sicilia e i suoi poveri. S. Pietro si commosse e decise di chiedere a Dio se fosse possibile esaudire tale desiderio. Dopo un po’ udì un tintinnio: il Signore aveva in mano una chiave dorata, con la quale Lucia avrebbe potuto aprire una finestrella sul mondo. Così S. Pietro e Lucia salirono su una nuvoletta che li portò alla finestrella, Lucia infilò la chiave nella fessura e le apparve il mondo. La Santa fu felice di quella visione ma dopo un po’ di tempo qualcosa ricominciò a turbarla.

Un giorno decise di tornare sulla nuvoletta e di dare un’altra sbirciatina sul mondo, ma questa volta quello che vide fu terribile, le comparvero infatti tutte le ingiustizie degli uomini e le sofferenze dei poveri bambini. Lucia, triste e dispiaciuta, se ne tornò in cielo ma il Signore riconobbe il suo turbamento e decise che da quel momento sarebbe stata proprio lei a portare una volta all’anno, il 13 dicembre giorno del suo martirio, un po’ di felicità ai bimbi della terra. Lucia, fattasi Santa, raccolse moltissimi giochi e li mise in grandi sacchi, il peso però era davvero eccessivo, così S. Pietro chiese in giro se c’era qualcuno disposto ad aiutarla. Fu allora che si sentì pronunciare un sonoro “Iho, Iho”, era l’asinello di Pietro, che tutt’oggi le fa da fedele accompagnatore.

 

Secondo un’altra leggenda diffusa a Verona, verso il XIII secolo in città c’era  una grave ed incurabile epidemia di “male agli occhi” che aveva particolarmente colpito i bambini. La popolazione allarmata, aveva allora deciso di chiedere la grazia a Santa Lucia, compiendo un pellegrinaggio a piedi scalzi e senza mantello, fino alla chiesa di S. Agnese, dedicata anche alla martire siracusana. Oggi nel luogo dove un tempo sorgeva la chiesa, si trova invece la sede del Comune scaligero: Palazzo Barbieri.

La storia tramandata racconta che a causa del freddo i bambini della città si rifiutarono inizialmente di partecipare al pellegrinaggio. Per risolvere la situazione i genitori promisero loro che, se avessero ubbidito accettando di unirsi nella processione a piedi scalzi, la Santa avrebbe fatto trovare, al loro ritorno, numerosissimi doni. I bambini accettarono felici, l’epidemia terminò subito e da quel momento in poi è rimasta la tradizione il 13 dicembre di portare in chiesa i bambini per ricevere una benedizione degli occhi.

Nel corso del ‘900 in concomitanza con la ricorrenza di Santa Lucia, si è venuta a creare a Verona la tradizione di dare vita alla grande fiera che proprio nei tre giorni precedenti il 13 dicembre si svolge tra Piazza Bra, via Roma e piazza Cittadella, riempite dai cosiddetti “bancheti de Santa Lussia” che offrono a tutti gli interessati la possibilità di gustare specialità enogastronomiche o di acquistare prodotti tipici artigianali.

Anche a Santa Lucia di Piave in Provincia di Treviso si svolge una delle fiere agricole più antiche del Veneto.

Forse non tutti lo sanno e a me è capitato, nel mio vagare per Venezia, di entrare nella Chiesa di San Geremia e di trovare, con grande sorpresa,   le spoglie di Santa Lucia.

Originariamente le spoglie di Santa Lucia erano custodite a Siracusa, città natale della Santa, e qui rimasero per diversi secoli dopo la sua morte. Successivamente, durante le invasioni arabe dell’878, il corpo fu spostato in un luogo segreto perché fosse al riparo dagli attacchi. Nel 1040, il comandante bizantino Giorgio Maniace sottrasse Siracusa al dominio arabo e fece trasferire le spoglie della Santa a Costantinopoli. Il trasferimento definitivo a Venezia avvenne nel 1204, dopo la conquista di Costantinopoli da parte della Serenissima; il luogo designato per ospitare le reliquie fu la Chiesa di San Giorgio Maggiore ma nel 1861 fu abbattuta per offrir spazio all’attuale stazione ferroviaria che ancor oggi ne conserva il nome. Le spoglie della santa furono portate nell’attuale teca nel 1863 nella Chiesa di San Geremia che  si trova nel Sestiere di Cannaregio ed affaccia sul Canal Grande, vicino alla Stazione ferroviaria.

La chiesa che contiene le reliquie  è un importante edificio di culto che al suo interno custodisce molte   opere d’arte e  i resti mortali della venerata Santa Lucia di Siracusa. Sulla facciata esterna, visibile passando sul Canal Grande, si può leggere la seguente iscrizione:  ” Lucia Vergine di Siracusa in questo tempio riposa. All’Italia e al Mondo ispiri luce e pace”. Il luogo è meta di innumerevoli fedeli che da ogni parte del mondo portano venerazione alla santa.

L’episodio che molti a Venezia ricordano, è relativo alla trafugazione di Santa Lucia, avvenuta nel 1981, anno in cui alcuni delinquenti sottrassero le sue spoglie con un’azione fulminea e a mano armata, per poi chiedere un riscatto. Provvidenzialmente le spoglie della santa furono recuperate dalla polizia proprio nella data della sua celebrazione, il 13 dicembre dello stesso anno. Ogni anno nel Giorno di santa Lucia, si intensificano le celebrazioni e molti sono i visitatori che si recano alla Chiesa di San Geremia per rivolgere una preghiera alla santa ed accendere una candela.

Merita una visita.

Alberta Bellussi

 

 

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Il 6 dicembre si festeggia San Nicolò.

Chi, come me, ha passato la sua infanzia nella Sinistra Piave Trevigiana ricorda sempre questa giornata con un po’ di nostalgia. I santi che portano i doni ai bimbi nel periodo dell’Avvento sono diversi, a seconda delle usanze seguite nelle differenti zone d’Italia. Da me, la notte del 5 dicembre passava con il suo carretto trainato da uno stanco asinello e lasciava il dono del suo passaggio. Dalle mie parti  la tradizione vuole che,  la notte  prima del 5 dicembre, i bimbi scrivano una letterina al Santo con la richiesta di doni. Ricordo ancora le mie letterine,   il bicchierino di grappa, la sigaretta e un po’ di paglia per l’asinello. Non mi stupii mai che i gusti del Santo combaciassero perfettamente con quelli di mia mamma, ma io ho sempre voluto credere alle favole e mi andava bene così. Ricordo la vibrante emozione di quei momenti che alimentavano i miei sogni di bambina romantica. La mattina del 6 dicembre mi svegliavo prestissimo; ero emozionata e aprivo la finestra della mia cameretta e trovavo il mio pacchettino. Il cuore mi batteva forte forte. Erano piccoli regali ma avevano un grande significato.

A scuola poi si imparava la canzoncina:

San Nicolò de Bari

xè la festa dei scolari

 

 

San Nicolò, nel mio immaginario di bambina, me lo sono sempre rappresentata vestito da vescovo. Essendo un vescovo appunto, era raffigurato con la mitra e il pastorale. L’aria severa era poco compatibile con il ruolo che gli era stato attribuito. In realtà c’era anche un’altra versione, decisamente più allegra: quella di un vecchietto con la barba bianca e il vestito rosso bordato di bianco. Così venne descritto San Nicholas nel poema A Visit from St. Nicholas scritto da Clement C. Moore nel 1821.

Tutto ciò crea un pò di confusione e questa figura si confonde con quella di Babbo Natale e siccome qualche giorno dopo arriva anche lui a portarci i doni, continuai   a preferire la raffigurazione classica di San Nicolò in abiti vescovili così le due figure erano distinte e mi arrivavano due regali.

C’è un legame tra il nostro San Nicolò e questo San Nicholas con le fattezze di Babbo Natale?

Uno dei simboli del Natale è sicuramente il vecchio allegro e paffutello che porta i doni: Babbo Natale. Come molti sanno, la sua figura è legata a San Nicola di Myra in Anatolia.

Fin dal VI secolo il culto di San Nicolò (o San Nicola) era diffuso in tutto l’oriente. La sua fama quindi approdò in Italia, specie a Roma e nel sud che allora era dominato dai Bizantini. Attraverso i secoli il ricordo di questo santo non si spense, tanto che viene nominato come San Nicolò di Bari, quasi la città pugliese l’avesse adottato. Tuttavia, i baresi, di cui è anche patrono, festeggiano il santo il 9 maggio, giorno in cui le sue spoglie arrivarono in città nel 1087, mentre nel nord la sua festa ricorre, come ho già detto, il 6 dicembre che è la data in cui sarebbe morto a Myra nel 343.

È credenza diffusa che le reliquie di San Nicola si trovino nella Basilica di San Nicola a Bari, ma quest’ultima conserva circa la metà dello scheletro del santo, perché il resto si trova a Venezia…

Quando Myra cadde in mano musulmana, Bari e Venezia, che erano dirette rivali nei traffici marittimi con l’Oriente, entrarono in competizione per il trasferimento in Occidente delle reliquie del santo.

Nel 1087 una spedizione di marinai baresi raggiunse Myra e si impadronì di circa metà dello scheletro di Nicola.

I Veneziani non si rassegnarono e nel 1099 approdarono a loro volta a Myra per visitare il sepolcro vuoto dal quale i baresi avevano prelevato le ossa. Tuttavia qualcuno rammentò di aver visto celebrare le cerimonie più importanti non sull’altare maggiore, ma in un ambiente secondario… E fu proprio in tale ambiente che i veneziani rinvennero una gran quantità di minuti frammenti ossei che i baresi non avevano prelevato! I resti vennero trasferiti nell’abbazia benedettina di San Nicolò del Lido nella laguna di Venezia.

San Nicola di Myra era molto venerato a Venezia, essendo il Santo patrono dei marinai: ai tempi della Repubblica Serenissima, durante la Festa della Sensa, al termine della celebre cerimonia dello sposalizio del Mare, la messa solenne di ringraziamento veniva celebrata proprio nell’abbazia benedettina di San Nicolò del Lido.

Alberta Bellussi

 

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Perché questo detto? “Veneziani gran signori, padovani gran dottori…”

L’hai sicuramente recitato un sacco di volte questo detto che prende in rassegna, in modo eccessivo e ironico, le caratteristiche delle province venete.

 “Veneziani gran signori, padovani gran dottori, veronesi tutti matti e vicentini magna gatti”.

In realtà la versione ridotta di una filastrocca ben più lunga che parla anche di altre città del nord come Brescia e Bergamo.

La versione completa è:

 “Veneziani, gran Signori;

Padovani, gran dotori;

 Vicentini, magna gati;

Veronesi … tuti mati;

Udinesi, castelani co i cognòmj de Furlani;

Trevisani, pan e tripe;

Rovigòti, baco e pipe;

 i Cremaschi fa coioni;

i Bresàn, tàia cantoni;

ghe n é ncora de pì tristi… Bergamaschi brusacristi!

E Belun? Póre Belun, te se proprio de nisun!”

Ma proviamo ad analizzare le caratteristiche delle città venete che la filastrocca enuncia e a capirne il significato storico e culturale.

 

Veneziani gran signori: Venezia, ai tempi della Repubblica Serenissima, era sicuramente una delle potenze commerciali più grandi del Mondo. La sua aristocrazia, i mercanti erano molto ricchi   e il mecenatismo che si viveva in città hanno dato a Venezia la fama, in tutto il mondo, dello splendore estetico, economico e culturale della stessa. Venezia città di fasti, lusso sia nell’architettura civile che religiosa ma anche privata.

Padovani gran dotori:  una delle più antiche università europee è proprio quella di Padova. Nel corso della sua lunga storia, l’Università di Padova fu luogo d’incontro di alcune tra le più importanti personalità europee ed italiane, tra le cui fila si annoverano personaggi del calibro di Leon Battista Alberti, Galileo Galilei, Niccolò Copernico, Giuseppe Colombo e molti altri. Qui si laureò anche la prima donna laureata in Italia, Elena Lucrezia Cornaro.

Vicentini magna gati: è probabile che questo detto  derivi  dalla povertà diffusa in territorio vicentino, quando trovare da mangiare non era sicuramente facile quindi ci si cibava anche di questi animali.

Veronesi tuti mati: sembrerebbe che il detto si riferisca all’aria frizzantina che soffia spesso dal Monte Baldo, non a caso un tipo originale o stravagante è definito “uno spirito montebaldino”. Un’altra versione fa risalire il detto alla presenza di due grandi manicomi, uno a San Giacomo e uno a Marzana.

Trevisani pan e tripe: a  differenza di oggi, ai tempi della Serenissima Treviso non era considerato un territorio ricco, infatti  il piatto pane e trippa era ritenuto  uno dei più poveri che si potesse portare a tavola.

Rovigoti bacco e pipe: Rovigo è famosa per essere patria di famosi bevitori e fumatori, ancora oggi la grappa è uno dei prodotti tipici della provincia.

E Belun? Póre Belun, te se proprio de nisun!

Belluno era ritenuto un luogo difficile da raggiungere, freddo e nevoso. Il detto sta proprio ad indicare questo fatto di essere agli estremi della Regione un po’ fuori dal giro.

I detti hanno sempre una spiegazione che spesso è affascinante ma soprattutto carica di valore storico  e culturale.

Alberta Bellussi

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Avio De Lorenzo: il tronco è già statua

Una delle frasi più famose di Michelangelo recita:  “Ogni blocco di pietra ha una statua dentro di sé ed è compito dello scultore scoprirla”.

Trascorrendo qualche ora con lo scultore del legno Avio De Lorenzo di Costalta di Cadore, nel Simposio di Cordignano, ho avvertito dalle sue parole appassionate e partecipate che  quando parla del legno che plasma ne parla come di una materia  viva dotata di un carattere,  un profumo, un colore ma soprattutto della possibilità latente che porta con sè;  ha già una forma che prende vita da un’idea. Il tronco nel pensiero creativo dell’artista è già statua.

Nella mia mente, il lavoro di uno scultore mi è sempre sembrato estremamente affascinante e parlando con lo scultore Avio De Lorenzo ne ho avuto la riconferma.

Se ci pensate per un momento: da un pezzo grezzo unico, in questo caso un tronco, poco a poco, comincia ad apparire una “forma”, quel tronco che aveva una sua vita nell’albero viene   ad avere un  nuovo “significato”. Forma e significato rappresenteranno la materializzazione di un’idea che si trovava nella mente dello scultore.

Se ci pensate la statua si trova già dentro il tronco;  l’atto creativo sta nell’eliminare tutto ciò che di superfluo   impedisce alla statua di venire alla luce e di manifestarsi. Lo scultore con il suo agire  di sega, sgorbie e scalpelli “libera” la statua che è dentro quel tronco di legno o blocco di pietra. Lo scultore dà vita.

“ Ogni tipo di  legno ha una sua durezza e una sua plasmabilità- afferma Avio” ed è proprio quella che permette all’idea dell’artista di essere liberata. Il legno ha una sua vita nuova oltre l’albero ma ne conserva il profumo del bosco.

I soggetti “liberati” da Avio de Lorenzo sono molto spesso soggetti sacri ma ci sono anche  molte figure di  donne realizzate con linee morbide e volti protesi verso l’alto che richiamano l’ideale di bellezza classica.  La sinuosità con cui plasma le sue statue e le linee armoniose, mai spezzate o violente, fanno sì che  le creazioni  di De Lorenzo diffondano dolcezza e serenità.

Nelle sue ultime produzioni l’artista esprime nell’arte la contrapposizione tra le forme naturali del materiale e la geometria astratta del suo pensiero abbandonando la linea realista per entrare in una dimensione più astratta quasi onirica.

Avio De Lorenzo  vive e lavora a Costalta di Cadore (BL), un paese magico abbarbicato sulle Dolomiti Orientali il cui senso di appartenenza è molto forte nell’artista, sottolinea spesso le sue origini cadorine.

Da parecchi anni lo scultore partecipa a Simposi di sculture su legno ma anche su neve e ghiaccio; espone in mostre personali e collettive. Le sue opere sono presenti in diverse città dell’ America del Nord.

Mauro Corona dice spesso “Vivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per vedere dentro ”.

Scolpire è come una metafora della vita; abbiamo un grande tronco e siamo noi a plasmare la statua della nostra vita; siamo gli scultori della nostra esistenza come Avio De Lorenzo lo è della materia a cui da vita.

Alberta Bellussi